I De Goncourt e Renata Mauperin
Voi «non amate la vita di società, signorina?» – «Non la posso tollerare; mi pare di morire... Forse dipende dal fatto che non vi ho avuto fortuna. Sono capitata fra dei giovani seri, degli amici di mio fratello, dei giovanotti che ad ogni parola facevano una citazione. Quanto alle fanciulle non si può parlar loro che dell’ultimo sermone che hanno udito, dell’ultimo pezzo per pianoforte che hanno studiato, o dell’ultimo vestito che hanno indossato: sono molto limitati i discorsi colle mie coetanee» (9).
È tutta già contenuta nell’incipit, la vicenda di questo romanzo: Renata Mauperin (Sonzogno, Milano 1957, traduzione di Aristide Polastri). Gli autori sono Edmond e Jules De Goncourt ma nel 1957 ancora si italianizzavano i nomi, per cui troviamo Edmondo e Giulio in copertina, così com’è tradotto anche quello della protagonista, che si chiama Renée in realtà.
Dei fratelli Goncourt a scuola si studia Germinie Lacerteux, romanzo pubblicato nel 1865, manifesto quasi didascalico del naturalismo francese che ha dato voce e dignità letteraria alle classi popolari, alla vita comune. E a quello che si potrebbe chiamare semplicemente il movimento delle classi sociali. L’idea rivoluzionaria che il cambiamento non è male e perdizione e che il motore di questo è il lavoro: «Sono i lavoratori che arrivano alla ricchezza. È questa la grande rivoluzione» (29).
Questo romanzo, pubblicato appena un anno prima, ha per protagonista una giovane donna borghese e quindi ricca, colta quel per che ha potuto, quel che veniva ritenuto necessario e sufficiente per acquisire un buon marito, ma nel suo caso sufficiente a far sì che lei comprendesse che c’era un mondo là fuori, fuori dal recinto in cui le donne venivano tenute, e che questo mondo sarebbe stato interessante da frequentare.
Nel recinto stanno tutti, in questo romanzo. La madre saldamente orientata a trovare marito alla figlia Renata (bellissima l’espressione «la mamma covava un genero» [27], usata a descrivere le mosse della donna durante un piccolo ricevimento); il padre costretto a uscire dal suo ritiro campagnolo per occuparsi di un’azienda; il fratello Enrico, arrivista senza morale, innesco della catastrofe finale.
È forse vero che i personaggi sono piegati a essere tipi e quindi dotati di quella fissità necessaria a ogni esperimento fosse pure letterario, ma i fratelli Goncourt non perdono qui il contatto con la realtà dei fatti, che conoscono per averla vista e indagata. Ci si appassiona, diverte e a tratti dispera nel seguire la legittima aspirazione di una donna moderna a vivere la propria vita e poi nel vedere come l’ambiente la stritoli senza vederne la vitalità piena di verità.
Come era stato per il padre e per la sorella. Un destino che i cambiamenti di una modernità lenta ad affermarsi non riesce a impedire. È qui rappresentato l’incontro mortale fra il passato blasonato che non passa (il signor Burjot, ricchissimo commerciante padre della bella ragazza che l’amorale astuto Enrico vuole per moglie, non intende dare in sposa la figlia a nessuno che non sia nobile), e la identica necessità di distinzione della borghesia, che vuole sia il proprio nuovo blasone, e cioè il denaro, sia il vecchio, cioè il titolo.
La borghesia dei Goncourt è del tutto indifferente alla fede. Ne accetta l’espressione sociale minima e obbligatoria, cioè i sacramenti per i figli e le elemosine per il clero. Ma i due poteri, economico e religioso, nuovo e antico o forse eterno, s’incontrano a Parigi «in una grande casa di via della Madeleine dietro una porta che aveva un’umile apparenza» (53) dove abita l’abate Blampoix che «non aveva né cura né parrocchia. Aveva una clientela ed una specialità: era il prete del bel mondo e del gran mondo... Dalla religione dura, brutta, rigorosa dei poveri egli cavava come una religione amabile pei ricchi, leggera, seducente, elastica, che si piegava alle cose e alle persone, a tutte le convenienze della società, ai suoi costumi, alle sue abitudini ed anche ai suoi pregiudizi. Dell’idea di Dio egli faceva qualcosa di confortevole e di elegante» (54s).
Di fatto confessa le mogli, visto che già allora la fede era soprattutto faccenda di donne controllata da uomini, ne raccoglie i peccati e soprattutto i desideri, di salvare un matrimonio o un patrimonio, di combinare incontri e sposalizi per convenienza economica. L’abate Blampoix dispensa perdono, consigli e segreti, quelli che gli vengono consegnati per essere opportunamente divulgati.
In tutto questo la figura di Renata è lineare, limpidamente orientata almeno all’onestà. Quando scopre che il fratello Enrico si è impossessato di un titolo nobiliare per i suoi tramacci economici, avverte dell’usurpazione l’ultimo improbabile erede di quel titolo, che sfida a duello il fratello e lo uccide.
L’ultima parte del romanzo è del tutto diversa da quel che la precede. È la lenta agonia di Renata che non sa esattamente che cosa rimproverarsi e però si scioglie di dolore. Ha provocato la morte del fratello, ma per onestà, non per malvagità o per calcolo. Il suo peccato imperdonabile è non aver taciuto, non avere assecondato le regole del suo mondo che vorrebbe essere nuovo e invece è la solita feroce sceneggiata del potere che protegge se stesso.
Qui i Goncourt mostrano un lato nuovo della loro arte, perché il registro della morte è in qualche modo a parte, fuori dai manifesti e dai propositi didascalici. Renata muore, circondata dall’amore del padre, che l’ha cresciuta libera e vera.