Tra i non pochi temi teologici e pastorali che reclamano una rivisitazione in questi tempi di profondo cambiamento socio-culturale ed ecclesiale, quello dell’esercizio del ministero episcopale non appare affatto secondario, per quanto abbia dalla sua tutto il rilievo conferito dal concilio Vaticano II. Le circostanze recenti determinate dall’epidemia da coronavirus non fanno altro che accentuare l’urgenza di una rinnovata riflessione.
Stiamo attraversando la più grande crisi economica della storia recente. Siamo stati a un passo dal crollo del sistema sanitario nazionale. E per non fare saltare il sistema sanitario nelle aree più colpite del paese abbiamo probabilmente «sacrificato» vite umane. Ora l’emergenza è economica e sociale. Tre milioni di disoccupati in più a settembre, un 30% degli esercizi commerciali a rischio chiusura, un PIL tra il -9 e il -13%. Se va bene, il doppio rispetto alla crisi del 2009 (cf. Regno-att. 8,2020,247).
Negli ultimi anni, la Chiesa australiana è stata un esempio unico, foriero di notizie incoraggianti perché la storia dello scandalo e delle sue ripercussioni in Australia è unica.
Nelle ultime settimane la Chiesa italiana (e non solo) ha vissuto momenti di sconcerto e sofferenza per il «caso Bose». Un comunicato del 27 maggio della Comunità annunciava che la Santa Sede aveva ordinato al fondatore ed ex priore Enzo Bianchi e ad altri tre membri (Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi) di «separarsi dalla Comunità monastica di Bose e trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti». Il segretario di stato vaticano, Pietro Parolin, aveva emanato l’ordine il 13 maggio. E papa Francesco personalmente aveva approvato la decisione «in forma specifica», cioè in modo definitivo e senza possibilità d’appello.
Il ruolo delle religiose che si sono prese cura delle vittime della pandemia del 1918 che ha provocato milioni di morti in tutto il mondo è sempre più riconosciuto e lodato. Quello che forse è meno noto è che per secoli le suore sia in Europa sia come immigrate negli Stati Uniti sono state delle precorritrici dei tempi, aggiungendo il fervore del volontariato e la capacità imprenditoriale alla loro missione di prendersi cura dei malati e prevenire la diffusione delle malattie.
Nell’arteria principale di una delle città più grandi dell’upper Midwest americano, Minneapolis, il 25 maggio 2020 si è consumato l’ennesimo atto di violenza gratuita e ingiustificata da parte della polizia durante l’arresto di un cittadino afroamericano. George Floyd era stato fermato con l’accusa di aver usato una banconota da 20 dollari contraffatta. Sul conto del poliziotto che ha soffocato George Floyd c’era già una serie di denunce per abusi di potere e uso ingiustificato di forza letale. Questo omicidio va ad aggiungersi a una lunga serie di altri omicidi di afroamericani da parte della polizia o su cui la polizia e il sistema giudiziario hanno chiuso gli occhi, se non peggio, negli ultimi 400 anni di storia americana.
«La vita dei neri conta?». Davanti alla drammaticità delle divisioni razziali e delle discriminazioni denunciate negli ultimi anni – anche in forma violenta – dal movimento Black lives matter, il vescovo (nero) Edward K. Braxton di Belleville nell’Illinois se lo chiedeva qualche anno fa nella sua lettera pastorale La Chiesa cattolica e il movimento Black lives matter (Regno-doc. 3,2017,97).
Quest’anno la Germania ricorda due importanti anniversari tra loro correlati: il 75° dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale e il 30° della riunificazione (cf. Regno-att. 10,2020,281; 20,2019, 591). Divisi per decenni dalla Guerra fredda, i due stati tedeschi tornarono a essere una cosa sola a nemmeno un anno dal crollo del muro di Berlino.1 Pur non essendosi completamente persi di vista durante la separazione, i cristiani delle due Germanie poterono finalmente iniziare a capirsi.
Il 4 aprile il fratello di un boss di Cosa nostra è stato visto mentre distribuiva pacchi di pasta nel quartiere palermitano dello Zen. Quando La Repubblica-Palermo ha raccontato il fatto, l’uomo, con precedenti per traffico di droga, disse che voleva semplicemente fare della carità ma mostrò il suo vero volto quando minacciò il giornalista.1 Non è la prima volta che una mafia italiana sembra voler aiutare le persone in difficoltà, e non è un comportamento limitato all’Italia. Questi episodi ci ricordano che alcuni gruppi criminali sono alla ricerca di una merce preziosa e intangibile: la legittimità che si fonda sul consenso sociale.
La pandemia che ha colpito la società globale ha avuto e continuerà ad avere inevitabilmente delle conseguenze nei più svariati ambiti, incluso quello religioso. La sorpresa e durezza dell’impatto, la quantità di lutti e di malati, fino ad arrivare alle conseguenze economiche e sociali di un periodo di totale chiusura, sono solo alcuni degli elementi che hanno portato a una situazione di diffusa insicurezza. Quest’ultima si è tradotta in una ricerca di conforto nella religiosità?
Che cosa cerchiamo quando investighiamo le origini di ciò che chiamiamo mondo? Il desiderio di ricostruire la genealogia dell’universo, il passato da cui proveniamo, è sospinto da un interrogativo che investe il presente dell’esistenza personale e il destino solidale dell’umanità con il cosmo. La domanda sull’inizio è un interrogativo sul senso dell’origine che ci abita.
La questione che si pone quando si voglia affrontare il tema della riforma della Chiesa è quali aspetti si possano prefigurare. Osservando la storia, sono tre quelli sui quali l’attenzione si è soffermata: i costumi, la dottrina, le strutture organizzative. Se sul primo dei tre si è in genere concordato, sugli altri due la discussione è stata accesa. In verità anche circa la riforma dei costumi non appare pacifico cosa si debba intendere: il tema della santità indefettibile della Chiesa ha portato a distinguere la riforma dei costumi delle singole persone – autorità o fedeli in generale – da quella della Chiesa come totalità.
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Maria Elisabetta Gandolfi, Flavia Giacoboni, Manuela Panieri, Valeria Roncarati, Daniela Sala, Domenico Segna, Paolo Tomassone.
Scrivere un libro intorno alla figura di Gesù potrebbe sembrare un azzardo. Si sono occupate biblioteche e ancora oggi non si finisce mai di sostare su un personaggio che, al di là delle convinzioni personali, ha cambiato la storia del mondo. «Si calcola che nel XX secolo siano usciti 100.000 libri a lui dedicati»: così annota Piero Stefani proprio all’inizio di un libro dedicato a Gesù.1
Svelare le logiche di dominio ed esclusione (sessista ma non solo) ancora ben presenti in case, Chiese e strade del nostro tempo, e aprire prospettive di liberazione e rigenerazione: questo, da molto tempo, fanno le teologie femministe. Nel suo nuovo lavoro la teologa e pastora della Chiesa battista Elizabeth E. Green, già autrice di diversi importanti studi, torna a proporre i temi classici di queste teologie, perché, anche se spesso abbiamo la sensazione di dover sempre ricominciare da capo, in realtà gli schemi patriarcali si riproducono in contesti che cambiano; perciò gli inizi non sono semplicemente alle nostre spalle, ma – come in una spirale – vanno sempre riletti e approfonditi.
I testi presentano diagnosi e prospettive che toccano questioni riguardanti la sfera psicologica, il ruolo dello stato, le forme di comunicazione, la sospensione di alcuni diritti civili, i rischi d’impoverimento delle fasce sociali più fragili, questioni tutte che impongono in modo urgente una ridefinizione del nostro rapporto con la natura e fra le comunità e gli individui.
L'a. ha avuto ragione ad accettare di pubblicare un nuovo studio su Maria Maddalena e di farlo su una collana che porta il titolo «Farsi un’idea», che ha cioè il merito d’avvicinare il grande pubblico a questioni che potrebbero sembrare di laboratorio, riservate cioè a pochi studiosi e ai loro dibattiti accademici, e che hanno invece pesantemente influenzato il pensare e il vivere di un’intera tradizione religiosa.
Damiano Palano individua quel capovolgimento «ambientale» che ha portato a una marginalizzazione del discorso della verità. È cambiato l’ambiente, la sfera sociale e comunicativa, nella quale agiamo e pensiamo. «Il rapporto con la “verità” – scrive – viene sostanzialmente ridimensionato, perché l’attenzione si rivolge piuttosto alla trasformazione nelle relazioni tra cittadini e informazione. La proliferazione delle notizie false viene così ricondotta soprattutto alla modificazione strutturale dell’ambiente in cui gli individui si formano la loro percezione della realtà»
Il volume continua la riflessione di Non lasciamoci rubare la speranza e approfondisce, nella collana «Le ragioni dell’Occidente», il discorso che l’autore va sviluppando sul cattolicesimo del nostro tempo. Cirignano, docente emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale e per anni assistente dell’Associazione italiana maestri cattolici, parte dalla sua ricca esperienza educativa. È convinto che l’avventura conciliare abbia posto fine a una lunga difficile stagione e abbia aperto al futuro con proposte dirompenti, non sempre pienamente condivise e talvolta anche vivacemente contestate. Il suo discorso mira a una lettura attenta della storia e della Chiesa.
È ancora l’impensata eccezionalità dei giorni presenti a guidare le libere associazioni che portano a rileggere. S’impone il ricordo di un’epidemia felice a Copenaghen. Solo queste parole, felicità, epidemia e Copenaghen. La felicità fa da traino e la memoria prende il filo per il capo giusto. È Alice Munro, Troppa felicità (Einaudi, Milano 2011).
Per mesi, in Yemen, del coronavirus ci si è fatti beffe. Da marzo circolavano on-line sui social media meme e video con immagini di uomini che vestivano bottiglie di plastica o imbuti di stagno a mo’ di mascherine, così per riderci su; le massaie si inviavano catene di messaggi su WhatsApp con il decotto dei miracoli da propinare notte e dì per allontanare il virus (limone, zenzero e cardamomo); predicatori dell’ultima ora indicavano il virus come «il soldato invisibile» che punirebbe gli infedeli nelle società opulente e che mai e poi mai avrebbe potuto toccare i musulmani nella sacra terra d’Arabia.
Nemmeno il coronavirus ha fermato i conflitti in Medio Oriente e Nord Africa e, anzi, in alcuni casi si sono verificate evoluzioni notevoli. Parliamo ad esempio dell’attivismo della Turchia, che dopo essere intervenuta in Siria (ricordiamo i combattimenti attorno a Idlib tra fine febbraio e inizio marzo di quest’anno) si è poi resa protagonista in Libia.
Mentre nuovi conflitti armati dilagano in tutto il mondo, «la furia del virus ci mostra la follia della guerra. Per questo chiedo un immediato cessate il fuoco in ogni angolo del globo. È arrivato il momento di gettare le armi e concentrarci sulla vera lotta che dobbiamo portare avanti». Neanche i funzionari dell’ONU pensavano che l’appello del segretario generale António Guterres del 23 marzo potesse essere accolto. E invece a inizio aprile nelle Filippine, in Siria, in Camerun, nello Yemen e in molti altri paesi è stato trovato un accordo tra le fazioni in campo in diversi conflitti.
La pandemia da coronavirus è una prova dura per tutto il mondo e, in particolare, per l’Africa. Può però diventare un’opportunità per trasformare in senso solidale i sistemi politici e quelli economici. Una trasformazione che passa attraverso la remissione del debito, una più equa ripartizione delle risorse e un investimento in ospedali, scuole, alloggi. È questo, in sintesi, l’appello lanciato il 31 maggio dai vescovi dell’Africa e del Madagascar nella dichiarazione Il COVID-19 e le sue conseguenze, nella quale i vescovi del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (SCEAM) si rivolgono all’Unione Africana e alle agenzie di cooperazione internazionale per chiedere un fattivo sostegno per le proprie popolazioni.
Tutto da copione: il voto del 20 maggio scorso in Burundi si è svolto senza disordini; i due principali contendenti si sono entrambi dichiarati vincitori, la Commissione elettorale ha quindi ufficializzato la vittoria del delfino del presidente uscente, l’avversario ha fatto ricorso, la Corte costituzionale ha dichiarato valido il voto e l’avversario ha accettato la sconfitta. Parrebbe – dunque – un’elezione da manuale, senza problemi. Non fosse per il ruolo della Chiesa cattolica che, con la Conferenza episcopale (CECAB), ha rotto le uova nel paniere a chi aveva già predisposto il tutto per un gattopardesco cambio al vertice.
La senti gracchiare ovunque. Nei bar, nei negozi, sui taxi, nelle officine. Persino nei campi. La radio è onnipresente in Africa. A volte sono vecchi apparecchi a transistor. Altre volte sono modelli più tecnologici. In modulazione di frequenza passa di tutto: l’informazione, le funzioni religiose, le sit-com, la formazione professionale, le nozioni basilari sulla salute e, soprattutto, la musica (tanta musica). E tutti, ma proprio tutti, nel continente si sintonizzano e ascoltano.
Recentemente in Myanmar si sono registrate prese di posizione particolarmente forti da parte del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon. Entrambe sono state pronunciate a proposito dell’epidemia di coronavirus che sta interessando anche questo paese, i cui dati di diffusione sono ufficialmente bassi e nei confronti dei quali operano forme più o meno forti di censura. C’è quindi il timore che la diffusione possa essere molto maggiore in una realtà che ha strutture di rilevamento e di contenimento del contagio quasi inesistenti.
«Ammalarsi e morire di COVID-19 in America Latina è anche una questione di posizione sociale. La probabilità d’infettarsi non è infatti uguale per l’intera popolazione» (Gabriella Zucchi). Il continente gravemente colpito dalla pandemia ha tassi di mortalità ufficiali elevatissimi con il Brasile secondo solo agli USA, seguito da Perù, Cile, Messico, Colombia… poco o nulla sappiamo invece di chi muore laddove non c’è servizio sanitario, acqua potabile e soprattutto in Amazzonia. Molte voci si sono levate, specialmente di religiosi e religiose impegnati in una fattiva «solidarietà umana nel dolore» – scrive Rafael Luciani nello speciale della CLAR che qui presentiamo. Così come altrove, la pandemia ha squarciato il velo delle disparità e delle contraddizioni: economiche, politiche, sociali, culturali e religiose. Per questo si rivela densa di significato la metafora della Chiesa «ospedale da campo», lanciata da papa Francesco all’inizio del suo pontificato. Essa vale oggi per l’emergenza sanitaria, ma anche per la vita liturgica e spirituale delle comunità – come il Sinodo del 2019 e poi l’esortazione Querida Amazonia hanno sottolineato – e per la vita religiosa che s’interroga sul suo futuro nel continente (Mauro Castagnaro).
Nel contesto della settimana dedicata al 5o anniversario dell’enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, la Confederazione latinoamericana dei religiosi (CLAR) il 19 maggio ha lanciato la campagna #TodosSomosAmazonía (Siamo tutti Amazzonia), con l’intento d’inviare medici e infermieri volontari in località prive d’assistenza sanitaria e raccogliere fondi per l’acquisto di forniture ospedaliere e kit di protezione per le comunità indigene della selva.