Troppa felicità
È ancora l’impensata eccezionalità dei giorni presenti a guidare le libere associazioni che portano a rileggere. S’impone il ricordo di un’epidemia felice a Copenaghen. Solo queste parole, felicità, epidemia e Copenaghen. La felicità fa da traino e la memoria prende il filo per il capo giusto. È Alice Munro, Troppa felicità (Einaudi, Milano 2011).
È ancora l’impensata eccezionalità dei giorni presenti a guidare le libere associazioni che portano a rileggere. S’impone il ricordo di un’epidemia felice a Copenaghen. Solo queste parole, felicità, epidemia e Copenaghen. La felicità fa da traino e la memoria prende il filo per il capo giusto. È Alice Munro, Troppa felicità (Einaudi, Milano 2011).
Rileggere in cerca di una pagina che ha lasciato un’impressione così forte è in effetti uno dei modi immaginabili di riprendere un libro, ma in questo caso è impossibile la lettura saltellata da studentessa in corsa per un esame perché le storie e la scrittura sono così assolutamente compiute che ci si trova persi tra le parole, dentro storie perfette. Cosa vuol dire perfetto, nel caso di un racconto? Che ogni racconto è un frammento di mondo. Che ogni frammento è così tremendo e concepibile che lo si vuole percorrere con i passi dei personaggi, perché loro siamo noi come siamo o come potremmo o avremmo potuto essere. O potremo.
«Bambinate» ci sommerge con la terribile innocente malvagità dell’età giovane. Le piccole Marlene e Charlene quasi gemelle nell’aspetto, amiche per caso proprio in virtù di questa somiglianza che altri attribuiscono loro, superiori di una superiorità incerta e bambina, coltivata, ostentata, che ha bisogno della conferma triste di una piccola coorte, tutt’intorno, di bambini giudicati inferiori.
Marlene e Charlene sono banali nei discorsi, nelle esagerazioni, nei pensieri, perfettamente gemelle nel diventare assassine. Certo sempre c’è uno che ha l’idea e un altro che solo gli va dietro. Solo. E vederlo rappresentato è più importante di un intero catechismo, perché è un attimo di non decisione a farci perdere l’umanità.
Le ossessioni possono raggiungere la quiete quasi perfetta di una bella coppia di sposi che si vogliono bene. Sono Roy e Leain «Legna». Lui è tappezziere e ha la passione della legna, che taglia nel bosco e vende. Lei è impiegata, ma un certo inverno ha lasciato l’impiego, presa da una forma di malinconia arrivata chissacome. Roy «sente la mancanza della moglie di un tempo, piena di energia e buonumore. La rivorrebbe indietro, ma non può far nulla, tranne mostrarsi paziente con questa donna apatica e mesta» (245). Intanto continua a tramare per avere accesso a parti di bosco interessanti dove prendere i tronchi lasciati dopo gli abbattimenti. Conosce gli alberi come esseri viventi, sa le loro differenti cortecce, come quella del «frassino dal portamento marziale e dal tronco rugoso come un velluto a coste» (247).
Sa il loro profumo differente quando bruciano nel caminetto, e ama quello del melo e dell’acacia, che usa per accendersi il fuoco nel suo laboratorio quando vuole ritrovarsi. Ma non sempre le ossessioni generano tragedie. Roy va a fare legna in una giornata di neve, va anche se non è un giorno giusto perché ha paura che qualcuno gli rubi il bosco, un qualche speculatore di boschi capace di fare contratti imperdibili, così raccontano in paese.
Va, scivola in modo sciocco come un turista sciocco della città, si rompe malamente qualcosa nella gamba e striscia carponi verso il furgone che però non raggiungerà. Ma la tragedia non c’è. Sua moglie quel pomeriggio è improvvisamente uscita dalla malinconia ed è andata a cercarlo nel bosco. Lui lo ignorava, ma lei sa guidare il furgone e lo salva e anche, a sorpresa, ha un’intuizione che lo libera dall’ossessione. È per lui il bosco. Nessun lupo cattivo glielo sta sottraendo. Non tutte le ossessioni finiscono in tragedia.
Cosa vuol dire perfetto, nel caso di un racconto? Vuol dire che il destino non è segnato. Che le decisioni sono possibili. «La luce può venire».
È l’ultimo racconto quello che dà il titolo al volume. È il racconto liberamente preso dalla vera avventurosa vita di Sof’ja Kovalevskaja, matematica russa, docente universitaria a Stoccolma.
Morì a 41 anni e non ebbe una vita che si possa definire felice. Eppure.
La felicità possibile durante l’epidemia di vaiolo a Copenaghen è il risultato ambiguo di un quasi delirio. Lei, già grave ma non lo sa, viaggia verso Stoccolma in treno dove incontra un giovane medico che ha un’intuizione sul suo male e le consiglia di deviare, di non passare da Copenaghen perché c’è un’epidemia, eccola, un’epidemia di vaiolo che le autorità tengono un po’ nascosta.
Lui spera così di salvarla, è già malata, lo intuisce quasi per una dote soprannaturale che lui si riconosce appena. Le dà anche una pillola, un farmaco nel caso il viaggio le diventi troppo pesante. Lei segue il consiglio. Fa una lunga deviazione che le costa uno sforzo sovrumano e quando arriva a Stoccolma è davvero molto malata. Il farmaco l’aiuta.
È forse grazie a questo farmaco che può leggere sotto il segno della felicità tutta la sua vita formidabile, inquieta, irrimediabilmente incompiuta, pur avendo lei attraversato la storia e l’amore e anche la passione per la conoscenza, per la matematica, qualcosa del tutto insolito per una donna dell’epoca, che l’ha resa famosa e felice almeno per un poco, ovvero ogni volta che un problema matematico s’imponeva alla sua attenzione esigendo di essere risolto.
Ecco la potenza buona di questi racconti di Alice Munro: nascosta nelle pieghe dei giorni, in modo diverso ma simile a quella che lei meravigliosamente racconta, impensata arriva qualcosa che somiglia alla felicità.