Alcuni mesi fa, analizzando il referendum costituzionale che ci stava davanti concedemmo poco alla qualità di quella riforma, pochissimo a chi se l’era intestata (Renzi), nulla ai sostenitori del «no» (Regno-att. 20,2016,577). A posteriori, alla luce della sconfitta renziana del 4 dicembre e di quello che sta succedendo nel paese, a cominciare dal Partito democratico, rimango convinto di quella lettura.
A tre mesi di distanza dal 4 dicembre, del referendum si parla ormai poco. Quando se ne parla, lo si fa sulla base di interpretazioni generali, secondo le quali la vittoria del «no» sarebbe un’altra manifestazione del fenomeno populista. L’obiettivo di questo articolo è illustrare la natura dinamica del voto referendario, ricostruendo anzitutto il maturare delle scelte per il «sì» e per il «no» dal giugno al dicembre 2016, e poi mettendo a fuoco, con un esercizio d’analisi retrospettiva, i vincoli politici di medio termine che presumibilmente hanno finito per condizionare l’esito del referendum sulla riforma costituzionale. La tesi è che la vittoria del «no» era molto probabile, ma forse non nelle proporzioni che ha avuto.
Il Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale, sottoscritto il 1o febbraio da alcune organizzazioni islamiche presso il Ministero dell’interno merita una speciale attenzione, con riferimento ad almeno tre profili. Ai precedenti impegni assunti da esponenti musulmani sempre al Ministero dell’interno negli anni scorsi, ai contenuti dell’odierno documento, ai possibili risultati che possono derivarne.
La maternità biologica c'è eccome, ma esiste anche una maternità infinitamente allargata, allargata a tutti coloro che entrano in contatto con il bambino e anche a coloro che costruiscono il mondo in cui il bambino cresce e vive. Questa nuova maternità che tocca tutti è la maternità come cura. E la Chiesa è madre? Ecco che la Chiesa madre che cura è una Chiesa che non si pone nemmeno il problema del chi curare. Del chi è dentro e chi è fuori. È universale come universale è la cura. Ci si deve educare a essere madri.
Mons. Dario Edoardo Viganò, milanese, ha 54 anni ed è prete dal 1987. Teologo-semiologo particolarmente attento al linguaggio cinematografico, dopo aver collaborato a lungo con la Conferenza episcopale italiana è arrivato in Santa Sede nel 2013, quando Benedetto XVI lo ha chiamato a dirigere il Centro televisivo vaticano. Lo incontriamo presso la sede della Segreteria per la comunicazione, nata nel 2015 e della quale è stato nominato prefetto.
Dopo anni di dialogo e negoziato tra i rappresentanti cinesi e la Santa Sede, pare sia stato raggiunto un consenso preliminare sull'annosa questione della nomina dei vescovi, e che e questo condurrà a un accordo tra le due parti. Secondo la dottrina cattolica, il papa rimane l’ultima e la più alta autorità nella nomina dei vescovi. Tuttavia non è affatto la fine della questione. Entrambe le parti hanno bisogno di continuare il dialogo sulla base della reciproca fiducia che si è sviluppata, per risolvere altri problemi, uno alla volta, con pazienza e positività.
Il lungo articolo dell’arcivescovo di Hong Kong, card. John Tong, apparso sul Sunday Examiner del 9 febbraio e che qui traduciamo, riveste una grande importanza. Esso, oltre a fare il punto sul processo di dialogo in atto tra Santa Sede e Cina, rappresenta il rovesciamento della linea politica del suo predecessore, il card. Joseph Zen, che era ispirata alla necessità per la Chiesa di un’opposizione frontale, in tema di libertà religiosa e di diritti umani, al regime di Pechino.
La campagna elettorale che condurrà al voto del 23 aprile e al ballottaggio successivo del 7 maggio sta per entrare nella sua fase decisiva. Eppure non sono mancati momenti già piuttosto decisivi che hanno contribuito a delineare un quadro incerto e da molti definito caotico. Al momento ci sono infatti cinque candidati che, secondo i sondaggi, avrebbero concrete possibilità di raggiungere il ballottaggio. Si tratta del candidato di estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon, di quello del Partito socialista Benoît Hamon, di quello «centrista» Emmanuel Macron, di quello post-gollista François Fillon e infine della candidata frontista Marine Le Pen.
A due mesi circa dalle elezioni presidenziali arriva un avviso ai candidati: non è mai stato così difficile prevedere il voto cattolico in Francia.
Rogue One non è una fiaba, ed è bene che sia così. In questo film non c’è nulla che faccia sognare, ma induce piuttosto a riflettere. Non proclama alcuna religione, ed è bene che sia così (forse perché proprio quella catastrofe galattica ha evocato il fallimento della religione della Forza e dei suoi rappresentanti istituzionalizzati, l’ordine jedi?). Questo film non proclama alcuna metafisica, vuole solo fare soldi e per questo divertire in modo grandioso: è così, e questo non è nuovo, né stupisce. Quindi niente fiaba. Ma Rogue One mostra ciò che significa vivere sotto un impero galattico: distruzione di famiglie, prigioni, Lager, persecuzione, combattimenti porta a porta, guerra civile, armi di distruzione di massa, in breve tutte le forme della paura.
Uscito nelle sale italiane a metà del dicembre scorso, The Rogue One è una storia indipendente nella saga di Star wars, «una delle tante possibili nell’universo sviluppatosi dal Big Bang mentale di George Lucas» – scrive M. Cappi – e si colloca prima del IV episodio (Una nuova speranza) e dopo il III (La vendetta dei Sith).
Un saggio che non esita a gettare uno sguardo severo sulla storia intellettuale e culturale dell’Italia repubblicana, il cui moralismo è responsabile, secondo l’autore, della paralisi che affligge il paese da troppo tempo.
Il volume ha l’encomiabile merito di tentare lo sforzo di superare logori paradigmi, vale a dire le immagini storiografiche, letterarie, cinematografiche che, nel loro insieme, vogliono imporre un angusta prospettiva di un’istituzione ecclesiastica la quale, in realtà, nel corso dei suoi otto secoli non fu mai eguale a se stessa, anzi ha inequivocabilmente dimostrato una flessibilità, una duttilità nell’adattarsi ai cambiamenti della storia a dir poco sorprendenti.
«Love is the key!» (l’amore è la chiave) ha scritto suor Rosemary come dedica sulla mia copia del libro e su quella di altri intervenuti a una presentazione bolognese del volume. Questa religiosa ugandese della congregazione del Sacro cuore di Gesù ha dedicato tutte le sue forze per sostenere le vittime delle violenze dell'Lra, in particolare le ragazze sequestrate e rese strumenti di morte nelle foreste d'Africa. Scorrendo queste pagine, che raccontano drammi quasi inconcepibili, troviamo anche una grande storia comune di "redenzione" che ha restuito vita e dignità a migliaia di donne e di bambini.
Incontrare Nicola Lecca, scrittore nomade, leggere i suoi racconti che profumano di vita… significa immergersi nel mondo della vita. Il romanzo I colori dopo il bianco insegna che la felicità è possibile. Ma occorre disfarsi del passato, spogliarsi di pregiudizi che vengono da complicati contesti familiari e sociali: la felicità si raggiunge se si lotta e si conquista la libertà.
Il volume raccoglie i dialoghi, le massime e le preghiere di Papa Pio XIII, interpretato da Jude Law, dal destabilizzante sogno iniziale fino al discorso finale tenuto da papa Belardo in piazza San Marco a Venezia, che chiude la prima stagione dello show, lasciando strategicamente incerto il destino del giovane papa americano.
D’Avenia ci aiuta a capire il mondo del Leopardi, i suoi dubbi e la sua incessante ricerca, il suo pensiero e la sua poesia; forse non ci restituisce un Leopardi afferrato dalla fede: ma rimane in questo senso significativa quella sua infinita inquietudine che sembra nutrirsi di religiosità biblica e che si lascia cogliere nei paesaggi, nelle notti lunari, nella Ginestra «che fiorisce nel deserto e fa fiorire il deserto», nei canti alla giovinezza e all’amore, nell’incessante aspirazione alla poesia che è luce e vita.
Qui si parla del dolore che non si può nominare. Questo libro è come quelle musiche splendide e tremende che accompagnano la nostra vita.1 Sono diverse per ciascuno di noi ma si somiglia il loro essere così assolute che attirano e insieme respingono, perché ci trascinano in un punto di vita in cui troppe cose stanno insieme.
L’immigrazione è un tema politico ad alto tasso di implicazioni simboliche ed emotive: non per caso è diventato un argomento di punta nelle agende dei governi, dei partiti e dei candidati. L’aspetto correlato della sorveglianza dei confini è dal canto suo uno dei simboli residui di una sovranità nazionale erosa in più punti dai processi di globalizzazione economica e finanziaria.
L’inizio della presidenza di Donald Trump non ha avuto nulla di consueto al di là del cerimoniale istituzional-religioso dell’inaugurazione del 20 gennaio. Il breve discorso del presidente, incentrato su «America first», non era un vuoto annuncio, ma il preludio a una serie di «executive orders». Per quanti speravano in una presidenza normale nel solco dei predecessori repubblicani è stato un brusco risveglio. Per quanti, cristiani e cattolici di orientamento conservatore, avevano visto nella sua elezione uno scampato pericolo, la prima settimana di Trump è, invece, iniziata in modo incoraggiante.
Sono in aumento i numeri della persecuzione anticristiana nel mondo. Secondo l’ultimo rapporto dello statunitense Pew Research Center il 74% della popolazione mondiale vive in paesi (oltre 100) con un alto livello di restrizioni o ostilità nei confronti della religione.Il fenomeno è così vasto che si fatica a contenerlo nelle cronache quotidiane. L’organismo International Christian Concern (ICC) nel suo rapporto annuale Hall of Shame si è concentrata sui 12 paesi del mondo dove si possono identificare «i peggiori persecutori dei cristiani» e ha introdotto per la prima volta quest’anno la categoria «Nuovi e degni di nota», che comprende Stati Uniti, Russia e Messico.
Si sono riuniti nel monastero benedettino di Keur Moussa (Senegal). Luogo di preghiera, meditazione e incontro tra culture e fedi (cristianesimo, islam, cultura dell’Africa occidentale). È in questo clima che i vescovi della Conferenza episcopale regionale dell’Africa del Nord (CERNA) hanno tenuto, tra il 2 e il 5 febbraio, la loro sessione annuale. La scelta del Senegal non è stata casuale. È un paese cerniera tra l’Africa subsahariana, travolta dai problemi del sottosviluppo, e l’Africa settentrionale, stretta tra instabilità politica (Libia), transizione democratica (Tunisia), regimi militari (Algeria ed Egitto), lotta per l’indipendenza (Sahara occidentale) e fondamentalismo islamico.
Una fine imprevista e imprevedibile, quella che ha portato al rovesciamento definitivo del padre-padrone del Gambia. Una parabola che pareva eterna – al pari di tanti altri dittatori africani ininterrottamente ancorati al potere – come i ventidue anni della presidenza di Yahya Jammeh, iniziati con il colpo di stato del 1994. La sorpresa è arrivata il 1o dicembre, quando i risultati del voto hanno assegnato la vittoria allo sfidante Adama Barrow. Nessuno si aspettava che Jammeh telefonasse all’avversario per congratularsi. Ci si attendeva una qualche mossa per capovolgere il risultato del voto. E invece no: il dittatore capitolava, così, senza colpo ferire.
Si sapeva ma si sono sempre coperti i fatti per tutelare la reputazione dell’istituzione anziché le migliaia di minori australiani vittime delle violenze anche sessuali subite nelle istituzioni delle diverse confessioni cristiane, nelle scuole, nelle associazioni sportive e ricreative di varia ispirazione. Nominati l’11 gennaio 2013 dall’allora governatrice generale dell’Australia, Quentin Bryce, i sei membri della Commissione d’inchiesta sulle risposte delle istituzioni alle violenze sessuali sui minori hanno dovuto indagare e verificare, senza entrare nello specifico dei singoli episodi, come le diverse istituzioni si sono attivate per rispondere alle denunce.
Dopo le aperture del Vaticano II al dialogo con le altre religioni, l’Asia ha conosciuto una stagione di vivacità, in cui i teologi hanno sviluppato una teologia dell’armonia. Tuttavia oggi il dialogo interreligioso si è raffreddato, in parte a causa delle censure dogmatiche della Santa Sede nei confronti di molti di questi stessi teologi e in parte anche per l’irrigidimento di tutte le religioni nel momento in cui si dialoga sui principi. Con il pontificato di papa Francesco è venuto un nuovo momento propizio per riprendere il dialogo, questa volta però orientandolo non a un chiarimento previo sui principi ma a una prassi di trasformazione del mondo, e prendendo come interlocutori non più soltanto le diverse religioni, ma tutti gli uomini «di buona volontà», quindi anche le ideologie laiche, assumendo come punto di partenza la coscienza individuale. Ecco allora la proposta del teologo indiano Michael Amaladoss: in Asia «il contesto e l’obiettivo del dialogo oggi si articola nei termini del Regno, e non della Chiesa. Il Regno, pur avendo il suo riferimento religioso, è anche un ideale laico, di comunità di libertà, fratellanza e giustizia, che si rivolgerà a persone di tutte le religioni». Il Regno è potenzialmente tutto il mondo, e il sacro è diventato il secolare.
Un dialogo immaginario tra lo scultore francese Frédéric Auguste Bartholdi e la sua opera, la Statua della Libertà, il Colosso di New York che tiene in mano la fiaccola della libertà chiamata a illuminare il mondo intero.
Gli anti-patizzanti del papa argentino segnalano ogni giorno gli errori che viene accumulando: di date, di nomi, di fatti. Ma portano acqua al mare stante l’abituale autocritica di Francesco che, intervistato il 22 gennaio da El País, ha sentenziato: «A volte prendo cantonate».