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Attualità
Attualità, 4/2017, 15/02/2017, pag. 102

Anche se avessi torto

Mariapia Veladiano

Qui si parla del dolore che non si può nominare. Questo libro è come quelle musiche splendide e tremende che accompagnano la nostra vita.1 Sono diverse per ciascuno di noi ma si somiglia il loro essere così assolute che attirano e insieme respingono, perché ci trascinano in un punto di vita in cui troppe cose stanno insieme.

 

Qui si parla del dolore che non si può nominare. Questo libro è come quelle musiche splendide e tremende che accompagnano la nostra vita.1 Sono diverse per ciascuno di noi ma si somiglia il loro essere così assolute che attirano e insieme respingono, perché ci trascinano in un punto di vita in cui troppe cose stanno insieme.

La bellezza e la felicità, e insieme l’orrore della loro fragilità, il fatto che tutto può in un attimo banalmente franare e franare e niente più si tiene e tutto quello che stava lì evidente e tranquillo si fessura e poi si rompe e niente è riparabile, proprio niente. Eppure noi torniamo e ancora torniamo a queste musiche.

Qui si racconta per la terza volta la storia di un dolore. Philippe Forest ha perso la sua bambina Pauline a causa di un osteosarcoma. Un evento così raro nei bambini che le analisi per la diagnosi sono state fatte e ripetute. Di questo tumore guariscono tre bambini su quattro. Una percentuale molto buona. Pauline è stata il numero quattro. Forest ha raccontato la storia del dolore innominabile in un primo libro (Tutti i bambini tranne uno, Alet 2005), poi in un secondo (Per tutta la notte, Alet 2006), e poi in questo, Anche se avessi torto. Storia di un sacrificio, Alet 2010.

Le prime pagine ripercorrono per l’ennesima volta i giorni della rivelazione. Non ci sono i sentimenti, solo i fatti. La banalità della visita di controllo dalla pediatra, la radiografia al braccio per rassicurarsi che non ci sia una piccola frattura come causa di un piccolo dolore, la diagnosi in pochi pochissimi giorni. L’enormità è che possa capitare, il corollario di disperazione e sentimenti è un di troppo, è già tutto contenuto nell’evento.

Pauline muore dopo cure forse non del tutto giustificate dal punto di vista medico, «ma era evidente che l’irresistibile, amoroso attaccamento che Pauline mostrava verso l’esistenza riusciva a convincere subito tutti quelli che la vedevano della necessità – assoluta, forse irrazionale – di salvarla» (21).

La narrazione finisce qui. Poi, al terzo libro, dieci anni dopo l’evento, Forest prova a riflettere su sulla malattia e la morte di una bambina «oggi». La prospettiva è la sua, e quale altra potrebbe essere la prospettiva del dolore? La sua di uomo, padre, marito e studioso; è docente di letterature comparate. E «ateo come di più non si può essere» (75).

Il tabù della morte. «Il senso di sacrale malessere che essa produce, chiunque varchi la soglia di un ospedale (…) lo prova subito (…) L’odore è identico ovunque (…) e si confonde con quello della malattia. La razionalizzazione delle cure impone l’uniformità di un ambiente sempre uguale: gli stessi corridoi, le stesse camere, gli stessi letti, gli stessi strumenti di misurazione disposti al capezzale dei pazienti, la stessa routine dei trattamenti sostituita al tempo» (24).

E la malinconia, tanto più forte, scrive Forest, nei reparti dove il fallimento della medicina è la regola.

Il corpo. «Secondo il vigente ottimismo ideologico, ogni miseria è patologica» (39). «Il complesso narcisistico, di cui siamo tutti prigionieri, fa del nostro apparire, del nostro corpo, il principale bene di consumo (…) Tra la chirurgia estetica e la cura oncologica non c’è soluzione di continuità. Entrambe hanno il compito di porre rimedio a una sofferenza fisica o psichica ritenuta inaccettabile perché inibisce quella rivendicazione di un essere perfetto che, come ci ripete di continuo il discorso contemporaneo, deve essere legittimamente soddisfatta. Ma non può esserlo» (29). «La morte presente è la morte interdetta» (71).

Il bambino malato. Esiste un patetismo dell’infanzia. La società oggi opera una «canonizzazione dei bambini malati», che è diventata un’industria. «Però mi sembra che considerare il bambino malato un santo significhi negarlo due volte: una prima volta come individuo, decretando in maniera definitiva che i bambini sono idealmente e straordinariamente uguali; una seconda volta come individuo malato affermando che la sua sofferenza è in fondo un bene – nascosto sotto l’apparenza di un male – che gli dà l’occasione provvidenziale – la fortuna in buona sostanza – di accedere a un livello superiore di esistenza» (61).

Preti e religione. Forest scrive cose tremende sulle parole tremende che una certa devozione ottusa ancora oggi pronuncia sulla morte bambina. Ma racconta che quando Pauline è morta, nella camera ardente della cappella funeraria è arrivato un prete che «ha avuto l’intelligenza di non dire niente», ha solo letto un passaggio della Bibbia, «l’unico che potessimo sentire», quello di Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata.

Poi li ha accompagnati al cimitero e ha deposto l’urna con le ceneri in fondo alla tomba. Scrive Forest: «Gli sono riconoscente di quel gesto perché non credo che qualcun altro – sicuramente non io – avrebbe avuto il coraggio di farlo» (75).

La verità. «Tutti la conoscono da sempre e tutti la dimenticano di continuo. Per questo va perennemente riscoperta. E lo si può fare solo a titolo personale, perché la rivelazione che concerne la verità non assume forma che non sia quella di un’esperienza. Voglio dire: di una prova» (23).

 

 

1 Ph. Forest, Anche se avessi torto. Storia di un sacrificio, Alet, Padova 2010.

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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