Italia - Politica: la sinistra che ha fallito
Personalismi, scissioni e scontri di potere
Alcuni mesi fa, analizzando il referendum costituzionale che ci stava davanti concedemmo poco alla qualità di quella riforma, pochissimo a chi se l’era intestata (Renzi), nulla ai sostenitori del «no» (Regno-att. 20,2016,577). A posteriori, alla luce della sconfitta renziana del 4 dicembre e di quello che sta succedendo nel paese, a cominciare dal Partito democratico, rimango convinto di quella lettura.
Alcuni mesi fa, analizzando il referendum costituzionale che ci stava davanti concedemmo poco alla qualità di quella riforma, pochissimo a chi se l’era intestata (Renzi), nulla ai sostenitori del «no» (Regno-att. 20,2016,577). A posteriori, alla luce della sconfitta renziana del 4 dicembre e di quello che sta succedendo nel paese, a cominciare dal Partito democratico, rimango convinto di quella lettura.
Il «sì» a quella riforma (insufficiente e pasticciata) era un «sì» a tenere aperta la direzione del cambiamento, che si era prodotto dopo il 1991, verso una democrazia competitiva e governante, con l’obiettivo di rafforzare comunque, anche con quella riforma, il governo della democrazia di fronte al perdurare della crisi economica e al movimento reazionario, comunemente detto populismo, che percorre l’Europa e l’Italia (cf. qui a p. 67). Era l’idea di una democrazia come strumento in mano ai cittadini per decidere del governo del paese: unica risposta ai populismi.
Ritorno a un passato che non c’è
Rafforzare il governo della democrazia era una necessità del nostro sistema politico, della qualità della nostra democrazia. L’alternativa era (ed è in atto) l’avvio di una fase destituente del sistema, di frammentazione dei soggetti politici, fra loro e al loro interno, incoraggiati dal ritorno al neo-vetero-proporzionale. Chi dichiarava mesi fa, riferendosi alle riforme costituzionali e alla legge elettorale, che quel che era stato fatto male in tre anni si poteva fare bene in tre mesi dopo la vittoria del «no» o mentiva o s’illudeva. Non si farà neppure un aggiustamento significativo alla legge elettorale uscita dalle decisioni della Corte costituzionale. La sconfitta del «sì» ha innescato una fase politica disgregativa, che rischia di frammentare il sistema politico e renderlo ingovernabile.
È già in atto, nel nostro paese come nel resto d’Europa, il rafforzamento in chiave antieuropea di una dinamica populistica e nazionalistica. Quello che passa sotto il nome di populismo descrive una reazione contro le istituzioni e i soggetti politici tradizionali; individua nella retorica dell’appello diretto al popolo quale fonte suprema e assoluta della legittimità politica la propria legittimazione; trova nel moralismo e nel volontarismo antielitario e antipolitico la risposta a ogni male.
Nei singoli paesi l’insufficienza delle classi politiche nazionali combinata con l’affermazione, fuori da un disegno istituzionale preciso, delle tecnocrazie europee, ha neutralizzato e poi affossato il démos europeo virtuale. Questo movimento ha poi amplificato nella sua fase di rientro la crisi degli equilibri nazionali, producendo un moto di reazione antipolitica e una risposta di tipo nazionalistico.
In Italia è il caso di Grillo e Salvini. Ma si potrebbero fare altrettanti esempi in Europa, dalla Brexit alla Le Pen (cf. qui a p. 88). Del resto la reazione populista si è innescata da noi a partire dal fallimento del governo tecnocratico di Mario Monti. E il tripolarismo è nato lì, non a vantaggio del partito neocentrista dei tecnici, come Monti sperava, ma come rivolta nei confronti del ceto politico sia di centro-destra, sia di centro-sinistra: del centro-destra, perché la stagione berlusconiana non aveva prodotto alcun risultato; del centro-sinistra, perché alla fine era diventato subalterno al governo tecnocratico.
Due sinistre a confronto
La sconfitta del disegno conservatore di Bersani alle elezioni del 2013 è interna a questa dinamica. E Renzi è figlio di quella sconfitta. Bersani immaginò nel 2013, in continuità con il tentativo di D’Alema del 1998, di andare alle elezioni con una proposta politica da sinistra tradizionale, di poter fare il pieno dei voti dell’elettorato della sinistra sindacalizzata e progressista, e di allearsi poi con i centristi di turno.
Uno schema che era già stato idealmente superato dalla prima stagione dell’Ulivo nel 1996, attraverso le coalizioni pre-elettorali, ma che proprio D’Alema nel 1998 aveva reintrodotto, chiedendo la fine dell’Ulivo. Anzi, quella fu la precondizione che D’Alema (in accordo con Cossiga) pose per poter varare il suo governo, nell’illusione di ricostruire la tradizionale divisione tra la sinistra e il centro. Uno schema quasi obbligato per una sinistra conservatrice che identifica nel primato del partito (ultima eredità comunista) la propria ragion d’essere.
Da questo punto di vista il PD del 2013 si configurava non come la presa d’atto della conclusione e del superamento (ancorché tardivo) di storie passate, ma la prosecuzione aggiornata delle medesime. In questo solco si può poi discutere della diversa qualità dell’aggiornamento di D’Alema rispetto a quello proposto da Bersani, ma il solco è il medesimo. Renzi è figlio del fallimento di quel disegno. E quando lo si accusa d’avere tradito la tradizione della sinistra si dice il vero. A partire da quel fallimento e legittimato dalle primarie, Renzi ha cercato di cambiare pelle alla sinistra italiana. Egli ha provato a inscrivere il PD nel solco social-liberale europeo, cercando di costruire un partito a vocazione maggioritaria, puntando a raggiungere i voti di un elettorato che sta oltre il campo del centro-sinistra.
Le riforme istituzionali e costituzionali erano una precondizione di questo progetto. Non ci è riuscito. E al suo fallimento ha concorso una parte della sinistra del PD. La sconfitta del 4 dicembre, che sin qui il segretario dimissionario del PD ha evitato di spiegare, non è un passaggio qualsiasi. È la fine di quel disegno. Sul partito e sul paese. Le due cose sono collegate, perché il PD è – nolenti o volenti – il perno dell’intero sistema politico.
Un nuovo Renzi?
Come si è arrivati alla sconfitta del 4 dicembre è noto. Renzi ha personalizzato dapprima la riforma, poi il referendum, come se la riforma fosse una sua personale battaglia, dimenticando che il processo di cambiamento non era iniziato con lui. Non riconoscendo quel processo politico più ampio di cui lui era parte e facendone una questione autoreferenziale, si è privato di un’oggettiva risorsa di legittimazione e ha concorso a creare quel fronte interno ed esterno al PD che lui stesso ha definito un’«accozzaglia di forze contro di me». Da un punto di vista elettorale, è riuscito a portare a votare «contro di sé» gente che non avrebbe votato. Da un punto di vista politico ha dato un contributo, nel fallimento del referendum, a descrivere quell’«accozzaglia» come realtà del futuro. Nella sconfitta di Renzi tuttavia non c’è la vittoria dell’altra ipotesi politica della sinistra. Entrambe escono sconfitte.
Non essere riusciti all’interno del PD ha contrapporre a Renzi un’ipotesi politica generale, che riguardasse il governo del paese in questa fase storica, e perciò si candidasse a contendergli leadership e premiership è stata la dimostrazione di un’incapacità e di un’inconsistenza politica della sinistra tradizionale. Il suo ultimo ridotto è cercare di auto-mantenersi, contrastando con ogni mezzo quello che è diventato il nemico principale: Renzi.
L’attuale separazione (la cosiddetta scissione) della sinistra di D’Alema e Bersani dal PD era già avvenuta nel momento in cui entrambi i leader avevano aderito ai «Comitati per il “no”». La sinistra tradizionale non è stata capace di rispondere alle gravi obiezioni che la storia le ha posto e si rifugia oggi come minoranza in un contrasto interno ed esterno per salvaguardare il proprio posto.
La scissione, da questo punto di vista – lo ha riconosciuto D’Alema quando ha detto che se al congresso del PD vincesse Orlando se ne riparlerebbe – è solo un passaggio elettorale per conservare posti in Parlamento e attendere la sconfitta di Renzi. È dunque uno scontro di potere. Tutto il dibattito che dal 4 dicembre 2016 si è consumato dentro il PD non ha altro significato, al di là delle richieste più o meno strumentali sul congresso, assemblee programmatiche e date.
Ma dietro questo scontro di potere affiora il fallimento più ampio della sinistra italiana. Non avendo il segretario del PD spiegato la sua sconfitta non è in condizione di ritessere credibilmente il profilo del suo progetto. Non basterà su un piano politico qualche discorso sul rapporto tra nuove tecnologie e lavoro. Egli ha perso la spinta del rinnovamento e non ha creato le condizioni strutturali (cioè istituzionali) per vincere nuovamente. Vincerà il congresso, ma il resto?
La galassia divisa della destra e il grillismo, che pure non hanno idee per far stare in piedi il paese, beneficiano delle contraddizioni del centro-sinistra e lucrano strumentalmente consensi cavalcando la crisi.
Con la scissione, Renzi esce elettoralmente indebolito, anche se probabilmente non di molto, ma quanto basta. Il progetto di ricostruire prima delle elezioni una coalizione di forze di centro-sinistra che possa raggiungere il 40%, come richiede la legge, non appare possibile. Questo basta per fare perdere nuovamente (e questa volta definitivamente) Renzi.
Poi gli scissionisti possono persino rientrare. In nome di una sinistra che non c’è più, mancando gravemente la responsabilità di governare il paese in un momento difficile della storia nazionale e internazionale. Oggi si tratta di decidere quale forma deve prendere in Italia e in Europa il conflitto ideologico interno alle istanze populiste e tra queste e una visione che riproponga le esigenze di una cittadinanza attiva che salvaguardi il funzionamento dello stato democratico.
Gianfranco Brunelli