Europa - 60° del Trattato di Roma: extra euro nulla salus
Solo un’economia europea più integrata può dare risposta alle paure del continente
È un piacere essere oggi qui con voi per celebrare questa tappa fondamentale della storia del vostro paese e della nostra Unione.
Sebbene gli ultimi anni siano stati difficili per la Slovenia, come lo sono stati per il resto d’Europa, potete guardare con orgoglio al percorso compiuto dalla vostra nazione. Dopo soli due anni dall’ingresso nell’UE siete stati in grado di adottare l’euro: primi fra tutti i «nuovi stati membri». E da allora la Slovenia è parte integrante della nostra unione monetaria. Ancor oggi l’85% degli sloveni è a favore dell’euro, un chiaro segnale della forza del legame che ci unisce.1
E mentre celebriamo il 10o anniversario dell’introduzione dell’euro in Slovenia, possiamo anche celebrare altri anniversari della storia recente europea: i 60 anni del Trattato di Roma, che ha dato vita al mercato comune; circa un quarto di secolo del Trattato di Maastricht, che ha segnato l’inizio dell’Unione economica e monetaria (UEM); i 20 anni del Trattato di Amsterdam, che ha instaurato la politica estera e di sicurezza comune.
C’è chi vorrebbe leggere questi eventi come il risultato di percorsi storici distinti, rispettivamente d’integrazione economica, unione monetaria e alleanza politica e militare. Ma non sono momenti discreti e irrelati.
Nascono tutti dallo stesso impulso, ossia dal desiderio di sicurezza dei cittadini d’Europa dinanzi a minacce comuni: la minaccia di un conflitto a livello continentale emersa più volte nel corso della nostra storia e le minacce globali connesse allo sviluppo tecnologico, ai rischi geopolitici e allo sconvolgimento degli equilibri dell’ambiente naturale.
La forza di questo impulso ha fatto sì che dal 1945 il corso dell’integrazione europea fosse prevalentemente chiaro. Sebbene le diverse linee d’integrazione abbiano avuto velocità diverse, il loro sviluppo è sempre stato proiettato in avanti. Praticamente non si è mai messo in discussione che, a lungo termine, l’Unione fosse la migliore risposta alle sfide comuni. Non si metteva in dubbio il rafforzamento dell’integrazione, era una pura questione di quando.
Oggi, tuttavia, percepiamo un crescente senso d’insicurezza. E per alcuni non è più ovvio trovare la risposta in un’unione sempre più stretta. C’è chi vede nell’integrazione una fonte d’insicurezza, piuttosto che un baluardo a nostra difesa. Un paese ha persino deciso d’invertire il processo anziché portarlo avanti.
Questo senso d’insicurezza ha in parte radici comuni in tutte le democrazie occidentali: i timori riguardo all’immigrazione, alla globalizzazione e al cambiamento sociale. Ma incidono anche fattori propriamente europei. In particolare, la gravità della crisi dell’euro ha indebolito la fiducia nell’UE come fondamento della sicurezza economica.
L’Europa, e soprattutto l’area dell’euro, si trova a un bivio. Occorrono risposte alle domande che pongono i cittadini. Risposte che devono essere equilibrate: l’Europa deve cambiare sotto certi aspetti, ma sono molte le cose di cui possiamo andare fieri.
L’integrazione europea ci ha permesso di conseguire grandi risultati, che non dobbiamo sminuire a causa delle difficoltà del momento. Al contrario, dobbiamo avere fiducia nei progressi che abbiamo compiuto e avere chiaro che senza ci troveremmo in condizioni peggiori.
Laddove evidentemente occorrono miglioramenti, sta a noi realizzarli. In particolare, mi riferisco a quei cambiamenti nella nostra unione monetaria la cui necessità è sotto gli occhi di tutti.
Il cardine del progetto europeo, sin dai suoi esordi nel 1957, è stato l’impegno all’apertura, che ha trovato la sua massima espressione nell’istituzione del mercato unico tra gli stati membri. Questo impegno è stato una scelta di ideali, ma anche fortemente pragmatico. I fondatori dell’UE avevano assistito alle gravi conseguenze dell’isolazionismo e del protezionismo negli anni fra le due guerre. Comprendevano che sostenere la crescita economica era indispensabile per togliere linfa ai nazionalismi disaggreganti e che l’apertura dei mercati era la strada da percorrere.
Il mercato unico ci ha reso più ricchi
Malgrado le difficoltà dell’ultimo decennio, nell’ampia prospettiva della storia postbellica la loro intuizione si è dimostrata esatta. Dal 1960 la crescita cumulata del PIL pro capite è stata superiore di un terzo negli UE a 15 rispetto agli Stati Uniti.
Anche la ricchezza privata, che per due volte era stata annullata dalle guerre del ventesimo secolo, è raddoppiata in percentuale del reddito nazionale. Certamente, questo processo è in parte riconducibile al naturale recupero del divario di sviluppo dopo la Seconda guerra mondiale. Ma molti elementi provano che la crescita è stata accelerata dall’integrazione.
In base a una stima, il PIL pro capite dell’UE sarebbe attualmente inferiore di 1/5 senza il processo d’integrazione avvenuto nel dopoguerra.2 Secondo un’altra stima, concernente gli effetti dell’integrazione dal 1980 (quando ormai il recupero del divario di sviluppo del dopoguerra si era esaurito), il PIL pro capite avrebbe guadagnato circa il 12% rispetto a uno scenario di non adesione.3
Anche i paesi che sono entrati a far parte dell’UE nel 2004 e nel 2007, come la Slovenia, hanno tratto benefici da questo punto di vista. L’incremento del PIL generato dalla partecipazione all’UE potrebbe addirittura risultare pari al 40% per i 12 nuovi membri,4 il che non desterebbe stupore poiché l’UE è di gran lunga il principale partner commerciale dei paesi dell’Europa centrale e orientale nonché la principale fonte di investimenti diretti esteri.
Oggi alcuni mettono in dubbio che l’apertura sia ancora la strada da percorrere per ottenere la sicurezza economica. Piuttosto ci dovremmo chiedere in quale situazione ci troveremmo oggi nel nostro continente senza una così lunga fase d’integrazione alle spalle. Probabilmente la risposta sarebbe: molto più poveri.
Inoltre, il mercato unico non è stato soltanto il fondamento della crescita ma ha anche sostenuto i mercati aperti. Come osserviamo oggi a livello globale, i mercati non possono restare aperti a lungo senza la percezione che tutti i partecipanti rispettino le stesse regole e che i benefici siano equamente condivisi. Il mercato unico è sopravvissuto, in ampia misura, perché l’Europa ha costruito un modello unico per la gestione di queste sfide.
L’approfondimento del mercato unico in Europa ha richiesto la creazione di istituzioni comuni per tutelare i cittadini dalla concorrenza sleale e dalla discriminazione da paesi esteri, in particolare il quadro regolamentare unico di cui assicura il rispetto la Corte di giustizia dell’Unione Europea.
I sistemi di protezione al centro del modello sociale europeo sono stati progressivamente iscritti nella legislazione europea, in particolare nella Carta dei diritti fondamentali, a tutela dei più vulnerabili.
L’Europa ha forgiato il primo sistema di ridistribuzione tra i paesi per contribuire a prevenire persistenti disparità regionali. Già a metà degli anni Settanta si utilizzavano i fondi europei per sostenere le regioni meno sviluppate o a rischio di declino industriale. Tra il 2007 e il 2013, 350 miliardi di euro del bilancio UE sono stati destinati ai fondi strutturali e d’investimento. La stessa Slovenia è stata un beneficiario netto di tali fondi, ricevendo finanziamenti annui pari in media a 1/5 della spesa pubblica slovena per investimenti.
Il mercato unico ci ha dato più sicurezza
Nessuno si sentirebbe di dichiarare che questo sistema di regole, meccanismi di protezione e ridistribuzione sia stato perfetto. Sappiamo che alcuni ritengono di trarne uno scarso miglioramento di vita, mentre altri lo considerano eccessivamente intrusivo. Ma ciò che abbiamo realizzato in Europa è un modello d’apertura sostenibile, che consente di raccogliere i benefici e mitigare al tempo stesso gli effetti indesiderati. Di conseguenza, se riscontriamo problemi, la nostra sfida è coltivare e migliorare il modello, non tirarci indietro.
Se ci tirassimo indietro, il risultato sarebbe non soltanto una perdita di ricchezza per il nostro continente, ma anche minore sicurezza politica per i nostri cittadini. Non dimentichiamo che, oltre a essere un motore di crescita, il mercato unico ha anche generato benefici essenziali dal punto di vista politico. In primo luogo ha dato impulso per cementare l’integrazione politica fra gli stati d’Europa.
Come ho appena menzionato, per essere sostenibile nel tempo il mercato unico richiede un sistema comune di norme la cui interpretazione e applicazione sia affidata a una funzione giudiziaria comune: la Corte di giustizia dell’Unione Europea. Laddove esiste una funzione giudiziaria, occorre una funzione legislativa incaricata dell’emanazione delle leggi, che in Europa compete al Consiglio dell’UE e al Parlamento europeo.
Inoltre è necessario un esecutivo, che applichi le decisioni della funzione legislativa e della funzione giudiziaria; questo è il ruolo della Commissione Europea. In altre parole, il mercato unico crea per propria natura un’unione politica più stretta.
La stessa dinamica si è osservata anche quando gli Stati Uniti hanno sviluppato un mercato interno. Come è noto, la breve Commerce Clause della Costituzione americana, che attribuisce al Congresso il potere di disciplinare il commercio fra gli stati, ha determinato nel tempo una sostanziale espansione del ruolo del governo federale in materia economica.
Il secondo beneficio sul piano politico è stato la maggiore influenza che l’Europa può esercitare nella scena mondiale.
Grazie alla politica commerciale comune, l’Europa può realmente incidere sulle trattative internazionali, a livello sia di accordi bilaterali sia di negoziati multilaterali in sede di Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Un vasto mercato è in grado d’influenzare le grandi multinazionali, consentendo all’Europa di tutelare ciò che ritiene importante, ad esempio la privacy in Internet.
Inoltre permette all’Europa di ricorrere alle sanzioni commerciali per contrastare misure ostili da parte di paesi esterni, rafforzando in questo modo anche la sicurezza militare. Se ora l’Europa vuole procedere all’ulteriore integrazione di altri settori, quali la difesa e la politica estera, dovrà contare sul fondamento economico rappresentato dal mercato unico.
Per tutte queste ragioni dovremmo essere fieri di quanto abbiamo ottenuto grazie all’integrazione. Non significa che dobbiamo ignorare le sfide dell’integrazione, né i deludenti risultati degli ultimi anni. Dobbiamo riavviare il mercato unico come agente di crescita e riuscire a compensare meglio chi ne esce penalizzato.
Ma un punto deve essere chiaro: oggi ci troveremmo in condizioni peggiori, sia economiche che politiche, se non avessimo percorso questa strada.
Dal mercato alla moneta
Il mercato unico ha avuto anche un altro effetto: ha condotto direttamente all’euro. Una volta che l’Europa aveva deciso d’intraprendere il percorso verso un mercato pienamente integrato, era auspicabile, se non essenziale, una moneta unica. E così sono stati avviati i preparativi per l’euro in occasione del vertice di Hannover del 1988, subito dopo la decisione di realizzare un autentico mercato unico.
Oggi alcuni mettono in dubbio questo nesso fra mercato e moneta e chiedono se non sarebbe stato meglio per l’Europa mantenere le valute nazionali. Dobbiamo però ricordare che la moneta unica non è apparsa dal nulla. È stata piuttosto il frutto della lunga e insoddisfacente esperienza dell’Europa del dopoguerra con diversi regimi di cambio. In altri termini, è stata anche una decisione idealistica e pragmatica al tempo stesso.
In Europa vi è sempre stato scetticismo riguardo alla libera fluttuazione dei tassi di cambio, in quanto si riteneva la volatilità valutaria nociva per l’integrazione commerciale. Per questa ragione, subito dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, si è cercato di ripristinare tassi di cambio fissi, prima attraverso «il serpente nel tunnel» e poi tramite varie repliche del Sistema monetario europeo.
Il pensiero dominante è stato ben colto dal Premio Nobel Robert Mundell, che ha elaborato la teoria delle aree valutarie ottimali, sostenendo di non riuscire a comprendere perché paesi in procinto di formare un mercato comune si dovessero gravare di una nuova barriera al commercio sotto forma d’incertezza riguardo ai tassi di cambio.5
Era quindi inevitabile che il mercato unico fosse rafforzato da una qualche forma di cambio fisso. La questione era quale forma. L’Europa conosceva il prezzo di regimi di cambio fissi in assenza di una moneta unica.
I paesi erano vulnerabili ad attacchi speculativi e crisi valutarie, come ha dimostrato nel modo più doloroso la crisi del 1992-1993 degli Accordi europei di cambio, in un mondo in cui i capitali erano meno mobili di oggi. La maggior parte dei membri godeva di poca autonomia di politica monetaria, poiché di fatto doveva importare la politica monetaria della valuta di ancoraggio.
E quando si ricorreva alla svalutazione, questa scelta non si dimostrava sempre un meccanismo di aggiustamento efficace per gli shock nominali, provocando invece l’aumento dell’inflazione e la necessità di altre svalutazioni.
Inoltre, si temeva che senza una moneta unica reiterati cicli di svalutazioni avrebbero distorto le condizioni per un contesto concorrenziale equo e compromesso il mercato unico nel lungo periodo. Un’economia che incrementasse la produttività e la competitività poteva trovarsi privata dei benefici di cui avrebbe dovuto godere in termini di aumento della quota di mercato a causa della svalutazione della moneta da parte di paesi concorrenti. E se alcuni paesi erano pronti a perseguire tali politiche a scapito di altri, perché aprire loro le frontiere in via permanente?
L’euro come miglior compromesso
Il punto non era che il mercato unico non potesse tollerare piccoli aggiustamenti di cambio fra alcuni dei suoi membri, ma che una forte volatilità valutaria, come quella osservata negli anni Ottanta, avrebbe messo a dura prova la volontà di ciascun membro di preservare l’apertura del proprio mercato. Possiamo solo immaginare come senza l’euro avrebbero reagito i mercati valutari agli shock verificatisi dopo la sua introduzione: lo scoppio della bolla tecnologica, il fallimento di Lehman e la crisi del debito sovrano.
Tuttavia, le ragioni a favore del-
l’euro risiedono da sempre nel compromesso. Rafforzando in questo modo il mercato unico, si sarebbero preservati i benefici dell’integrazione economica a vantaggio dell’intera Unione. Ma si sarebbero anche privati i singoli paesi dei meccanismi di aggiustamento agli shock di breve periodo, in particolare del tasso di cambio. Quindi, affinché il compromesso apportasse benefici, era essenziale ridurre quanto più possibile quei costi di breve termine.
Questo dipendeva dal soddisfacimento di alcune condizioni, definite da Mundell e poi da altri economisti nell’ambito della teoria delle aree valutarie ottimali. Si trattava dell’integrazione commerciale, per ridurre l’incidenza degli shock asimmetrici; della mobilità dei fattori e della flessibilità di salari e prezzi, per accelerare l’aggiustamento a fronte di shock; di un sistema di ripartizione del rischio, per limitare i costi di quel processo di aggiustamento per i singoli membri. Ma nell’area dell’euro, chiaramente, l’importanza attribuita a ciascuna di queste condizioni non sarebbe stata la stessa.
Realizzare una mobilità del lavoro su larga scala è stato sempre improbabile, dati gli ostacoli culturali e linguistici. Altrettanto improbabile era conseguire un livello di ripartizione del rischio di bilancio raffrontabile a quello degli Stati Uniti, anche per il ruolo di stabilizzazione relativamente maggiore svolto dai bilanci nazionali. Era quindi essenziale che i paesi dell’area dell’euro supplissero alla minore integrazione in questi ambiti con un più forte impegno in altri. Ciò, in particolare, aveva quattro implicazioni.
La prima era evitare errori di politica economica, come i cicli di forte espansione e contrazione derivanti dalla debolezza della vigilanza prudenziale. La seconda era sviluppare la capacità di tenuta agli shock attraverso riforme strutturali e il continuo rafforzamento del mercato unico. La terza era perseguire politiche fiscali solide per fornire margini di bilancio sufficienti nell’arco del ciclo. E la quarta era realizzare una forte unione finanziaria, con diversificazione delle attività e quindi un’effettiva ripartizione del rischio nel settore privato.
In questo modo, i paesi avrebbero potuto ridurre la gravità di una congiuntura negativa a livello locale, poiché gli shock asimmetrici sarebbero stati mitigati dai legami commerciali e da politiche di bilancio solide. In presenza di shock, i salari e i prezzi avrebbero potuto correggersi più rapidamente e, per reazione, le risorse sarebbero state riallocate più velocemente, limitando il costo dell’aggiustamento in termini di occupazione. Le politiche di bilancio sarebbero state uno strumento disponibile a livello nazionale per stabilizzare l’economia nella fase di transizione. E le perdite sarebbero state ripartite in seno all’Unione attraverso mercati finanziari integrati.
Non vi erano segreti al riguardo. Nel 1999 era noto a tutti che queste erano le condizioni per il successo. Per questa ragione abbiamo concordato il Patto di stabilità e crescita per le politiche di bilancio. Per questa ragione vi era una «E» nella sigla UEM: doveva chiaramente essere realizzata una convergenza strutturale. E per questa ragione si è sempre posta grande enfasi sulla necessità di un’integrazione finanziaria sostenibile.
Oggi è la politica che deve decidere
Sappiamo ciò che è avvenuto dopo: il rallentamento delle riforme strutturali, l’edulcorazione del Patto, la fragilità dell’integrazione finanziaria e la conseguente divergenza di fondo fra paesi. Ma un punto dobbiamo ribadire con molta chiarezza: non è stato l’euro in quanto moneta ad avere la colpa di questo. Le autorità nazionali sapevano cosa dovevano fare. La moneta non poteva proteggerle dalle loro decisioni.
Va infatti sottolineato che, quando i paesi perseguono le giuste politiche, l’euro non ostacola il successo. La Germania, ad esempio, non ha vissuto un ciclo finanziario di forte espansione e contrazione, ha perseguito politiche di bilancio relativamente solide e ha varato una serie di riforme del mercato del lavoro agli inizi degli anni 2000. La disoccupazione è scesa da circa l’11% del 2005 a meno del 4% di oggi, e questo durante la peggiore recessione dagli anni Trenta.
Anche se si commettono errori di politica economica, i paesi che soddisfano le condizioni necessarie in altri ambiti riescono a effettuare l’aggiustamento opportuno in presenza della moneta unica. Pensiamo all’Irlanda, che ha sofferto profondamente della crisi finanziaria. Tuttavia la disoccupazione è scesa da oltre il 15% del 2012 al 7% di oggi, anche grazie alla flessibilità del mercato del lavoro e al successo della strategia industriale mirata ad attrarre investimenti diretti esteri.
Oggi alcuni credono che l’Europa starebbe meglio se non avessimo la moneta unica e potessimo svalutare i tassi di cambio. Ma come abbiamo visto, i paesi che hanno attuato riforme non dipendono da un tasso di cambio flessibile per conseguire una crescita sostenibile. E per i paesi che non hanno attuato riforme ci si deve chiedere quanto avrebbero effettivamente beneficiato di un tasso di cambio flessibile. Dopo tutto, se in un paese la crescita della produttività è bassa a causa di problemi strutturali profondi, il tasso di cambio non può essere la soluzione.
Però, se alcuni governi non hanno messo in atto le giuste politiche per avere successo nell’UEM, è importante chiedere perché non lo abbiano fatto. L’area dell’euro si è basata fortemente sull’idea che il processo d’integrazione stesso avrebbe creato gli incentivi per perseguire politiche solide. In presenza di una maggiore concorrenza attraverso il mercato unico e dell’impossibilità di svalutazioni, i governi sarebbero stati costretti ad affrontare i problemi strutturali di lungo periodo e ad assicurare la sostenibilità del bilancio.
Se questo non è avvenuto è in parte perché il processo di realizzazione del mercato unico si è arrestato. Ma anche perché mancavano istituzioni fondamentali a livello di area dell’euro. Non avevamo un sistema comune di vigilanza bancaria per monitorare i flussi finanziari, situazione che in alcuni paesi ha consentito di celare le sempre maggiori perdite di competitività con una crescita non sostenibile trainata dal settore finanziario. E per le politiche economiche e di bilancio avevamo solo un processo decisionale comune debole.
Sono stati compiuti molti passi importanti per porre rimedio a queste difficoltà, in particolare la realizzazione dell’unione bancaria. Ma questo progetto è ancora incompleto. Come evidenziato nella Relazione dei cinque presidenti, ci separa ancora una certa distanza dal completamento dell’unione monetaria, ossia un’unione in cui i paesi assumono responsabilità collettiva per l’area dell’euro nell’ambito di istituzioni comuni.
Riscoprire lo spirito di unità
È quindi chiaro il percorso che dovrà seguire la nostra unione. Nessuna deviazione rispetto a quanto ha funzionato: il nostro modello di apertura economica rafforzato dalla moneta unica. Ma correzione degli errori che gli hanno impedito di funzionare bene come dovrebbe.
Per i governi nazionali ciò significa soddisfare le condizioni da sempre riconosciute come necessarie per prosperare all’interno dell’unione monetaria. Per l’insieme dell’area dell’euro questo si traduce nella costruzione di un’architettura istituzionale che preveda i giusti incentivi per le relative politiche e ci renda più capaci di resistere agli shock comuni.
Ma è altrettanto chiaro che, per arrivare a questo punto, bisogna procedere nella giusta sequenza. Ciò che oggi ci impedisce di progredire è, in parte, il retaggio di quegli errori del passato, all’origine della mancanza di fiducia che frena i paesi dal passare alla nuova fase dell’integrazione.
Fiducia riguardo al fatto che tutti i paesi rispetteranno le regole che si sono dati, in modo da ridurre la vulnerabilità reciproca. E fiducia che tutti realizzeranno le riforme necessarie per assicurare la convergenza strutturale, in maniera da facilitare il rispetto di quelle regole e da impedire che la condivisione dei rischi generi trasferimenti permanenti tra paesi. Il rispetto delle regole e la convergenza, e la crescita che ne conseguirebbe, sono oggi indispensabili per imprimere una nuova spinta al processo d’integrazione.
Dobbiamo trovare questa spinta, perché non possiamo restare dove siamo. Dobbiamo rendere la nostra Unione più stabile e prospera per dare ai cittadini la sicurezza che ci chiedono. In questo modo saremo più preparati per affrontare le sfide d’oggi: l’emergere di estremismi politici, l’insicurezza alle frontiere e un ordine mondiale ancora più incerto.
Dobbiamo quindi riscoprire lo spirito che ha permesso alla nostra Unione di arrivare così lontano. Lo spirito che ha animato generazioni di europei che hanno lavorato insieme per difendersi da minacce comuni. Ciò ha consentito ai cittadini di ottenere miglioramenti tangibili, come la libertà di lavorare e commerciare all’interno del nostro continente e di utilizzare una moneta unica. Questo spirito, se incanalato ancora una volta nell’azione comune, ci potrà consentire di superare le minacce del presente.
L’unità è la chiave della sicurezza per il nostro continente, oggi come sempre.
Mario Draghi*
* Il testo costituisce l’intervento che l’autore, presidente della Banca centrale europea (BCE), ha tenuto in occasione della conferenza organizzata congiuntamente dalla BCE e dalla Banka Slovenije per celebrare il 10o anniversario dell’introduzione dell’euro nel paese, a Lubiana, il 2.2.2017. Il testo è stato richiamato anche in occasione dell’audizione di Draghi al Parlamento Europeo a Strasburgo il 6 febbraio. Cf. https://www.ecb.europa.eu, visitato il 9.2.2017.
1 Eurobarometro Standard n. 86, autunno 2016.
2 H. Badinger, «Growth Effects of Economic Integration: Evidence from the EU Member States», in Review of World Economics, 93(2005) 141, n. 1, 50-78.
3 N. Campos, F. Coricelli, L. Moretti, «Economic Growth and Political Integration: Synthetic Counterfactuals Evidence from Europe», in IZA Discussion Paper, n. 8162, aprile 2014.
4 A.M. Lejour, V. Solanic P.J.G. Tang, «EU Accession and Income Growth: An Empirical Approach», in Transition Studies Review, 8(2009) 16, 1, maggio, 127-144.
5 Optimum Currency Areas, intervento pronunciato da Robert Mundell presso l’Università di Tel Aviv il 5 dicembre 1997.