Per fare un bilancio della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi appena conclusa su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» (4-25 ottobre) è bene partire dai testi e in particolare dalla Relazione finale approvata dai 270 padri sinodali sabato 24 ottobre, a valle di tre settimane di lavoro, svoltosi per lo più nei gruppi organizzati per area linguistica. Molto è stato scritto in generale sul clima e sull’interpretazione «politica» dell’Assemblea (anche sul nostro blog L’Indice del Sinodo).
Il legame tra Sinodo e concilio Vaticano II, ricordato da molti interventi, è stato ripreso in maniera definitiva durante la celebrazione ufficiale dei 50 anni della costituzione Apostolica sollicitudo di Paolo VI, a metà Sinodo, il 17 ottobre. Il card. C. Schönborn, arcivescovo di Vienna, al quale era affidata una relazione assieme al card. Baldisseri, ha definito il Sinodo come legato «inseparabilmente» al Concilio; anzi, ne è uno dei «luoghi d’interpretazione e di applicazione delle riforme», anche se non sono mai «mancate critiche» quanto al suo statuto: è «organo di consulenza» o ha «poteri decisionali»? «È una forma di co-governo della Chiesa universale»? I suoi metodi sono «adeguati allo scopo»?
Viaggiando attraverso la Francia si scopre, forse con stupore, di poter trovare su tutti i municipi – fin nell’ultimo paese – il motto ispirato alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, scolpito nella pietra come la legge mosaica: «Liberté – egalité – fraternité». Senza dubbio nel caso di questa triade risalente alla Rivoluzione francese si tratta di una secolarizzazione di valori cristiani centrali, che tuttavia non sempre sono stati perorati e difesi all’interno della Chiesa; basti pensare al riconoscimento della libertà di religione, avvenuto solo nel 1965 con il concilio Vaticano II. E che anche il rispetto dell’uguaglianza non sia esente da problemi non è forse mostrato dal recente dibattito nel cattolicesimo francese riguardo al «matrimonio per tutti» (mariage pour tous), quindi anche per omosessuali e lesbiche?
La morte di Aylan, il bambino di tre anni annegato sull’isola di Kos, ha scosso l’opinione pubblica europea. La madre e il fratellino un poco più grande sono morti insieme a lui, annegati. Abdullah Kurdi, il padre, ha perso in un colpo solo tutta la famiglia. Ha dovuto seppellire tutti e tre nella città natale di Kobane, completamente distrutta e diventata inabitabile. È il destino di una famiglia che ci mostra come la «marcia globale» già da tempo annunciata dagli studiosi sia arrivata in Europa a una velocità mozzafiato. 60 milioni di persone in tutto il mondo sono in fuga: dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Eritrea e da altri paesi africani. Fuggono dal terrore, dalla guerra, dalla povertà senza prospettive, dai disastri naturali. L’Europa di questi giorni è diventata un’altra, e nel giro di settimane. Una trasformazione drammatica si profila ad alta velocità, «troppo alta» secondo il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière. In breve tempo questa trasformazione ha polarizzato l’affaticata Europa unita.
L’opinione pubblica internazionale, e quella italiana in particolare, sembra accorgersi delle crisi internazionali solo quando esse guadagnano le prime pagine dei giornali. È stato questo il caso della Siria, sotto i riflettori al tempo delle prime rivolte contro il presidente Bashar al-Assad nel 2011 (Regno-att. 16,2011, 508), poi dimenticata fino al 2013 quando l’uso di armi chimiche (ancora non è certo da parte di chi) ha ventilato la possibilità di un intervento aereo statunitense, poi nuovamente dimenticata fino all’arrivo dell’ISIS.
Incontro mons. Rault il 6 ottobre. È in Italia la presentazione del volume Il deserto è la mia cattedrale, pubblicato da EMI. Un colloquio fraterno e a tutto campo. Nato in Francia nel 1940, p. Rault è un missionario dei Padri bianchi, presente in Algeria dal 1970 e dal 2014 vescovo della più grande diocesi del mondo: 2,5 milioni di kmq nel Sahara. La parte dell’intervista relativa al Sinodo è apparsa sul blog del Regno L’Indice del Sinodo (ilregno-blog.blogspot.it).
Servirà il ballottaggio per determinare chi sarà il nuovo presidente della Repubblica, ma difficilmente questa elezione risolverà la crisi politica che ha scosso negli ultimi mesi il Guatemala, portando all’arresto in maggio della vicepresidente della Repubblica, Roxana Baldetti, e, tre giorni prima del voto del 6 settembre, del capo dello Stato, il generale a riposo Otto Pérez Molina. Entrambi sono stati accusati dalla procuratrice generale della Repubblica, Thelma Aldana, e dalla Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un organismo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, di essere alla testa di una struttura illegale, denominata «La linea», che operava nella Sovrintendenza dell’amministrazione tributaria, nelle dogane e nei porti, dedicandosi al contrabbando e alla frode fiscale.
Virginia Raquel Azcuy è la più nota teologa argentina. Insegna Teologia spirituale alla Pontificia università cattolica argentina di Buenos Aires e coordina il programma di studi, ricerche e pubblicazioni «Teologanda» nonché la collana «Mujeres haciendo teologías». Fa anche parte del comitato direttivo del Programma per la promozione scientifica delle donne in America latina promosso dall’Interscambio culturale tedesco-latinoamericano (ICALA). I suoi lavori si sono concentrati sulla teologia femminista e sulla teologia urbana.
Vorrei descrivere la misericordia secondo la logica dei sacramenti.* La struttura sacramentale richiede, secondo l’insegnamento più tradizionale, tre elementi: materia, forma e ministro,1 cioè una cosa – non un’idea – una forma e un soggetto. Come abbiamo già accennato, di questa triade è stata progressivamente data una lettura riduttiva o parziale. La forma è stata infatti spesso interpretata come «formula verbale», facendola coincidere con le parole pronunciate se non – peggio ancora – con la comprensione di quanto quelle parole significherebbero. Nella liturgia sacramentale, anche quando la forma è espressa con una formula verbale, essa è più del significato delle parole, portando in sé la sovrabbondanza simbolica tipica del rito.
La ricerca di Stella Morra si rivolge a ciò che ella chiama la «forma», una parola ricca sia in estensione che in profondità e perciò assai difficile da definire: un insieme, il più possibile unificato, di convinzioni, di azioni, di sensibilità, di leggi, attraverso cui sia possibile vivere autenticamente il Vangelo. La diagnosi è che, trascorso ormai mezzo secolo dal Vaticano II, non abbiamo ancora trovato la «forma» che ci possa permettere di avanzare più liberamente e speditamente.
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Maria Caterina Bombarda, Eleonora Corti Savarese, Maria Elisabetta Gandolfi, Marco Giardini, Manuela Panieri, Valeria Roncarati, Daniela Sala, Domenico Segna.
Ho tenuto con me l’ultima opera poetica di Cinzia Demi, impreziosita da una bella copertina di Maurizio Caruso, dentro la borsa che mi ha accompagnato nei viaggi di questi ultimi mesi. Il libro è piccolo, è dunque agevole da portare con sé, da leggere nelle ore d’attesa degli aeroporti o dentro l’aereo. Mancava la calma di scriverne qualcosa, ma non il tempo di leggerlo e rileggerlo. Alla fine il forzato posticipare di questo scritto ha portato un inatteso beneficio. Rileggendolo, il testo mi diventava sempre più comprensibile, familiare e piacevole. Nello stesso tempo le notizie dal mondo e dall’Europa, purtroppo sempre tragiche, s’incaricavano di dare un segno e un senso sempre più illuminante a quanto leggevo. Come potevo disgiungere la lettura dell’accoglienza delle madri di Cinzia dalle immagini a volte d’accoglienza a volte di rifiuto di donne e bambini in fuga dalla violenza e dalla guerra? Le televisioni nel mondo e gli schermi degli aeroporti, hanno mostrato scene a cui non sappiamo decidere se abituarci o no.
In questo periodo di grande attenzione alle tematiche familiari (sul Sinodo, cf. in questo numero a p. 577), le edizioni San Paolo danno alle stampe una nuova collana «Questioni di famiglia», in collaborazione con l’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della CEI e il Centro internazionale studi famiglia (CISF) di Milano.
I bagliori e il tripudio fantasmagorico dei fuochi d’artificio con cui si è chiusa Expo 2015 sono riusciti a portare a livello visivo il forte grado di consenso e il grande successo che l’evento ha ottenuto. Consenso e successo, tuttavia, non scontati: un semplice rimando ai titoli con cui i giornali accompagnavano l’apertura di questa manifestazione ci fa cogliere immediatamente la misura del consenso che Expo 2015 si è saputa guadagnare. Molte impressioni ed emozioni (negative) ne hanno segnato il debutto; altrettante (positive, questa volta) ne hanno accompagnato la chiusura: il destino di Expo 2015 è di vedere i suoi momenti fondamentali segnati da un alto tasso di emozione, che come polviscolo riempie l’aria e impedisce una percezione netta di ciò che questo evento è stato, per Milano, l’Italia, e anche per la Chiesa (che in questa manifestazione ha investito parecchie energie). Proviamo perciò con queste righe a fissare qualche punto che ci consenta un approccio più ragionato a tutto l’evento, permettendoci di raccogliere quanto seminato da quello che alla fine ci si è presentato come un grande laboratorio, una scuola quotidiana di umanizzazione, per riprendere un’immagine usata dal presidente Mattarella, nel suo discorso di chiusura di Expo 2015.
Nonostante sia stato spesso denunciata, stenta a morire anche l’idea che le istituzioni della Chiesa nulla abbiano a che fare con i carismi, e che l’attività carismatica sia ovviamente estranea o contrapposta alle attività istituzionali della Chiesa. Per smentirla basta ricordare che le istituzioni fondamentali della Chiesa sono basate sui sacramenti del battesimo, dell’ordine e del matrimonio, che sono azione divina nel cuore dell’uomo, tesa a trasformarlo dotandolo di una grazia specifica, cioè di un carisma.
La «famiglia del diacono scuola di umanità»: è questa la via per riportare al centro quei legami familiari che determinano e so-stanziano la vita. Soffermandosi sui richiami del papa, pronunciati nella Veglia di preghiera in preparazione al Sinodo sulla famiglia, è stata articolata una riflessione, a più voci, nel corso del 25° Convegno nazionale della Comunità del diaconato in Italia (5-8 agosto scorso), che rappresenta i circa 4.380 diaconi italiani (e i 1.835 candidati) – i primi per numerosità in Europa – che prestano servizio in 222 su 227 diocesi italiane. I 300 diaconi presenti (e le 75 mogli di diaconi) provenienti da tutta Italia rappresentavano in totale 70 diocesi. L’appuntamento, ospitato dall’arcidiocesi di Campobasso – Bojano, si è inserito nel cammino che la Comunità ha scelto per l’approfondimento e la riflessione in riferimento al Sinodo sulla famiglia e al Convegno ecclesiale di Firenze.
Dopo un secolo di dialoghi teologici multilaterali e bilaterali e un tratto di cammino ecumenico che ci ha portato al punto di chiamarci «fratelli», come si presenta ora la strada che ci rimane per arrivare finalmente a condividere la stessa Cena del Signore e gli stessi ministeri? Negli ultimi anni, soprattutto per la nuova configurazione che ha assunto il cristianesimo globale e per l’impronta data dal pontificato di Francesco, sono due le immagini che si sono fatte strada, e che richiedono ora sia un approfondimento teologico, sia un atteggiamento conforme da parte dei cristiani: quella del «poliedro», qui descritta dal card. W. Kasper, e quella della «diversità riconciliata», la cui storia è richiamata da D. Segna. Perché in un futuro ecumenico orientato al Vangelo, i cristiani siano segno di riconciliazione per tutta l’umanità e per la nostra casa comune (Bartolomeo I).
Varcare una soglia può diventare un evento: papa Francesco è stato il primo pontefice nella storia ad attraversare il portone della Chiesa evangelica valdese di Torino, lo scorso 22 giugno (cf. Regno-att.7,2015,442). In essa sono risuonate le parole dell’intervento del moderatore Eugenio Bernardini, che ha sottolineato come il gesto del pontefice abbia significato l’aver superato un muro, eretto oltre otto secoli fa, per entrare nella visione dell’unità tra i cristiani intesa «come diversità riconciliata» (cf. Regno-doc. 25,2015,9). Ma cosa significa «diversità riconciliata»? Come si è giunti a elaborare tale modello ecumenico? Torna, forse, utile ricordare che l’attuale spinta al dialogo ecumenico ha avuto inizio grazie all’iniziativa dell’ambiente ecclesiale nordamericano, storicamente caratterizzato dall’effervescenza confessionale di più «campanili» appartenenti a diverse denominazioni cristiane. Nulla di strano, pertanto, che la Chiesa episcopaliana negli Stati Uniti assunse illo tempore il ruolo guida in campo ecumenico. È proprio dalla tradizione anglicana – posta com’è a metà strada tra il mondo cattolico e quello protestante – che si elaborò ciò che diventerà noto nel 1888, in occasione della III Conferenza di Lambeth, come il Quadrilatero di Lambeth.
Il servizio del Patriarcato Ecumenico, condiviso dalle altre Chiese ortodosse sorelle e dalle altre Chiese cristiane, principalmente dalla sorella Chiesa cattolica romana ma anche dai rappresentanti delle altre religioni, è quanto mai necessario oggi nelle drammatiche situazioni in cui versano diverse aree del mondo, con conflittualità inimmaginabili fino a non molti anni or sono e con esodi biblici di intere popolazioni, mosse non solo da motivi economici, ma soprattutto per sfuggire a persecuzioni e devastazioni.
All’interno del Vangelo di Giovanni vi è una specie di masso erratico. Ci si imbatte infatti in una sezione isolata (cf. Gv 8,1-11) dedicata alla donna scoperta in flagrante adulterio e tradotta da scribi e farisei davanti a Gesù. Anche quando non si era presi da preoccupazioni filologiche, si colse il brano come qualcosa a sé. Non a caso da esso è derivato un detto proverbiale tuttora in uso: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Si tratta di una specie di ordine paradossalmente pronunciato per non essere eseguito. La formulazione letterale del detto è più articolata della sua versione corrente, tuttavia la differenza tra le due frasi non è fondamentale: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). La diversità più significativa è che il termine «primo» in Giovanni è riferito alle persone e non alle cose. Riguarda il potenziale iniziatore dell’azione, forse il personaggio più autorevole, cioè colui che è nelle condizioni di tirarsi dietro tutti gli altri.
Uno dei quattro itinerari del Giubileo dei camminanti passa sotto le mie finestre e io ne sono felice e anche il mio parroco, perché sfiora la nostra chiesa, che è quella della Madonna dei Monti. Faremo un pellegrinaggio a piedi verso San Pietro, ma più ancora io aspetto di varcare la Porta santa della carità, che il papa aprirà all’ostello Luigi di Liegro di via Marsala, a lato della Stazione Termini, il 18 dicembre. Una Porta nuova per segnalare che è nei poveri che incontriamo Cristo. È sulla carità che il Giubileo incontra la città. Così era nella storia e ancora di più lo sarà stavolta. Mi suona strana la preoccupazione degli organizzatori, buttata là nelle conferenze stampa, che gli ambulanti e i questuanti non disturbino i pellegrini: ma se debbiamo incontrare Dio nei poveri, se una delle porte sante sarà per andare da loro, che paura avremo di averli intorno?