A
Parole delle religioni

Parole delle religioni

Il servo del Signore: tra sofferenza e riconciliazione

P. Stefani
Capita a volte che alcune espressioni restino per anni, o forse per decenni, in un limbo che non le rende né ignote, né conosciute. Le si sa e le si ignora a un tempo. Ciò avviene in molti ambiti, compreso quello della riflessione spirituale, sapienziale, biblica. Qualche formula la si è udita da molto tempo, la si è recepita, la si è persino studiata, senza per questo porsi la domanda più elementare relativa al suo significato base. Non pochi hanno sentito parlare di «servo del Signore». Alcuni sanno che nel rotolo del profeta Isaia ci sono dei canti che lo riguardano (Is 42,1-7; 49,1-9; 50,4-11; 52,13-15; 53,11-12). Altri conoscono persino l’espressione ebraica di ‘eved Adonai e non sono all’oscuro di dibattiti e interpretazioni collegati a questo personaggio. Eppure tutto ciò può coabitare con l’assenza di un interrogativo elementare, quello che si chiede se questa figura sofferente riceva la propria qualifica in quanto è una persona che sta offrendo il proprio servizio a Dio, o se, al contrario, l’espressione vada intesa dall’altro lato pensando a un essere umano di cui il Signore si serve.

Tra vita e morte. La sacralizzazione del biologico e la speranza della risurrezione

P. Stefani
Le considerazioni «sapienziali» affermano, nelle loro movenze classiche, che la vita è destinata a finire a causa della legge inviolabile che presiede ogni esistenza venuta alla luce nel tempo. Durante l’arco limitato del nostro esistere quanto importa è apprendere l’«arte del vivere», vale a dire condursi in una maniera consapevole dell’umana limitatezza; parte di questo compito è imparare pure l’«arte del morire». La qualifica di «mortali» con cui, in antico, si era propensi a chiamare gli esseri umani, esprime bene questo orientamento. Occorre perciò impegnarsi al fine di morire con dignità, rifuggendo, per quanto ci è dato, dall’umiliazione a cui l’eroe classico è sempre sottratto. Bisogna accettare l’esistenza del limite e ricavare entro di esso (eventualmente in modo preventivo) lo spazio per quel tanto di autodeterminazione che ci è concesso.

La voce delle viscere. La misericordia parola ultima di Dio

P. Stefani
Si narra che una figlia di Muhammad gli mandò un messaggero per comunicargli che un proprio figlioletto era moribondo. La risposta del profeta a questo primo appello fu devota, le fece infatti riferire che a Dio spetta sia dare sia togliere e che tutto, presso di lui, ha un termine stabilito. La invitava perciò a sopportare, così da meritarsi una certa ricompensa. Nell’Arabia dell’inizio del VII secolo venivano pronunciate le stesse parole dette molto tempo prima a Uz. In quest’ultima, misteriosa località viveva Giobbe. Quando i servi gli annunciarono la perdita di beni, di mandrie e di figli, l’uomo integro e retto accettò la propria nuda condizione e disse che spettava al Signore dare e togliere (cf. Gb 1,21).

Il senso del presente. Accettare sé stessi e accogliere la temporalità

P. Stefani
In una della pagine più antigiudaiche di Lutero si legge che di fronte all’ipotesi che Dio gli desse un messia simile a quello atteso dai giudei, egli avrebbe preferito essere una scrofa piuttosto che un essere umano. La frase, come spesso capita, viene ripetuta senza essere letta nel suo contesto. Se lo si facesse si avrebbe la conferma che i grandi sono tali anche nei loro errori. Il presupposto da cui parte il riformatore è che il Messia ebraico sia colui che riempie i suoi fedeli di beni e piaceri materiali. Anche se così fosse, graverebbe sempre sul nostro animo il pesante fardello della morte e, dopo di essa, la prospettiva, ancor più terrificante, dell’inferno e dell’ira di Dio. Ci si troverebbe, allora, in una situazione simile al caso prospettato dal tiranno Dionisio quando replicò a un tale che celebrava la sua attuale felicità, facendolo sedere a una tavola riccamente imbandita mentre aveva sopra il capo una spada sguainata appesa a un filo di seta e sotto di sé un cumulo di braci ardenti; l’ospite che si trovava in quella precaria situazione si sentì dire: «Mangia! Sii felice». Perché allora il maiale?

Matrimonio e celibato. cattolici ed ebrei: distanze e vicinanze

P. Stefani
Secondo una plausibile percezione media, l’ebraismo è più prossimo al cattolicesimo di quanto non lo sia al protestantesimo. I motivi di questa vicinanza si trovano nel valore attribuito ai precetti e alle opere. La radicale dialettica riformata sottesa alla polarità fede e opere appare più lontana della mediazione cattolica in cui, senza negare il ruolo della grazia, alle opere viene assegnato un ruolo positivo. Va da sé che molto ci sarebbe da precisare rispetto a questa precomprensione abbastanza stereotipata.

Vedere ed essere visti. Consistenza e vanità dell'immagine

P. Stefani
Chi è dotato di sensi ogni tanto si chiede cosa avvenga a coloro che sono privi di queste facoltà, cosa sia la vista per un cieco e il suono per un sordo. Inevitabilmente si è costretti a pensare a una mancanza e sulle prime non si comprende che l’espressione «essere diversamente abili» può, per una volta, venire sottratta all’aura di convenzione (a volte persino ipocrita) di cui è circondata per essere collocata in un contesto più adeguato. Nell’Istituto dei ciechi di Milano vi è un percorso accidentato privo di qualsiasi luce: in questo buio una persona non vedente conduce gli smarriti possessori di vista. Trasferito dal piano simbolico a quello della lettera, il detto evangelico viene capovolto (cf. Mt 15,14; 23,16-19): qui il cieco è guida sicura.

La sobrietà. Salvaguardia della natura e lode del creato

P. Stefani
Il 1° settembre si è celebrata la III Giornata per la salvaguardia del creato indetta dalla Conferenza episcopale italiana (CEI). Il tema di quest’anno era «Una nuova sobrietà per abitare la terra». Il messaggio di presentazione era incentrato sui consumi e sull’ombra implacabile che li accompagna: i rifiuti. Come ha argutamente scritto Maurizio Ferraris: «Come in un’allegoria barocca, le montagne d’immondizia guardano tutti gli altri miti di consumo con un sorriso egizio: “Ero quello che sei, sarai quello che sono”» (Domenicale de Il sole 24 ore, 6.7.2008). La Conferenza episcopale, nel suo linguaggio esortativo, non può concedersi battute penetranti; è obbligata piuttosto alla citazione riverente. È quanto fa fin dalle prime righe del messaggio di presentazione, là dove afferma: «È un dovere richiamato con forza da Benedetto XVI (…): “Dobbiamo avere cura dell’ambiente: esso è stato affidato all’uomo perché lo custodisca e lo coltivi con libertà responsabile, avendo come criterio orientatore il bene di tutti” (n. 7). È un impegno che ci rimanda a s. Francesco d’Assisi e alla lode da lui rivolta al Creatore per “sora nostra madre Terra”, che tutti ci sostiene».

Il pubblico pregare musulmano. E i paradossi dell'Occidente

P. Stefani
Le massime Categorie (at-Tabaqat al-kubrà) è il titolo (sintetizzato) con cui è conosciuta un’opera scritta verso la metà del XVI secolo dal dotto musulmano ash-Sha’rani. Il testo riporta, in modo spesso più agiografico che storico, la vita di una lunga serie di eminenti e devoti musulmani. Comincia dai primi successori di Muhammad: i quattro califfi ben diretti della tradizione sunnita. Presto passa però alla generazione successiva. A proposito di Hasan, si afferma che nacque a Medina tre anni dopo l’ègira (622). Era figlio di Ali (l’ultimo dei quattro califfi), il cugino del Profeta che aveva sposato la figlia di quest’ultimo, Fatima. Conformandosi alla tradizione, Sha’rani afferma che il Profeta conferì il nome al nipote appena nato e gli recitò all’orecchio la chiamata alla preghiera.

Per non dimenticare (o forse per sapere)

P. Stefani
Mi piacerebbe raccontarti una storia nella quale un nazista mi abbia detto chinati, così non devo picchiarti, oppure nasconditi, così non ti vedo, oppure svignatela e sparisci, così riuscirai a prendere il pane che sta sul tavolo. Una cosa del genere te la racconterei con entusiasmo. Ma purtroppo non posso. Non è accaduta in nessuno dei campi di concentramento nei quali sono stata. Da nessuna parte (…). Ad Auschwitz si costruisca un camino che mandi fiamme! Non uno solo! Cinque! Che ardano giorno e notte. Se ci si trova in una baracca e si guarda ogni giorno il camino che sprigiona tanto chiarore, nel bosco, il fuoco arde, l’odore arriva e tu avverti la presenza degli esseri umani!

Ambivalenze della vergogna. La cacciata dal paradiso

P. Stefani
La Cappella Brancacci, nella fiorentina chiesa di S. Maria del Carmine, appare come un residuo posto all’interno di un contenitore difforme. Tanti particolari sono usciti dall’incertezza, altri sono lì in attesa di essere decifrati. Tra essi, vi è il modo d’interpretare la Cacciata dal paradiso. La vergogna è qui connessa alle divine parole di maledizione rivolte all’esistenza umana sulla Terra; essa, perciò, è storica e umana, non eterna. La vergogna non coincide con il pentimento e tanto meno con la riconciliazione; piuttosto è paragonabile a un torbido caos originario. Dimensione che in se stessa non garantisce nulla, ma senza la quale niente potrà mai nascere. La nuda vergogna è un’originaria condizione umana che tutti ci accomuna.