A
Parole delle religioni

Parole delle religioni

I monumenti della memoria. Le vittime della Shoah come religione civile dell'Occidente

P. Stefani
Dopo ogni celebrazione del giorno della memoria si discute sulle modalità del suo svolgimento e sulla sua efficacia. Il giudizio generale non è confortante; tuttavia, date la costellazione e la varietà delle iniziative, le valutazioni sono articolate e difficili da riassumere. Alberto Cavaglion, precoce, in tempi non sospetti, nel denunciarne i rischi, ora invita a discernere tra momenti celebrativi ricchi e spettacolarizzati e il lavoro povero condotto tra mille difficoltà all’interno delle strutture scolastiche da insegnanti, che assumono la giornata come occasione per inculcare nei giovani contromisure all’imbarbarimento delle nostre attuali società. Molte osservazioni legate alla dinamica propria di quanto è istituzionalizzato colgono nel segno. Vanno registrati però anche fenomeni che camminano, per così dire, sulle loro gambe: più che essere imposti si autoimpongono, per lo più, attraverso l’imitazione.

Vignette e storielle. Umorismo e religioni

P. Stefani
Vi è stato un piccolo ritorno di fiamma del grande incendio legato alla vicenda delle vignette su Muhammad che nel febbraio del 2006 fece il giro del mondo (cf. Regno-att. 4,2006,73). Uno dei caricaturisti danesi è stato minacciato, si è dovuto barricare in casa ed è intervenuta la Polizia che del resto da tempo gli ha fornito una scorta. Sotto la cenere qualcosa continua a bruciare; le differenze culturali tra Occidente secolarizzato e islam ideologizzato sono infatti lungi dal placarsi. Entrambi i poli costituiscono un inedito rispetto alla storia che li ha preceduti: il confronto/scontro sarà ancora lungo. In relazione alla vicenda di quattro anni fa, questo punto specifico è stato ben sintetizzato da Jean Delumeau quando scrisse: «Il disaccordo profondo che chiarisce l’attuale affaire viene dunque da questo: i musulmani accusano di bestemmia delle persone per le quali essa non esiste affatto…».

Sulla soglia della chiamata. Il cammino di Abramo

P. Stefani
Una delle promesse che Dio collega alla chiamata di Abramo è di rendere grande il nome del patriarca (cf. Gen 12,2). Essere tuttora convocati nel nome di Abramo non è realtà scontata. Irriducibile è la differenza tra il suo nome e quelli che, diffusi fra tutte le famiglie dell’adamà (suolo, terra), possono, ai nostri giorni, rivendicare a loro stessi l’universalismo greve della globalità.1 Questo tipo di grandezza spetta non all’antico patriarca biblico, bensì ai sinuosi caratteri bianchi su sfondo rosso della Coca cola. In questo caso è arduo invocare la benedizione estesa ai popoli, mentre si è costretti a prendere effettivamente atto che la scura, effervescente bevanda è davvero diffusa in tutti gli angoli del globo.

La consolazione del Signore. La capacità di accogliere il dolore altrui

P. Stefani
L'atto di misurarsi con quanto è accaduto e non dovrebbe mai essere stato sembra condannato a presentarsi come uno scacco. È avvenuto quel che l’animo paventava e il cuore temeva; oppure è successo quanto era imprevisto e che, ora, sconvolge la vita. Si è avverato l’evento che non si sarebbe mai voluto vedere, ha avuto luogo la disgrazia che lo sguardo non avrebbe mai desiderato incontrare e si è colpiti da un male che devasta l’esistenza. Allora è il tempo dell’afflizione, dello sconforto, dell’amarezza. I modi per reagirvi e per non cadere in quella che ai nostri giorni si definirebbe depressione possono coprire una vasta gamma: ribellione o rassegnazione, ricordo od oblio, metterci una pietra sopra o impegnarsi con memore consapevolezza a favore di altri. Ci è dato persino di trovare qualche conforto e di versare del balsamo sulle nostre ferite; non è davvero concesso di consolarci.

Il congedo da sé. Di generazione in generazione

P. Stefani
Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa» (Qo 1,4). Nonostante l’abuso da esso subito nel corso della disputa galileiana, il verso del Qoèlet resta bellissimo nel suo contrapporre due antitetici verbi di moto a un imperturbabile, statico fondale. In prospettiva globale, le parole esprimono quanto, rispetto al soggetto individuale, sarà detto più oltre sostituendo «polvere» a «terra»: là si individuerà in quella materia leggera il luogo dell’andare e del ritornare di ogni singolo vivente (cf. Qo 3,20; Gen 3,19). Gli altri elementi – il sole (fuoco), l’aria (vento), l’acqua (fiumi) – girano e rigirano (cf. Qo 1,5-7), gli esseri viventi vanno e vengono, la terra resta immobile. Secondo un approccio cronologico il venire al mondo precede il congedo; tuttavia per lo spirito proprio del testo l’ordine deve essere l’inverso, che meglio individua quanto più di ogni altra dimensione caratterizza l’esistenza umana: il suo venir meno.

Bibbia e politca. Il caos dall'alto

P. Stefani
Non si può affermare che il libro dei Giudici sia tra i testi più letti della Bibbia. L’imbarazzo inizia dalla stessa difficoltà di comprenderne il titolo: chi sono gli shofetim (giudici)? Stando agli usi del verbo semitico shafat, da Mari (XVIII sec. a.C.) a Ugarit (XIII sec. a.C.), ai testi fenici e punici dell’epoca greco-romana (cf. i suffeti di Cartagine), essi furono autorità che, oltre ad amministrare la giustizia, avevano anche un potere di governo (cf. Mt 18,28). Vale a dire che i giudici costituirono un’istituzione intermedia tra il regime tribale e quello monarchico. Collocati tra l’esodo dall’Egitto e la nascita della monarchia, sembrerebbe di doverli interpretare così anche in Israele. Questa griglia di lettura è però insufficiente.

La narrazione. Due modi di raccontare la storia ebraica

P. Stefani
Nel libro del Deuteronomio vi è un passo famoso anche perché, in seguito, posto al centro della cena pasquale ebraica (seder). Esso, fin da epoca antica, fu diversamente inteso. La sua peculiarità più stringente è di concentrare in poche righe tutta la storia del popolo d’Israele. Per questo, secondo un’autorevole teologia biblica in auge qualche tempo addietro (cf. G. von Rad), il brano era considerato esempio per antonomasia di «piccolo credo storico». Prima di trascriverlo, conviene compiere un cenno sulla sua ambientazione letteraria.

Il calcio globale. Tempo continuo e tempo frammentato dopo la secolarizzazione

P. Stefani
Una grande pagina del Deuteronomio impone di ripetere ai figli i precetti rivelati, di parlarne in casa e lungo la via, quando ci si corica e quando ci si alza (cf. Dt 6,7). Un discorso diuturno accompagna la scelta di amare concretamente Dio attraverso l’atto di mettere in pratica i suoi voleri. Anche la lingua non può restare indifferente alla realtà a cui si attacca il proprio cuore. Fin qui la parola antica. Se oggi si dovessero trascrivere queste parole nell’ambito di una religione secolarizzata che conserva, oltre a riti e liturgie, anche un eloquio che non conosce pause, bisognerebbe pensare in prima istanza al calcio.

Il terremoto pasquale. La natura devastante e la Parola cristiana

P. Stefani
Lisbonne est abîmée, et l’on danse à Paris». Questo verso del Poema sul disastro di Lisbona (1755) di Voltaire suona, forse, come il più attuale tra tutti. Ciò avviene anche perché sul principale fronte polemico del componimento la battaglia è stata vinta: i sostenitori della tesi secondo cui nel mondo tutto è bene si sono, da tempo, dileguati come neve al sole. Eventi e catastrofi dell’ultimo secolo hanno cancellato i residui ottocenteschi di facili ottimismi. I fatti hanno avuto più forza di persuasione dei ragionamenti.

La silente voce dei fiori. La gratuità come bellezza

P. Stefani
È la stagione dei fiori. La loro bellezza sta nello sbocciare, verbo divenuto così pregnante da indicare il dischiudersi stesso di ogni vita. Per quanto si sappia che i petali si allargheranno, risplenderanno, si aggrinziranno fino al loro inesorabile appassire, a primavera il boccio che occhieggia è colto dallo sguardo come un tutto, come un segno di speranza posto sotto l’ala della gratuità. Parole evangeliche ci dicono di osservare i gigli del campo che non tessono e non filano. Al loro confronto persino lo splendore di Salomone è poca cosa. Eppure si sa che è bellezza breve che oggi si schiude e domani è gettata nel forno (cf. Mt 6,28-30). Gesù nel suo paragone esorta a guardare l’erba del campo, non un fiore di albero da frutto. L’interezza dello sbocciare è racchiusa in un frammento che esprime un tutto pur non essendo un assoluto.