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Parole delle religioni

Parole delle religioni

Inattese risorse. La forza dei bambini

P. Stefani
Un detto attribuito a Buddha afferma che il potere dei bimbi piccoli è il pianto.1 Come sanno molti genitori, esso può assumere un aspetto paragonabile a quello della vedova di cui parla il Vangelo, la cui insistenza mosse a intervenire anche il giudice iniquo (cf. Lc 18,1-8). Il martellante ripetersi del pianto smuove dalle coltri anche la persona più avvinghiata dal sonno. Tuttavia sarebbe inadeguato declinare l’aforisma antico solo in questo modo. La forza dei più piccoli sta anche nel loro bisogno esigente e inerme. La loro totale dipendenza ha la capacità di muovere gli altri a prendersi cura di loro. Così è, o così dovrebbe essere.

Nell'antica Baghdad. Fede e appartenenze

P. Stefani
Vi è un modo rassegnato di vivere la propria appartenenza. Ciò avviene quando si è in una situazione e ci si resta, senza entusiasmo, per il solo fatto di non riuscire, per mancanza di coraggio, di risorse o per motivi più oggettivi, a trovare una collocazione migliore. La rassegnazione ha luogo quando sono i fatti e gli avvenimenti (grandi o piccoli che siano) a guidarci. Allora si abdica alla facoltà di scegliere. Affermare il ruolo insostituibile della decisione non equivale a proclamare il primato del cambiamento. Si possono ripetere ogni giorno le stesse azioni senza che vi sia il benché minimo barlume di rassegnazione: è così quando, giorno dopo giorno, si pronuncia il proprio sì a quanto si sta facendo, vale a dire quando non si agisce in una determinata maniera per la sola ragione di averlo già fatto.

Onora tuo padre e tua madre. La presenza di Dio attraverso loro

P. Stefani
Onora tuo padre e tua madre».1 Il fortunato libro di Gad Lerner Scintille inizia con una pagina che, lo si comprende a prima vista, è stata scritta da ultimo. Non è una prefazione, né una nota di ringraziamento: è una giustificazione per i molti passi – schietti fino all’eccesso – dedicati al padre, e in subordine alla madre, presenti nel libro. Si tratta di giudizi severi e, per il lettore, non di rado imbarazzanti. Nelle prime righe del testo ci si imbatte in un richiamo a una parola antica. Il riferimento ha un valore apologetico. Attraverso di esso, Lerner vuole far balenare l’idea che la conflittualità del figlio nei riguardi del proprio padre possa tramutarsi in una forma di rispetto tanto nei confronti di sé stessi quanto di colui che ci ha dato la vita. Per far ciò, egli si appella ai Dieci comandamenti. Nella sua versione originale, il precetto di onorare padre e madre fa ricorso all’imperativo ebraico kabbed (cf. Es 20,12). Lerner, giustamente, ricorda che l’etimo della radice verbale kbd è contraddistinto dall’idea di peso. Nella sua lettura lo scopo del comandamento andrebbe perciò individuato nella capacità di dare il «giusto peso» ai genitori. Si tratta di un atteggiamento adulto che consente un ritorno solo dopo che è avvenuto un distacco. Scintille simboleggia tutto ciò attraverso il comando biblico rivolto ad Abramo di uscire dalla propria terra, dal proprio parentado e dalla casa di suo padre (cf. Gen 12,1).

Gli scandali e la riconciliazione. «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli»

P. Stefani
Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli » (Mt 18,10).1 Viene dato per scontato che questi «piccoli» siano «bambini» e che il passo ben si attagli al più vulgato – ma anche doloroso – scandalo che si sta manifestando, in questi ultimi tempi, all’interno della Chiesa cattolica: la violenza sessuale sui minori. È così? Se guardiamo alle intenzioni più profonde del testo, ma anche alle sue più penetranti ricadute attuali, la risposta deve essere negativa. Va da sé che il testo evangelico non si riferisce in modo diretto alla pedofilia; il punto, tuttavia, non sta qui; piuttosto bisogna chiedersi se la frase si riferisca davvero in modo diretto ai bambini. Se così non fosse, chi sono allora i piccoli di cui si parla?

L'etica dei visitatori. Essere malati esige che vi sia al fianco uno che ti sorregge

P. Stefani
A volte sono in luoghi periferici o addirittura in vecchie ville isolate; altre volte sono agli angoli delle nostre strade in vecchi palazzi riadattati. È dato passarvi sotto anche più volte al giorno. Si conoscono persino i loro nomi, in certi casi inconsapevolmente beffardi: «Anni verdi», «Il focolare», addirittura «Paradiso»… In fondo, però, ciò vale, in nuce, anche per il loro nome comune: «casa di riposo». Nonostante la vicinanza, restano «mondi altri», almeno fino a quando non si ci si trova nelle circostanze di andarvi a trovare qualcuno. Tuttavia, a ora incerta, si è pure assaliti dal pensiero, per lo più presto allontanato, di dover finire lì i propri giorni. Allora si è, non di rado, di fronte a dei «mai» riferiti a sé, ma anche ai propri cari, che restano tali fino a quando quei luoghi non risolvono un problema del quale non sapremmo, altrimenti, come venire a capo. A questa forma consolidata nel tempo, in anni più recenti, se ne sono aggiunte altre. Per alcune di esse non si è osato trovare un termine italiano: è il caso dell’hospice. Qui i nomi sono più diretti: non si riesce troppo a fingere. Spesso si tratta di un nome e di un cognome: tutto lascia credere che siano quelli di una persona che ha preceduto gli «ospiti» sulla stessa via; ora sono i suoi parenti che, per ricordarlo, cercano di rendere meno aspre le sofferenze altrui.

L'attualità di antichi detti. Le quattro misure per l'uomo e l'autorità

P. Stefani
I Pirqè Avot («Capitoli dei padri») sono una raccolta di detti di maestri ebrei redatta attorno alla metà del III secolo e.v. Contengono massime che risalgono a varie epoche, alcune delle quali sufficientemente antiche. Quei detti si sono stratificati nei secoli e sono stati citati e commentati fino a oggi. Nonostante questa lunga trafila, alcuni di essi mantengono tratti di enigmaticità. Rientra in quest’ambito la massima: «Ci sono quattro misure [vale a dire modi di comportamento] per l’uomo. Quel che dice il mio è il mio e il tuo è tuo. È la misura della spartizione. Ma c’è chi dice: è la misura di Sodoma. Il mio è tuo e il tuo è mio: un ignorante. Il mio è tuo e il tuo è tuo: un pio. Il mio è mio e il tuo è mio: un empio» (m. Avot 5,10).

La laicità dei credenti. Non si è nella fede una volta per tutte

P. Stefani
In Italia le più consuete definizioni di «laico» avvengono per negazione. Il procedimento vale tanto per il versante civile quanto per quello ecclesiale. Nel primo caso per «laico» si intende una persona che non basa le proprie convinzioni e i propri comportamenti su valori o pratiche religiosi; dal canto suo, in seno alla Chiesa, il laico è un fedele che non ha ricevuto l’ordine sacro o che non vive in uno stato di vita consacrata. La prospettiva muta se ci si basa su un’affermazione positiva di «laico», vale a dire se si indaga su quanto egli innanzitutto è, e non su quel che egli non è. In questo ambito ci viene in soccorso l’etimologia: il termine deriva dal greco laos, «popolo». Ciò dovrebbe indirizzarci verso la ricerca di quanto è comune: il popolo è una dimensione di cui tutti facciamo parte. Si è in grado perciò di prospettare questa prima pista di riflessione: la laicità attiene a quanto è comune, a quel che ci accomuna o, con maggiore precisione, essa verte su quanto costituisce la base su cui poggia tutto il resto.

Dio e gli dei. Le fedi monoteiste e la traducibilità delle culture

P. Stefani
È accusa ripetuta e da non prendere alla leggera che la comparsa di religioni, per comodità classificatoria chiamate monoteiste, abbia inferto un duro colpo alla traducibilità delle culture. Il confronto con riflessioni del tipo di quelle proposte da Jan Assmann1 si pone, in effetti, come un terreno inevitabile per ogni persona di fede che non voglia abdicare alla dignità del pensiero. Una linea di risposta a questa obiezione sta nel chiedersi quale grado di permeabilità reciproca sia restata entro le stesse religioni monoteiste e in particolare in quelle che – anche qui a motivo di un’accettata consuetudine – si dicono abramiche. Va comunque subito precisato che, all’interno di questo filone, altro è il discorso relativo ai fatti e altro quello concernente il diritto.

Teodicea e ironia. Un elogio della tolleranza

P. Stefani
Vi è una parola coniata da un grande intelletto che ormai da tre secoli circoscrive un territorio in cui anche gli ingegni più acuti sembrano scivolare verso posizioni indifendibili: si tratta del termine «teodicea». Coniata dal grande Leibniz, alla lettera essa significa «giustificazione di Dio». La sfida, di non poco conto, è di scagionare la bontà divina da ogni responsabilità per i mali del mondo. Per questo motivo il filosofo tedesco dichiara apertis verbis di sperare di riuscire nell’impresa di portare a termine i suoi ragionamenti in quanto «difendo la causa di Dio». Si tratta di un’operazione destinata a un inevitabile naufragio a motivo del fatto di essere, per definizione, «teo-logica», vale a dire costretta a presentarsi come un discorso su Dio. Il tarlo di ogni teodicea sta nell’impossibilità di presentarsi come una parola rivolta a Dio, come avviene nel caso della lode, della domanda o persino della protesta di Giobbe. Anche nel caso in cui la difesa fosse persuasiva, essa, perciò, avverrebbe pur sempre al cospetto degli uomini e non coram Deo.

Cantare insieme. Unicità di un legame che nega le individualità

P. Stefani
In base a una consuetudine discutibile ma consolidata, uno dei primi parametri per giudicare la nuova edizione di un’enciclopedia o di un dizionario tematico è di andare a vedere quali voci mancano o, in subordine, specie se si tratta di Garzantine, di soppesare quante righe sono state concesse a un lemma rispetto a un altro. Si tratta di prassi spesso mosse da intenti polemici e quindi, per lo più, di basso profilo. Tuttavia a volte si è spinti dall’autentico desiderio di vedere se sia presente quanto riteniamo importante e si patisce una certa delusione se non lo troviamo. È, per esempio, raro rinvenire nei dizionari biblico-teologici una voce dedicata in modo esplicito al canto (o, in senso più lato, alla musica). Ovviamente non è vero il contrario; nei dizionari liturgici o musicali compaiono sempre riferimenti biblici. Da ciò consegue che, per limitarci all’esemplificazione più ovvia, le maniere a noi accessibili di cantare i Salmi sono slegate dai procedimenti volti a favorire l’originaria comprensione del testo e viceversa.