Quando si è presi dal fascino della lettura, tra le pagine e il loro lettore si instaura un rapporto affettuoso e intimo. Leggere significa star soli con il proprio libro: gli occhi importano assai più della voce. L’espressione «i miei libri» riguarda la proprietà in larga misura solo nel caso del collezionista o del bibliofilo; per il lettore appassionato indica invece una collezione di esperienze, di ricordi e di immagini che poco hanno da spartire con il possesso materiale. Tutto ciò vale anche per la Bibbia? Questa prassi solitaria è applicabile pure al «Libro dei libri»? Per rispondere, iniziamo da una considerazione che suona, ma non è, un semplice gioco di parole: la Bibbia non è solo il «Libro dei libri», è anche un «Libro di libri (o di libretti)».
Chi è un ebreo? Dall'antichità e fino a oggi, la distinzione tra appartenenza religiosa all'ebraismo e appartenenza etnica/nazionale al popolo ebraico ha avuto confini variabili e cangianti.
Si è soliti affermare che le Beatitudini rappresentano il rovesciamento della mappa dei valori consueti.1 È così. Chiamare beati i poveri, coloro che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (cf. Mt 5,3-10) equivale a proporre una realtà davvero altra rispetto al modo in cui si dipanano i nostri giorni; eppure, più di ogni altro discorso, quelle proclamazioni parlano alla nostra vita.
Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è in se stesso ben impegnativo: è un banco di prova che ci interpella e da cui, troppo spesso, usciamo sconfitti. «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,33-34; cf. Lv 19,18). Per comprendere meglio il passo dobbiamo rivolgerci all’ebraico.
All’interno del Vangelo di Giovanni vi è una specie di masso erratico. Ci si imbatte infatti in una sezione isolata (cf. Gv 8,1-11) dedicata alla donna scoperta in flagrante adulterio e tradotta da scribi e farisei davanti a Gesù. Anche quando non si era presi da preoccupazioni filologiche, si colse il brano come qualcosa a sé. Non a caso da esso è derivato un detto proverbiale tuttora in uso: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Si tratta di una specie di ordine paradossalmente pronunciato per non essere eseguito. La formulazione letterale del detto è più articolata della sua versione corrente, tuttavia la differenza tra le due frasi non è fondamentale: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). La diversità più significativa è che il termine «primo» in Giovanni è riferito alle persone e non alle cose. Riguarda il potenziale iniziatore dell’azione, forse il personaggio più autorevole, cioè colui che è nelle condizioni di tirarsi dietro tutti gli altri.
Il banchetto escatologico simboleggia il congedo da quanto sia di positivo sia di negativo c’è nel mondo. In ciò sta la sua componente paradossale. Il mangiare e il bere sono la testimonianza inconfutabile della non autosufficienza umana. Nessuno può continuare a vivere senza dipendere quotidianamente dall’altro da sé: aria, acqua, cibo. A nessuno è dato di superare questo limite.