La pandemia da coronavirus mette in crisi le certezze dei sistemi giuridici delle democrazie costituzionali e quindi degli strumenti di protezione delle libertà fondamentali. Al pari di quanto già si avverte con l’avanzare di forme di radicalizzazione religiosa nelle società occidentali, che danno conto della necessità di strutturare modelli normativi capaci di favorire un’autentica «convivialità delle differenze» – per dirla con le parole di don Tonino Bello –, il diritto – quello positivo, moderno, secolarizzato – attraversa alcuni dei tornanti più delicati della sua storia.
Il populismo da tempo continua a suscitare un grande interesse. Nella conversazione pubblica, il termine viene usato per lo più per indicare partiti e leader che sembrano sfidare lo status quo, nella convinzione che l’interlocutore capisca al volo di che cosa si stia parlando. Ma non v’è certezza che sia così, considerando la straordinaria varietà di leader e di partiti ai quali viene attribuito il titolo di «populista».
Il gesuita tedesco Augustin Bea (1881-1968) è stato uno dei grandi protagonisti dell’aggiornamento ecclesiale promosso dal coetaneo Giovanni XXIII. La sua figura è indissolubilmente legata al Segretariato per l’unità dei cristiani. Nel maggio 1969, al momento di elencare le commissioni incaricate di predisporre i lavori del concilio Vaticano II, il pontefice chiamava il quasi ottuagenario religioso a dirigere questo nuovo organismo, indicando esplicitamente – ed era il solo caso – il nome di chi l’avrebbe presieduto.
Se dovessimo valutare l’importanza di un argomento, oltre che dal numero delle pubblicazioni, anche dalla qualità e profondità con cui esso ha fatto la sua comparsa nel dibattito pubblico e specializzato, potremmo dire che il tema degli animali è uno di quelli che maggiormente hanno occupato la scena dei dibattiti filosofici e teologici, ma anche etici, politici, ecologici e perfino dietetici della prima decade del XXI secolo e che, negli anni seguenti, hanno visto la radicalizzazione di alcune tesi abbozzate già sul finire del XX secolo.
A causa della pandemia è quasi passato inosservato il 75o anniversario dell’uccisione di Dietrich Bonhoeffer, avvenuta nel campo di concentramento di Flossenbürg, in Baviera, il 9 aprile 1945. Rispetto a 25 anni fa, quando per il 50o uscirono libri generali su di lui, monografie, studi specialistici e si organizzarono convegni i cui atti segnarono un revival dell’interesse intorno al pastore berlinese, oggi possiamo segnalare un libro di Roberto Fiorini e la pubblicazione in volume (separato dall’edizione critica delle principali opere bonhoefferiane) della Cristologia, per Queriniana, con la postfazione storica di Eberhard Bethge e Otto Dudzus, e con un nuovo saggio introduttivo di Alberto Conci.
La questione che si pone quando si voglia affrontare il tema della riforma della Chiesa è quali aspetti si possano prefigurare. Osservando la storia, sono tre quelli sui quali l’attenzione si è soffermata: i costumi, la dottrina, le strutture organizzative. Se sul primo dei tre si è in genere concordato, sugli altri due la discussione è stata accesa. In verità anche circa la riforma dei costumi non appare pacifico cosa si debba intendere: il tema della santità indefettibile della Chiesa ha portato a distinguere la riforma dei costumi delle singole persone – autorità o fedeli in generale – da quella della Chiesa come totalità.
La potenza sovrastante della natura significa per l’umano l’incontro con l’inermità, con la propria impotenza, con il dramma della malattia, della propria morte, dell’angoscia della propria finitezza. Di fronte all’angoscia della finitezza viene evocata la religione come riparo, come rimedio, come analgesico, come costruzione ausiliaria. Questa è la tesi (…) con un’avvertenza: quando Freud usa il termine «illusione» lo usa (…) in termini analitici (…): definiamo «illusione» lo statuto infantile del desiderio. L’illusione sarebbe la forma che assume il desiderio nell’infanzia. In questo senso dunque la religione indicherebbe un movimento regressivo dell’umano agli stadi primari della vita, dunque del bambino che si nutre dell’illusione (…)
Appartengo alla generazione che ha vissuto quella che i francesi chiamano una jeunesse dorée; sono cresciuto nella bambagia. Non ho mai sperimentato la fame, non ho conosciuto la guerra, non ho dovuto far fagotto per recarmi altrove, non ho lavorato di giorno per studiare la sera. Le tragedie le ho sempre viste sullo schermo, comodamente seduto sul divano: erano reali ma riguardavano altri. Godo di ottima salute, abito in una città sicura, posso comprare quello che mi piace, ho visitato il mondo.
Il mestiere di vivere, nella contemporaneità globalizzata e digitale, è un’impresa. Si deve funzionare come una macchina: i ritmi forsennati del mondo accelerato non permettono di dare tempo al tempo. Stare sempre accesi è il nuovo imperativo categorico. Se vivere è un’impresa, l’uomo diventa imprenditore, di se stesso. La competizione è agguerrita e non si può sbagliare; ognuno è sottoposto a pratiche di valutazione permanente. Che cosa resta dell’umano nella società della performance?