P. Stefani
Le catastrofi senza precedenti del Novecento hanno imposto – e in parte ancora impongono – d’inventare forme inedite di ricordo. Alcune spontanee, altre frutto di lunghe riflessioni, ma tutte, consapevolmente o inconsapevolmente, contraddistinte da un tratto inedito. Ben presto ci si accorse che le modalità consuete alle società precedenti dovevano subire profonde mutazioni. A volte si sono imposte da sé, al di là dell’intenzione di coloro che le avviarono. È comune contraddistinguere i luoghi segnati dalla morte. Ai nostri giorni, a chi percorre strade suburbane, è offerto lo spettacolo, un tempo infrequente, di vedere contrassegnati cigli, alberi e parapetti da mazzi di fiori, foto ingiallite, magliette o sciarpe o da più stabili cippi. Ognuno sa che si tratta di indicazioni luttuose. Evidente è anche il fatto che, non di rado, sono ricordi di giovani vite sacrificate non sull’altare del «dovere», ma su quello, oggi assai più cogente, dell’«evasione». Questi «non luoghi» stradali, intrinsecamente anonimi, vengono personalizzati dalle mani dei genitori o degli amici delle vittime. Perché si connota in modo memoriale l’oggetto fisico, la cui impenetrabile solidità è stata concausa della distruzione di una giovane esistenza?
Attualità, 2/2011, 15/01/2011, pag. 27