«I gruppi di preghiera, gli ammalati della Casa sollievo, il confessionale; tre segni visibili, che ci ricordano tre eredità preziose: la preghiera, la piccolezza e la sapienza di vita». Dopo aver visitato nel 2017 Bozzolo e Barbiana, luoghi legati alla memoria di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani (Regno-doc. 15,2017,455), papa Francesco il 17 marzo ha compiuto un’altra tappa di un ideale pellegrinaggio sulle orme delle figure di consacrati che hanno contribuito a plasmare la Chiesa italiana del Novecento, recandosi a Pietrelcina, luogo natale di padre Pio, e San Giovanni Rotondo, nel cui monastero il santo, frate minore cappuccino, visse la maggior parte della sua vita. Occasione della visita pastorale era il centenario dell’apparizione delle stimmate permanenti (1918) e il 50° anniversario della morte (1968). Anche in questo caso, come nei due precedenti, si è trattato di un personaggio dalla grande influenza, ma con un rapporto spesso difficile con l’istituzione ecclesiale.
«San Pio ha offerto la vita e innumerevoli sofferenze per far incontrare il Signore ai fratelli. E il mezzo decisivo per incontrarlo era la confessione, il sacramento della riconciliazione. Lì comincia e ricomincia una vita sapiente, amata e perdonata, lì inizia la guarigione del cuore. Padre Pio è stato un apostolo del confessionale».
La lettera Placuit Deo della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicata il 1° marzo, intende «mettere in evidenza, nel solco della grande tradizione della fede e con particolare riferimento all’insegnamento di papa Francesco, alcuni aspetti della salvezza cristiana che possono essere oggi difficili da comprendere a causa delle recenti trasformazioni culturali». Il documento, che è il primo della Congregazione a portare la firma del nuovo prefetto Luis Ladaria (entrato in carica lo scorso luglio), riprendendo il magistero di papa Francesco osserva come il mondo contemporaneo avverta con difficoltà la fede cristiana, e questo a causa di due tendenze in crescita tra i credenti, che non consentono di riconoscere nell’incarnazione del Verbo la via autentica per la redenzione umana. Si tratta dell’individualismo, che quasi come un neo-pelagianesimo «tende a vedere l’uomo come essere la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze», e di un neo-gnosticismo che crede in «una salvezza meramente interiore, la quale suscita magari una forte convinzione personale… ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre relazioni con gli altri e con il mondo creato». La Lettera ribadisce che «Cristo è salvatore in quanto ha assunto la nostra umanità integrale e ha vissuto una vita umana piena, in comunione con il Padre e con i fratelli. La salvezza consiste nell’incorporarci a questa sua vita, ricevendo il suo Spirito».
È stato un piccolo «Sinodo dei giovani» la Riunione pre-sinodale che si è svolta a Roma dal 19 al 24 marzo, con la partecipazione fisica di oltre 300 giovani da tutti i continenti e quella «virtuale» di altri 15.000 circa in collegamento attraverso i social media. Dopo aver lavorato divisi in 20 diversi gruppi linguistici (9 per l’inglese, 4 per lo spagnolo, 4 per l’italiano e 3 per il francese) più altri 6 per chi partecipava attraverso i social, i partecipanti hanno elaborato con metodo sinodale un Documento della Riunione pre-sinodale in preparazione alla XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che è stato approvato e pubblicato il 24 marzo, e consegnato a papa Francesco il giorno successivo. Nato dall’esigenza di coinvolgere direttamente i giovani, a causa anche della scarsa risposta al questionario on-line pubblicato il 14 giugno 2017 sul sito www.synod2018.va, è una delle fonti che contribuirà alla stesura dell’Instrumentum laboris per il Sinodo che si terrà a Roma in ottobre, insieme alle sintesi inviate dalle conferenze episcopali (cf. per esempio Regno-doc. 3,2018,123 e 134), ai risultati del questionario on-line e agli interventi di un seminario internazionale tenuto nel settembre 2017 in Vaticano.
Il 12 marzo è stata presentata ufficialmente la nuova collana della Libreria editrice vaticana «La teologia di papa Francesco», curata da Roberto Repole, presidente dell’Associazione teologica italiana. In quell’occasione mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione, leggeva un brano di una lettera, definita «privata», inviata dal papa emerito Benedetto XVI. In giornata veniva reso noto solamente il passo nel quale egli definiva «stolto pregiudizio» ritenere papa Francesco «uomo pratico», contrapponendolo a Benedetto stesso «teorico della teologia».
Tuttavia il giallo di una fotografia della lettera, pubblicata sbiancando il resto della missiva, poneva il dubbio che oltre alla parte resa nota e a quella letta nella presentazione di Viganò vi fosse dell’altro. Sotto l’incalzare della polemica dei media, sabato 17 la Segreteria per la comunicazione rendeva noto il testo integrale, nel quale era presente una critica di Benedetto per la scelta di uno degli autori della collana – il teologo tedesco Peter Hünermann – e due giorni dopo mons. Viganò rassegnava le dimissioni, accettate dal papa il 21 «non senza qualche fatica» e nominandolo al nuovo ruolo di «assessore» nel medesimo dicastero.
«C’è una società da pacificare. C’è una speranza da ricostruire. C’è un paese da ricucire. Chi è disponibile a misurarsi su questi orizzonti ci troverà a camminare al suo fianco». Il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana tenutosi a Roma dal 19 al 21 marzo è stato il primo con la nuova modalità approvata in gennaio (cf. Regno-doc. 5,2018,167), cioè un’introduzione del presidente card. Gualtiero Bassetti a porte chiuse, in luogo della prolusione, la discussione tra i vescovi, una conclusione del presidente aperta ai media (che pubblichiamo), conferenza stampa e Comunicato finale (qui a p. 224).
Il confronto tra i vescovi si è concentrato anche sulle recenti elezioni politiche del 4 marzo, che prendono la maggior parte delle Conclusioni. Da un lato «per ripartire dobbiamo ritrovare una visione ampia, grande, condivisa; un progetto-paese che, dalla risposta al bisogno immediato, consenta di elevarsi al piano di una cultura solidale»; dall’altro la Chiesa italiana offre la propria disponibilità nel profondo lavoro da compiere, rilanciando «con forza» l’invito al dialogo sociale: «Ci riconosciamo nella tradizione democratica del nostro paese e sentiamo la responsabilità di contribuire a mantenerlo unito. Ci impegniamo ad ascoltare questa stagione, a ragionare insieme e in maniera organizzata sul cambiamento d’epoca in atto e a portare avanti con concretezza un lavoro educativo e formativo appassionato».
Il documento preparatorio al Sinodo minore di Milano, intitolato Chiesa dalle genti. Responsabilità e prospettive. Linee diocesane per la pastorale, è stato consegnato il 14 gennaio scorso al Consiglio presbiterale diocesano, ai decani e ai consigli pastorali decanali, che su di esso si stanno confrontando insieme ai consigli pastorali parrocchiali, alle comunità dei migranti, alle associazioni e movimenti ecclesiali, oltre al Consiglio delle Chiese cristiane di Milano e al Forum delle religioni. «La terra dei santi Ambrogio e Carlo, questo grande tessuto urbano che copre e supera il territorio diocesano, si trova in una fase davvero particolare della sua storia: sta conoscendo da un lato un grande momento di risveglio e rilancio, ma dall’altro è provocata e anche sfidata da un nuovo contesto culturale e sociale che non sempre favorisce l’incontro di popoli e di culture in una convivenza capace di accogliere e conciliare le differenze».
Raccogliendo il mandato affidato alla Chiesa ambrosiana da papa Francesco nella sua visita del 25 marzo 2017 (cf. Regno-doc. 7,2017,209), il processo sinodale si confronterà con la realtà multiculturale e multietnica che costituisce l’attuale momento storico, per «scorgere dentro questi cambiamenti i segni dello Spirito che ci guida dentro la storia».
«La rinascita del patriottismo e del senso della coscienza nazionale, osservata in Polonia negli ultimi anni, è un fenomeno molto positivo». Tuttavia «vi è anche un egoismo nazionale, il nazionalismo, il quale coltiva il senso della propria superiorità e si chiude rispetto ad altre comunità nazionali e alla comunità umana in generale. Il patriottismo infatti deve essere sempre un atteggiamento aperto». Il documento dell’episcopato polacco La forma cristiana del patriottismo, elaborato dal Consiglio per gli affari sociali della Conferenza episcopale polacca, approvato dalla 375a Assemblea plenaria il 14 marzo 2017 e presentato a Varsavia il 28 aprile 2017, si propone come «una risposta alle richieste dei fedeli che da un lato hanno rilevato il rafforzamento del patriottismo in Polonia, ma dall’altro hanno assistito a certi comportamenti e atteggiamenti, presentati sotto la bandiera del patriottismo, che non sono conformi con lo spirito cristiano e il Vangelo».
Mentre la Polonia vive una fase di tensione nei rapporti con l’Unione Europea, tra rosari sulle frontiere, manifestazioni dell’estrema destra xenofoba accompagnate dal grido «Vogliamo Dio!» e riemergente antisemitismo (cf. riquadro a p. 242), i vescovi ricordano ai loro connazionali che «la Polonia è stata, è e deve rimanere nell’Europa contemporanea e nel mondo un simbolo di solidarietà, apertura e ospitalità».
La Polonia celebra nel 2018 il centenario della riconquistata indipendenza nazionale, nel 1918, dopo che le spartizioni tra Russia, Prussia e Impero asburgico per 123 anni l’avevano cancellata dalla mappa dell’Europa. La circostanza è stata ricordata nel Comunicato finale dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale polacca, che si è espresso anche sul tema dell’antisemitismo, proprio dopo che il 1° marzo è entrata in vigore nel paese la controversa legge sulla Shoah, che punisce chi definisce «campi polacchi» i Lager costruiti dagli occupanti nazisti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ma anche chi attribuisce in merito complicità di singoli polacchi o cita l’esistenza di pogrom anti-ebraici durante e dopo la guerra (www.episcopat.pl; nostra traduzione dal polacco).
Nello scorso ottobre, il 18 e 19, si sono incontrati i rappresentanti delle Conferenze episcopali della Repubblica Ceca, della Croazia, della Polonia, della Slovacchia e dell’Ungheria, cioè dei paesi che – Croazia esclusa – costituiscono il Gruppo di Visegrad, rappresentante dell’asse più identitario e sovranista all’interno dell’Unione Europea. Al termine dell’incontro hanno pubblicato il Comunicato che segue (uj.katolikus.hu; nostra traduzione dall’ungherese).
«L’amore è anche l’anima di quel nobile sentimento che noi chiamiamo patriottismo. Un vero cristiano è chiamato a essere patriota: amare la patria, il proprio popolo, la sua lingua e cultura con lo stesso amore sacrificale con il quale si osserva il comandamento di Dio di amare il padre e la madre». Quest’anno anche l’Ucraina, come la Polonia (cf. in questo numero a p. 239), celebra i 100 anni del ripristino dell’indipendenza, da quando cioè nel 1918 affermò la propria sovranità subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, per poi essere dopo pochi anni riassorbita, nel 1922, come uno degli stati costitutivi dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS); non avrebbe riacquistato la sua indipendenza fino al 1991. In questo centenario, e ancora nel mezzo di una guerra con la Russia che ne minaccia l’integrità territoriale, il Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina ha pubblicato il 7 marzo un Messaggio in occasione del centenario del ripristino della sovranità ucraina, che elabora il concetto dell’amor di patria distinguendolo dal nazionalismo, e al tempo stesso fa appello all’unità di tutti gli ucraini: «Ricordando la centenaria esperienza del passato, preziosa e per lo più amara, oggi… ci appelliamo anche a ogni ucraino e a ogni ucraina, ovunque essi siano, con la richiesta di apprezzare la collegialità dello stato ucraino, di curare l’unità e la solidarietà tra di noi, di non andare al guinzaglio dei falsi patrioti che seminano la diffidenza, il disaccordo, la discordia e le divisioni della nostra nazione».
Durante il periodo comunista, «da un lato la Chiesa greco-cattolica fu la più grande organizzazione religiosa proibita nel mondo e, dall’altro, era la più grande forza di opposizione sociale al sistema sovietico». Inoltre riuscendo a evitare «la tentazione della nazionalizzazione sia durante il periodo comunista sia dopo la sua caduta», è divenuta «la portavoce della società davanti a regimi autoritari, politici corrotti e oligarchi spietati», fino a rivestire un ruolo di primaria importanza nella «rivoluzione della dignità» nel 2014. Partecipando a Varsavia a una conferenza su «La rivoluzione, la guerra e le sue conseguenze», il 16 marzo, con un intervento dal titolo «Il ruolo della Chiesa greco-cattolica nella trasformazione della società ucraina», l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halyč, sua beatitudine Sviatoslav Shevchuk, ha richiamato l’attenzione sulla guerra in corso, di cui «sfortunatamente… si parla troppo poco». «Ogni giorno muoiono i soldati e i civili. E questa situazione va avanti da diversi anni. La Chiesa deve diventare la portavoce di coloro a cui la voce è stata tolta, deve parlare a nome di coloro la cui legge è stata infranta. In questo contesto, vi invito alla cooperazione appellandomi alla solidarietà con la società ucraina nelle sue aspirazioni filo-europee».
Holodomor, noto anche come Genocidio o Olocausto ucraino, è il nome attribuito alla grande carestia che si abbatté sull’Ucraina negli anni 1932 e 1933, e che fu dovuta allo sfruttamento pianificato dal regime sovietico, con la collettivizzazione delle proprietà agricole e la confisca del bestiame e dei prodotti della terra. Fu causa della morte di oltre tre milioni di ucraini, la metà dei quali giovani fino ai 17 anni, ed è stato riconosciuto dal Parlamento europeo nel 2008 come uno «spaventoso crimine contro il popolo ucraino e contro l’umanità», pianificato «con cinismo e crudeltà dal regime di Stalin al fine d’imporre la politica sovietica di collettivizzazione dell’agricoltura contro la volontà della popolazione rurale in Ucraina». Nel saggio che qui proponiamo, lo storico e teologo ucraino Augustyn Babiak mette in luce in particolare il ruolo svolto dal metropolita greco-cattolico Andrej Szeptyckyj nel denunciare al mondo la tragedia e nel favorire gli aiuti internazionali. Il testo è stato proposto con il titolo «La Chiesa greco-cattolica e l’Holodomor (1932-1933)» in occasione della conferenza «85° anniversario del genocidio ucraino, 1932-1933. Ricordare, imparare, prevenire», organizzata dal Consolato generale ucraino e dalla Chiesa greco-cattolica ucraina in Italia, a Milano, dal 24 al 26 novembre 2017.