«Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre a un vero incontro con i poveri e dare luogo a una condivisione che diventi stile di vita». L’opzione preferenziale per i poveri, tema teologico di spicco soprattutto nell’esperienza ecclesiale latinoamericana, assume un posto di primo piano nel pontificato bergogliano. In stretta correlazione con il Giubileo della misericordia celebrato nel 2016, alla sua conclusione con la lettera Misericordia et misera papa Francesco aveva istituito la Giornata mondiale dei poveri – «che aiuterà le comunità e ciascun battezzato a riflettere su come la povertà stia al cuore del Vangelo e sul fatto che fino a quando Lazzaro giace alla porta della nostra casa… non potrà esserci giustizia né pace sociale» (n. 21; Regno-doc. 21,2016,658) –, collocandola nell’ultima domenica dell’anno liturgico. Il 13 giugno ha quindi pubblicato il Messaggio per la I Giornata mondiale dei poveri, che ricorrerà quest’anno il 19 novembre, intitolandolo «Non amiamo a parole ma con i fatti».
Firmato il 6 novembre 2013 dal nunzio apostolico in Ciad e dal ministro degli Esteri e dell’integrazione africana del paese, e ratificato il 22 giugno 2015, l’Accordo tra la Repubblica del Ciad e la Santa Sede sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica riconosce la personalità giuridica delle istituzioni cattoliche e fissa lo spazio normativo in cui si esplica la libertà d’azione della Chiesa all’interno della Repubblica, mantenendo come punti di riferimento il concilio Vaticano II e il diritto canonico per la Santa Sede, e la Costituzione per lo stato ciadiano. Riconoscendo il valore sociale e pubblico delle opere ecclesiali, lo stato garantisce diritti e agevolazioni, come l’esenzione da alcune imposte. Il continente africano è una delle regioni in cui negli ultimi anni la Santa Sede ha firmato più concordati o accordi-quadro, alcuni dei quali non ancora ratificati (cf. anche in questo numero a p. 390 e 394): con il Mozambico (2011), il Burundi e la Guinea Equatoriale (2012), Capo Verde (2013), il Camerun e la Repubblica democratica del Congo (2014), la Repubblica Centrafricana e il Benin (2016), il Congo-Brazzaville (2017), mentre altri sono in itinere. Riprendiamo la consuetudine di pubblicare tali accordi, recuperando anche i più significativi degli ultimi anni, per documentare il percorso di adattamento delle istituzioni cattoliche all’evoluzione statuale specifica delle diverse realtà geografiche.
«La Repubblica del Camerun riconosce alla Chiesa cattolica il diritto di attendere al servizio dello sviluppo umano, sociale, culturale, morale, spirituale e materiale, per il bene di tutti, e di creare, a tal fine, istituzioni adeguate aventi la personalità giuridica nel diritto camerunese». L’Accordo-quadro tra la Santa Sede e la Repubblica del Camerun sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica nel Camerun, firmato il 13 gennaio 2014 nella sede del Ministero degli affari esteri della Repubblica del Camerun a Yaoundé, è entrato in vigore all’atto della firma, secondo l’art. 9 dell’Accordo stesso. Costituito da 9 articoli, disciplina le relazioni fra la Chiesa e lo stato, i quali, nel quadro dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascuno, s’impegnano a operare insieme per il benessere morale, spirituale e materiale della persona e per la promozione del bene comune. Negli ultimi anni l’Africa, l’Asia e l’Oceania sono state le aree nelle quali si è sviluppata maggiormente l’azione diplomatica della Santa Sede (cf. in questo numero a p. 390), e sono anche – soprattutto l’Africa – le regioni di maggior crescita della Chiesa cattolica, e dove spesso le amministrazioni statali fanno maggior affidamento sui servizi sociali come la sanità e l’educazione offerti dalle istituzioni ecclesiastiche, a cui quindi accordi e concordati offrono un riconoscimento e delle facilitazioni.
Firmato il 26 giugno 2015 ed entrato in vigore il 2 gennaio 2016, l’Accordo globale tra lo Stato di Palestina e la Santa Sede fa seguito all’Accordo di base che era stato firmato tra la Santa Sede e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) il 15 febbraio 2000 (Regno-doc. 5,2000,162), dopo che nel 2012 è intervenuto il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Vaticano.
Il nuovo Accordo globale è costituito da un preambolo e da 32 articoli distribuiti in 8 capitoli, e riguarda aspetti essenziali della vita e dell’attività della Chiesa nello Stato di Palestina (Cisgiordania e Striscia di Gaza), riaffermando contestualmente il diritto alla libertà religiosa e il sostegno, «in conformità con il diritto internazionale… per la soluzione “due popoli, due stati”, in virtù della quale tutti gli stati della regione vivano in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti a livello internazionale». In un’intervista a L’Osservatore romano il 13 maggio 2015, mons. Antoine Camilleri, sottosegretario vaticano per i rapporti con gli stati, sottolineava: «Il fatto che in esso si riconoscano chiaramente, tra le altre cose, la personalità della Chiesa e la libertà religiosa e di coscienza può essere seguito da altri paesi, anche da quelli a maggioranza musulmana, e mostra che tale riconoscimento non è incompatibile con il fatto che la maggioranza della popolazione del paese appartenga a un’altra religione».
È un fenomeno in crescita: 21 milioni le persone coinvolte nel 2010, probabilmente 36 milioni nel 2016. Riguarda soprattutto donne e bambini, e in genere coloro che le guerre, le persecuzioni e i disastri ambientali hanno reso vulnerabili. La comunità internazionale si è impegnata a combatterlo, e la Santa Sede a dare a tale lotta il massimo supporto. È la tratta di esseri umani, forma di schiavitù moderna di cui mons. Bernardito Auza ha parlato con passione e competenza alla Fordham University di New York, il 23 febbraio. Lo fa in veste di osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, ma anche di membro del «Gruppo Santa Marta», che su impulso di papa Francesco ha riunito alti rappresentanti della Chiesa cattolica e funzionari degli organismi inquirenti internazionali per combattere questa piaga.
La «forte e incessante denuncia di questo cancro sociale» operata da Francesco viene ampiamente richiamata in questa lezione. Si tratta, egli ha detto, di un crimine contro l’umanità, alimentato da «cause economiche, ambientali, politiche ed etiche»; dunque è giunto il momento di agire, attraverso la mobilitazione «degli stati, delle organizzazioni intergovernative, delle imprese, delle organizzazioni della società civile e di ciascuna persona». Compresi naturalmente i leader religiosi, con i quali, ricorda mons. Auza, Francesco ha promosso nel 2014 una Dichiarazione congiunta contro la schiavitù moderna.
Un forum dal titolo «Peccati davanti ai nostri occhi», organizzato dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e dalla Chiesa d’Inghilterra presso la sede del Patriarcato a Istanbul (6-7.2.2017), i leader delle due Chiese – il patriarca ecumenico Bartolomeo I, ortodosso, e l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, anglicano – hanno chiesto perdono per i peccati di omissione «per non aver agito, e con sufficiente celerità, per arginare la piaga della schiavitù moderna», e hanno annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro comune per la lotta contro il traffico di esseri umani (www.patriarchate.org; nostra traduzione dall’inglese).
«Oggi il dialogo è una necessità, non una scelta: non può esservi pace nel mondo senza dialogo, specialmente fra i credenti… In tutte le religioni esiste un tesoro di valori che possono favorire la costruzione di un mondo di giustizia, pace, fraternità e prosperità». Nell’ambito degli sforzi che molti leader religiosi stanno compiendo per affrancare il messaggio religioso dall’accusa di violenza e isolare l’estremismo (cf. in questo numero a p. 419), il segretario del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso mons. Miguel Angel Ayuso Guixot è intervenuto a nome della Santa Sede alla V Conferenza internazionale del Centro di ricerca per la legislazione e l’etica islamica (CILE), tenutasi a Doha in Qatar il 18 e 19 marzo 2017 sul tema «Etica del conflitto e della resistenza. Verso una comprensione critica del jihad e della “guerra giusta”». Per contrastare la reinterpretazione strumentale e distorta dei concetti della guerra giusta operata dai gruppi terroristici, l’intervento chiarisce il concetto di «guerra giusta» come è venuto evolvendosi nella riflessione cristiana, ribadendo chiaramente la condanna assoluta della guerra, con l’unico limite costituito dal riconoscimento del diritto alla legittima difesa.
Al termine di una Conferenza internazionale su «Libertà, cittadinanza, diversità e integrazione» (28.2-1.3.2017), ospitata al Cairo dall’Università di Al-Azhar, principale centro teologico-accademico dell’islam sunnita, e dal Consiglio islamico degli anziani, organismo con sede ad Abu Dhabi, gli oltre 200 delegati – politici, accademici, leader religiosi cristiani e musulmani, provenienti da 60 paesi – hanno sottoscritto una Dichiarazione di reciproca coesistenza islamo-cristiana, che condanna l’uso della violenza in nome della religione e indica nel principio di cittadinanza il criterio da applicare per garantire la pacifica e fruttuosa convivenza tra persone appartenenti a fedi e comunità religiose differenti. Gli studiosi di Al-Azhar in seguito, alla fine di giugno, hanno sottoposto ai collaboratori del presidente egiziano Al-Sisi il testo di una proposta di legge per contrastare le violenze e la propaganda di odio settario giustificate in nome della religione, e riproporre il principio di cittadinanza come base di una convivenza pacifica tra connazionali di diverse componenti religiose. La Dichiarazione fa seguito al Messaggio di Amman del 2004 e alla Dichiarazione di Marrakesh del gennaio 2016 (Regno-doc. 7,2016,245) nella ricerca di fondare nella teologia ortodossa i principi della libertà di coscienza e delle libertà civili, delegittimando l’integralismo islamico.
«Con questa Carta, i vescovi del Belgio vogliono aiutare i responsabili dell’amministrazione dei beni della Chiesa a realizzare questo compito in uno spirito di prudenza, di gestione da “buon padre di famiglia” e per il bene della comunità ecclesiale». È l’intento della Carta per la buona gestione dei beni della Chiesa, approvata dalla Conferenza dei vescovi del Belgio il 6 aprile 2017 e pubblicata l’11 aprile, con l’invito a tutti i responsabili amministrativi ed economici di entità ecclesiali ad attenervisi scrupolosamente. Il principio guida generale è che «questi beni materiali sono necessari per la realizzazione della missione della Chiesa. Sono quindi amministrati in spirito di carità, continuità, efficienza e trasparenza», con il massimo rispetto della legislazione vigente.
Le linee guida offerte dall’episcopato belga comprendono le indicazioni del Codice di diritto canonico, ma si estendono poi a precisare alcuni principi che «devono prevalere al fine di garantire che le decisioni siano prese in nome del bene comune»: responsabilità collegiale, competenza, complementarità, sussidiarietà, rinnovamento, principio dei «quattro occhi», puntualità, supervisione.
A pochi mesi dall’elezione di Rodrigo Duterte alla presidenza delle Filippine, la Conferenza dei vescovi cattolici del paese si è espressa ufficialmente per criticare i metodi impiegati dal presidente nella guerra contro la droga, con oltre 8.000 vittime stimate di uccisioni extra-giudiziali tra spacciatori e tossicodipendenti, in una lettera pastorale pubblicata il 30 gennaio al termine dell’Assemblea plenaria (Manila, 28-30.1.2017), e letta in tutte le chiese il 5 febbraio. Nella stessa occasione i vescovi cattolici filippini hanno preso la parola per raccomandare ai fedeli, in un paese dove i cattolici sono l’80% della popolazione, di «partecipare ai processi politici del nostro paese, e oggi, in particolare, al processo di modifica della Costituzione del 1987», poiché «l’autore di questo documento è il popolo filippino».
Infine è del 19 marzo una Dichiarazione pastorale sulla pena di morte, che di fronte al progetto di legge per reintrodurre nel paese la pena di morte, sostenuto anche da molti deputati cattolici, prende risolutamente una posizione contraria e invita i filippini a non usare la Bibbia come giustificazione per sostenere la pena capitale.
S’intitola Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e big data: profili bioetici il parere approvato all’unanimità il 25 novembre 2016 dal Comitato nazionale per la bioetica, e pubblicato il 17 gennaio. Il documento si sofferma «sulle enormi opportunità di sviluppo che si dischiudono, in particolare nell’ambito sanitario, con la telemedicina, la medicina di precisione, l’elaborazione di politiche sanitarie. Il comitato delinea anche alcune criticità nella difficoltà a governare l’enorme massa di dati nella raccolta, analisi e uso dei dati, in modo particolare quando sono usati e applicati in modo diverso dalla raccolta iniziale o senza la consapevolezza dell’utente». Il Comitato, quindi, propone alcune raccomandazioni, come una chiara definizione delle responsabilità dei provider, la verifica della qualità dei dati e della trasparenza degli algoritmi, l’attuazione di un riconoscimento effettivo del diritto all’oblio e l’elaborazione di linee guida per un corretto uso delle tecnologie sociali. Inoltre viene sollecitata «l’elaborazione di una normativa per la protezione dei dati personali e la tutela dei cittadini/utenti da rischi sociali dell’abuso dei dati». In appendice è inserito un breve excursus della regolamentazione nazionale ed europea in materia.