Seguo Ratzinger da quasi cinquant’anni, da quando Franco Rodano mi disse nel 1969: «Leggi Introduzione al cristianesimo» che quell’anno era stato tradotto in italiano da Queriniana. Tante sono state nei decenni le vie per cercarlo e per amarlo, non tutte facili.
Sono il portavoce del gruppo «Ospitare i rifugiati» della mia parrocchia romana e qui racconto qualcosa della nostra esperienza, tra entusiasmo e delusione. Costruire il gruppo è stato facile ma abbiamo atteso a lungo l’arrivo della prima ospite e questa è stata già una prova per la tenuta del gruppo. Ci eravamo appena affezionati a lei quand’è arrivata una seconda, le due hanno litigato e la prima se ne è andata senza un «grazie». Altra prova viene dall’impressione che sia poco, troppo poco quello che si fa e non solo in parrocchia ma in Roma e in Italia. Per andare avanti occorre, qui come sempre, imparare l’umiltà e restare fedeli nel poco.
I nostri vescovi hanno tutte le ragioni di temere il nuovo, il papa fa bene a spingerli ad affrontarlo. La posta in gioco è alta, la situazione è creativa: rispondevo così – nei giorni dell’Assemblea della CEI – a una domanda televisiva sul disagio che da tre anni segna il rapporto tra il nostro episcopato e Bergoglio. Tanti ne parlano, pochi lo indagano. Ci provo, mettendo in ordine gli spunti di conversazioni con vescovi nei miei giri per conferenze.
Mi sono appassionato alle «porte sante della carità» e le vado cercando per ogni dove da quando è stata annunciata quella di via Marsala a Roma. Vedo in esse la prima novità di questo giubileo innovatore e vado costruendo un elenco di quelle italiane chiedendo in giro e interrogando i visitatori del blog. Mentre scrivo se ne aprono dappertutto: in ospedali e in carceri, in centri della Caritas, in comunità d’accoglienza, in ogni luogo del soccorso ai bisognosi. Esulto nello scoprirle, ci vedo un riflesso cultuale del genio della carità che caratterizza la nostra Chiesa, specie in Italia. Un inveramento gestuale dell’affermazione teologica che «l’amore per i poveri è liturgia», cara a papa Benedetto (catechesi del 1° ottobre 2008, Angelus dell’11 luglio 2010). Un ulteriore segno della continuità nella predicazione della carità – la continuità che conta – tra Benedetto e Francesco: dalla teologia dell’amore dell’uno alla pastorale della misericordia dell’altro.