Semplici lavoratori
Un aggiornamento della parabola
Capita che fai volontariato in un settore che ne ha massimo bisogno: quello delle carceri. Il tuo lavoro è apprezzato e tu lo fai volentieri, anche se ti prende buon tempo. È un impegno di gruppo e siete in dieci, ben affiatati, a condurlo. Ma un giorno il nuovo responsabile di quell’attività decide che non gli siete più utili e senza consultarvi vi comunica che il gruppo è azzerato e verrà sostituito da un altro, nuovo di zecca.
Tutti voi dieci ci restate male. Alcuni protestano più forte di altri. Tu li inviti alla calma: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Uno dei dieci però non ci sta e protesta anche contro la parabola alla quale ti sei appellato: «Noi non siamo servi, siamo volontari e non si trattano così dei volontari».
Abbiamo fatto la nostra parte:
siamo solo dei volontari
Ci penso di notte e trovo che un poco sono d’accordo e un poco no con l’amico protestante. È vero: non siamo servi. Ma è pure vero che anche il volontario svolge un lavoro che può essere affidato ad altri. E dunque la parabola è salva, purchè la traduciamo bene: non servi inutili, ma «semplici servi», come propone la Bibbia di Gerusalemme. «Siamo soltanto dei servitori» è la resa della Bibbia in lingua corrente. «Siamo servi comuni» è la proposta di Ravasi. Mentre la Bibbia della CEI mantiene la traduzione che fu di Girolamo: «Servi inutiles».
L’ottimo Joachim Jeremias – nel volume Le parabole di Gesù – traduce «poveri servi noi siamo» e così argomenta: «Akeiros non significa inutile, bensì misero. Qui è espressione di modestia».
Ecco allora la mia correzione di tiro, nel dialogo con gli amici del gruppo di volontariato: «Abbiamo fatto quanto dovevamo fare. Siamo solo dei volontari e magari altri volontari faranno meglio di noi».
Un impegno di volontariato è per definizione gratuito. Non ha alcuno scopo al di fuori di se stesso. Non chiede neanche un rimborso spese. Nel nostro caso c’era a volte – ma a volte no – un rimborso per viaggi e albergo, perché si doveva anche viaggiare.
Non dovrebbe dunque risultare difficile, a noi dieci, come a ogni volontario congedato con «tanti saluti a casa», lasciare il posto a nuovi volenterosi. È ora di lasciarlo? Lo lasciamo: siamo solo dei volontari.
Svolta la parabola, conviene dare un’occhiata alla cronaca. Con l’andare degli anni il lettore della Bibbia impara a intendere come parabole fattuali le vicissitudini della sua lunga giornata. I dieci volontari dei quali narra la favola sono i componenti della giuria del Premio Castelli per detenuti, che mi ha fornito, per una dozzina di anni, l’occasione di una presa diretta sul dolente popolo delle carceri. Lettura di oltre duemila «lavori» e visita alle carceri più diverse.
Il Premio Castelli è un concorso «letterario» che ha dietro la Società di San Vincenzo de’ Paoli: Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. La giornata conclusiva del concorso – con la consegna dei premi e un convegno a essa collegato – avveniva in ottobre e si svolgeva ogni anno in un carcere diverso. Ed è così che noi dieci abbiamo conosciuto carceri di tutta la penisola: da Palermo a Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta, Padova, Nisida, Matera, Bergamo. L’ultima edizione, quella 2022, ci ha portati a La Spezia (cf. Regno-att. 18,2022,611).
E qui finisce il palo, perché il cambio di dirigenza nazionale della San Vincenzo e del Settore carceri ha comportato, da parte dei nuovi responsabili, l’azzeramento della giuria di cui io facevo parte e la costituzione di una totalmente nuova. Una decisione legittima, seppure forse non saggia, che noi giurati abbiamo mandato giù con qualche sforzo di deglutizione, che personalmente ho cercato d’accompagnare con la meditazione della parabola che Jeremias intitola «La ricompensa del servo» e che io ho qui svolto come il «congedo del volontario rottamato».
Un semplice lavoratore
nella vigna del Signore
Il punto dolente di questa parabola fattuale è nella necessità d’imparare per tempo – negli anni di lavoro o di volontariato – che nessuno è necessario. «Un semplice lavoratore nella vigna del Signore», disse di sé Benedetto al momento dell’elezione. E da semplice lavoratore un giorno serenamente lasciò poi quell’incarico – pur alto – a un altro lavoratore a lui somigliante. «Chi si prepara a presentare la rinuncia ha bisogno di prepararsi adeguatamente davanti a Dio, spogliandosi dei desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile», ha scritto Francesco nella lettera apostolica Imparare a congedarsi che è del 2018 (cf. Regno-doc. 9,2018,291s).
Semplice lavoratore, semplice volontario. Dovremmo imparare dai due papi questo sguardo disincantato sulla propria sostituibilità. Altri prenderanno validamente il nostro posto.
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