Ministero dell’anziano
Accogliendo un’indicazione del papa
Incoraggiato dalle catechesi sulla vecchiaia svolte da Francesco tra il febbraio e l’agosto di quest’anno, mi azzardo a sognare l’istituzione del ministero dell’anziano o dell’unzione.
In più occasioni – narrando fatti di Vangelo che catalogavo come «celebrazione ecclesiale della propria morte» – mi è capitato di sollecitare il riconoscimento di un ruolo nella Chiesa a malati e anziani, che descrivevo come testimonianza del distacco e dell’attesa. Un ruolo che mi pareva trovasse nella celebrazione comunitaria dell’unzione una specie di investitura o mandato. Un servizio alla Chiesa con il quale chi si prepara al passaggio ricambia il dono dell’accompagnamento che sta ricevendo dalla comunità.
Compito di gratitudine
e di attesa del Signore
Le 18 catechesi di papa Francesco sulla vecchiaia (ne ho scritto in questa rubrica nel mese di luglio; cf. Regno-att. 14,2022,475s) parlano di un «ministero della gratitudine» e «dell’attesa del Signore» da riconoscere agli anziani. Qui riprendo questo spunto e chiedo a chi legge aiuti e suggerimenti per approfondirlo: se vi sia della letteratura in materia che usi esplicitamente la categoria del «ministero» applicata all’ultima stagione della vita; se qualcosa di simile si ritrovi in esperienze pastorali specifiche attinenti alla celebrazione comunitaria dell’unzione e al tempo che la segue.
Il papa, intanto. Ecco le sue puntuali parole. «Se gli anziani, invece di essere scartati e congedati dalla scena degli eventi che segnano la vita della comunità, fossero messi al centro dell’attenzione collettiva, sarebbero incoraggiati a esercitare il prezioso ministero della gratitudine nei confronti di Dio, che non dimentica nessuno»: così ha parlato Francesco il 15 giugno scorso nella catechesi numero 14 sulla vecchiaia, intitolata Il lieto servizio della fede che si apprende nella gratitudine.
In quella stessa catechesi il papa specifica che «la gratitudine delle persone anziane per i doni ricevuti da Dio nella loro vita» è, di suo, destinata a svolgere una funzione ecclesiale, in quanto «restituisce alla comunità la gioia della convivenza, e conferisce alla fede dei discepoli il tratto essenziale della sua destinazione». Quella funzione Francesco la qualifica anche come «servizio evangelico della gratitudine per la tenerezza di Dio».
Nella catechesi numero 16 del 10 agosto, intitolata La vecchiaia, tempo proiettato al compimento, il papa ci dice che quel ministero della gratitudine è insieme un ministero di attesa: «La vecchiaia è il tempo propizio per la testimonianza commossa e lieta di questa attesa [del Signore che, dopo averci preparato un posto, verrà di nuovo e ci prenderà con sé: Gv 14,3; nda]. L’anziano e l’anziana sono in attesa, in attesa di un incontro. Nella vecchiaia le opere della fede, che avvicinano noi e gli altri al regno di Dio, stanno ormai oltre la potenza delle energie, delle parole, degli slanci della giovinezza e della maturità. Ma proprio così rendono ancora più trasparente la promessa della vera destinazione della vita. E qual è la vera destinazione della vita? Un posto a tavola con Dio, nel mondo di Dio. Sarebbe interessante vedere se nelle Chiese locali esiste qualche riferimento specifico, destinato a ravvivare questo speciale ministero dell’attesa del Signore (…) incoraggiando i carismi individuali e le qualità comunitarie della persona anziana».
Sono felice di questa attenzione di Francesco al ruolo di animatori della gratitudine e dell’attesa che potrebbero svolgere gli anziani. Quel ruolo lo chiama «ministero», cioè servizio: servizio alla comunità. Non dice di più e osserva che sarebbe «interessante» vedere che si fa nelle comunità per ravvivare e incoraggiare questo ministero. Fa insomma la stessa domanda che mi sto facendo io.
Per una nuova liturgia
del morire cristiano
Qui trova un ruolo il giornalista ed è qui che mi sento chiamato in causa.
Indagando sui fatti di Vangelo, cioè sulle attestazioni più vive della fede nell’Italia di oggi, mi sono trovato spesso a segnalare la crescita di una nuova liturgia del morire cristiano: una liturgia ancora timida, ma diffusiva di se stessa.
La prima manifestazione importante di questa nuova liturgia l’avemmo in Italia con la decisione del vescovo di Padova Filippo Franceschi (l’indimenticabile don Filippo da me conosciuto in Azione cattolica), che il Giovedì santo del 1989 chiese l’unzione degli infermi all’assemblea dei suoi preti, in cattedrale.
Era già chiaro in quel primo caso l’elemento chiave di questa nuova liturgia: la convocazione della comunità attorno al cristiano che si incammina verso il Signore e chiede ai fratelli di essere accompagnato al grande passo. Come l’accompagnarono al battesimo e al matrimonio, all’ordinazione sacerdotale o alla professione monastica.
Dopo il gesto maieutico (da levatrice: ha aiutato a nascere ciò che era già maturo nella gestazione della comunità) di Franceschi sono venute le morti ecclesiali dei vescovi Agresti, Bello, Corecco, Bianchi, Savio, Chenis, del frate e poeta Turoldo, del cofondatore della Caritas don Italo Calabrò e di tanti altri meno noti. Di particolare significato fu la scelta del vescovo di Lugano Eugenio Corecco, che volle ricevere l’unzione degli infermi il 25 agosto 1994 a Lourdes, insieme agli altri malati di un pellegrinaggio della sua diocesi e in quella celebrazione tenne un’omelia di forte contenuto sull’accompagnamento ecclesiale delle persone «vicine a morire».
La vecchiaia come età
dei preparativi pasquali
Con questi vescovi e sacerdoti e religiosi, con loro e prima di loro e dietro a loro, ci sono stati e ci sono tanti cristiani comuni che hanno lasciato una memoria partecipata del loro «addormentarsi nella speranza della risurrezione».
Tra le storie da me raccolte trovo significativa, in riferimento al ministero di gratitudine e di attesa segnalato ora da papa Francesco, quella di Emanuele Mamotti, un attivo parrocchiano di Bresso, Milano, che nella primavera del 1993 invitò parenti e amici alla propria unzione degli infermi, come fosse una festa da proporre alla comunità. «Emanuele sentiva il bisogno di condividere questa esperienza che stava vivendo. E volle vivere in maniera comunitaria il sacramento dell’unzione. Voleva che la sua malattia e poi la sua morte diventassero un dono di vita, un momento di crescita per gli altri. Era un modo per non subirla, ma per viverla nonostante tutto all’insegna della libertà»: è il racconto fatto ad Avvenire del 17 febbraio 1998 dalla moglie Bruna. Emanuele aveva preparato la lista delle persone da invitare, si era fatto aiutare nella scelta dei canti, si era consigliato sul vestito da indossare.
I gruppi di Azione cattolica, le parrocchie vive, i movimenti sono gli ambienti dove testimonianze simili a questa fanno crescere la nuova liturgia del morire cristiano. Essa prevede l’informazione della comunità sul proprio avviamento alla morte, la celebrazione assembleare dell’unzione, il commiato in parole del morente. Con la crescita di questa liturgia, la celebrazione delle esequie ritrova il timbro pasquale che aveva alle origini.
«La vecchiaia è l’età di fare preparativi pasquali – scrive appunto Enzo Bianchi nel volumetto La vita e i giorni (Il Mulino, Bologna 2018, 105) – affinchè la morte sia un atto puntuale in cui si restituisce a Dio il dono che lui ci ha fatto».
Chi ha voluto l’Exsultet
e chi le campane a festa
Ormai abbiamo tutti esperienza di questi commiati, tanto più sereni e persino festosi quanto più trasparente fu la vita cristiana della persona che affidiamo al Signore. Per me rivelatrice fu la messa di addio per il carmelitano Riccardo Palazzi, nel dicembre del 1999 nella chiesa romana di San Martino ai Monti. Costretto da un mieloma per quattro anni all’assoluta immobilità, aveva continuato a rendere lode per il fatto che riusciva a vedere dalla finestra, a sera, «il pianeta Giove che è il più luminoso». Aveva chiesto ai confratelli carmelitani che gli cantassero l’Exsultet e l’hanno fatto.
Non ero stato presente, ma ho saputo che il canto dell’Exsultet nella messa di addio era stato chiesto, un anno prima, a Ferrara, dal vescovo emerito Luigi Maverna. Altri han-
no voluto le campane a festa: per esempio Hans Wolf Schoen a Foligno nel 1982.
Il francescano Gabriele Allegra, missionario siciliano in Cina e traduttore della Bibbia in cinese, beatificato nel 2012 ad Acireale, nel 1976 aveva chiesto il Magnificat. La beata Chiara Luce Badano, diciannovenne, vorrà nel 1999 che la vestano, dopo la morte, con un abito da sposa e chiede a un’amica di provarlo davanti a lei, che ormai non riesce più ad alzarsi dal letto.
Questo recupero del morire cristiano è uno dei segni più forti del vissuto evangelico dei cristiani d’Italia, che hanno saputo dare negli ultimi decenni grandi testimonianze di fede: risposte creative a incredibili esplosioni di violenza, alle solitudini metropolitane, alla crisi sociale della famiglia, all’arrivo tra noi di altre genti, alla droga e all’AIDS, a ogni nuova paura della morte. Anche nella pandemia abbiamo avuto tante di queste attestazioni.
Mistero e sacramento
del fratello che si congeda
La nuova liturgia del morire cristiano è forse il più trasparente di questi segni, quello meno riconducibile a motivazioni sociali, quello più direttamente rispondente al dovere cristiano di testimoniare la speranza di non morire, cioè la speranza nella risurrezione.
Poco si pone mente alla fecondità di questo segno: ogni fratello che si prepara ad addormentarsi nel Signore è un seme di nuovi cristiani. È mistero e sacramento. Forse sono maturi i tempi per una piena valorizzazione del ministero di chi consapevolmente si avvia a svolgere una tale testimonianza.
www.luigiaccattoli.it