Nomina sunt odiosa
Ma ora Francesco rovescia il tavolo
Nomina sunt odiosa: è odioso fare nomi. I papi e la loro diplomazia si attenevano, nei secoli, a questa regola aurea dettata da Cicerone nell’orazione Pro Roscio Amerino (16,47). Ma quella regola in Vaticano è saltata ora ora: tra il 21 aprile e il 3 maggio di questo inaspettato anno di guerra.
Il 21 aprile un Bergoglio contegnoso così risponde al quotidiano argentino La Nación, che vuole sapere come mai in due mesi d’ininterrotta predicazione sulla guerra non abbia mai nominato Putin o la Russia: «Un papa non nomina mai un capo di stato, e tanto meno un paese, che è superiore al suo capo di stato».
Il 3 maggio un Bergoglio a ruota libera, rispondendo alle domande del direttore del Corriere della sera (cf. Re-blog.it del 3,4 e 5 maggio), non solo nomina Putin e la Russia, ma accusa il presidente russo di non aver mai risposto alla sua tempestiva richiesta d’incontrarlo a Mosca, narra d’aver detto al patriarca Cirillo che «non può trasformarsi nel chierichetto di Putin», mette la NATO «che abbaia alla porta della Russia» tra gli antefatti della guerra (cf. in questo numero a p. 273). Insomma fa tutti i nomi dei protagonisti della spaventosa commedia.
Perché questo cambio del protocollo diplomatico, che per me era inaspettato? Tanto inaspettato che andavo argomentando, nel mio blog e in occasionali interviste, a difesa della reticenza papale: è solo una cautela formale, ma in realtà sta dicendo tutto quello che può e deve dire.
Disse una volta Bergoglio
che non dava interviste
Non è la prima volta che questo papa che amo mi spiazza e proprio sul terreno dei media, che è quello dove ingenuamente io mi sento più attrezzato.
All’inizio del pontificato, partendo per la Giornata dei giovani che si faceva a Rio de Janeiro nel luglio del 2013, disse ai giornalisti in aereo che lui, a differenza dei predecessori, durante i voli non avrebbe accettato domande: «Davvero io non do interviste, ma perché non so, non posso, è così». Il Corsera mi chiese un’interpretazione e io divagai su questo passo indietro di Francesco, che voleva essere candido come colomba ma anche astuto come serpente.
Ma sette giorni dopo, rientrando da Rio, fece – in aereo – la prima delle sue conferenze stampa senza rete, quella per intenderci in cui disse: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?» (cf. Regno-doc. 15,2013,462).
Il papa che si contraddice, che va a tentoni, che fa del sarcasmo, che sbaglia e si scusa, ormai lo conosciamo più che bene. Ed eccolo dunque che motiva perché non fa nomi e che 12 giorni dopo fa tutti i nomi.
A noi giornalisti fa gioco un papa così. Ci tiene svegli e ci dà lavoro. Ma credo che giovi anche alla Chiesa e al mondo.
Nove anni addietro ha fatto del bene buttando là una frase di non giudizio sui gay che ha segnato un punto – provvisorio, sperimentale, di prima approssimazione: ma un punto – in una questione fino a quel momento innominabile. Ora ha fatto del bene rispondendo all’esigenza che di fronte alla guerra sia il cuore dell’apostolo a parlare, insieme e oltre alla diplomazia della Santa Sede.
I papi sempre hanno avuto scrupolo di parlare con ogni interlocutore e di avere rapporto con ogni potenza, molto prima del recente ecumenismo. Ed era per quello scrupolo che non facevano nomi.
Nei secoli hanno trattato con i paesi luterani, o i regnanti anglicani, o l’impero ottomano, o gli zar della santa Russia, e tra gli accorgimenti mirati a garantire tale audience universale c’è sempre stato quello di non tirare in ballo i potenziali interlocutori, quando si trovavano a toccare questioni disputate.
Critiche aspre da Le Monde
e dal New York Times
Si astenne dal nominare i contendenti Benedetto XV, nel 1914, quando propose una tregua di Natale nel primo anno della Grande guerra e di nuovo si astenne dal fare nomi nel 1917, quando definì quella guerra «inutile strage».
Non fece nomi Pio XII nel radiomessaggio del 24 agosto 1939, mirato a scongiurare lo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando disse le parole poi da tutti i papi ripetute: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra».
Alla stessa regola s’attennero Giovanni XXIII nella crisi di Cuba (radiomessaggio del 25 ottobre 1962), Paolo VI nella guerra del Vietnam, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nei tanti momenti di conflitto che si ebbero lungo i loro pontificati, in particolare quelli tra l’Occidente e il mondo islamico.
Finchè Francesco si è attenuto a quella regola è stato sommerso di critiche dai media occidentali, fautori di una spregiudicata campagna antirussa che miri a «sconfiggere Putin sul terreno».
Riporto per tutta questa tribuna stampa la voce del New York Times del 17 marzo: «Il papa ha accuratamente evitato di nominare l’aggressore, il presidente russo Vladimir Putin, o anche la stessa Russia. E mentre ha affermato che chiunque giustifichi la violenza con motivazioni religiose “profana il nome” di Dio, ha evitato le critiche al principale sostenitore religioso e apologeta della guerra, il patriarca Kirill della Chiesa ortodossa russa».
La stessa critica è stata fatta da Le Monde del 10 marzo («Non ha condannato formalmente l’invasione russa: un cattolico che lo ascolta avrebbe difficoltà a sapere chi ha iniziato la guerra») e da tante altre testate storiche e digitali, anche cattoliche, dallo statunitense National Catholic Reporter fino al sito romano Il Sismografo.
Per dare uno scossone
al tavolo dei negoziati
Per le voci critiche italiane di area laica può valere questa sintesi offerta da Ernesto Galli della Loggia, intervistato il 4 aprile dal quotidiano Libero: «Mi pare che le dichiarazioni del papa siano state molto contraddittorie. Dapprima ha preso posizioni filorusse; poi, forse anche a causa delle critiche che gli sono state mosse da dentro la Chiesa, ha cambiato posizione, iniziando a parlare di “aggressione”, pur senza mai nominare la Russia. Alla fine sembra essersi attestato su una posizione di generica condanna della guerra e del riarmo».
Francesco, infine, ha cambiato registro e ha fatto i nomi spinto da queste critiche? Forse anche da esse, ma immagino che la sua prima intenzione sia stata di smuovere le acque, di dare uno scossone al tavolo negoziale dove tutti pare si siano addormentati.
In verità, a mio parere, quelle critiche di reticenza erano superficiali. Non diceva Russia, Francesco, prima dell’intervista al Corsera? Non si capiva a chi attribuisse la guerra che deprecava e chiamava per tre volte «sacrilega»? Come si può affermarlo?
Aveva telefonato due volte a Zelenski, era andato di persona a parlare con l’ambasciatore russo, aveva consacrato a Maria la Russia e l’Ucraina, aveva affidato la Croce della 13a stazione della Via crucis del Venerdì santo a una donna russa e a una ucraina perchè insieme la portassero sotto gli occhi del mondo. Aveva voluto alla veglia di Pasqua – e li aveva salutati alla fine dell’omelia – il sindaco di Melitopol, che fu il primo tra i sindaci ucraini rapiti dai russi, e alcuni parlamentari di Kiev. Tre volte aveva incontrato bambini ucraini sfollati in Italia, una volta aveva srotolato in udienza, alzato e baciato una bandiera ucraina che gli era arrivata da Bucha, cittadina distrutta dai russi. Più chiaro di così.
Signore Gesù
mandato ventenne al fronte
Valorosi colleghi hanno sostenuto che il papa non nominava Putin e la Russia perchè voleva mantenersi neutrale, misconoscendo che vi siano un aggressore e un aggredito. Ho già detto che non è vero che non nominava e ora mostrerò che non misconosceva, ovvero: non taceva che vi fossero un aggressore e un’invasione.
«L’aggressione armata di questi giorni, come ogni guerra, rappresenta un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua»: così aveva parlato all’udienza generale del 13 aprile. Lo stesso giorno veniva pubblicata la sua Prefazione a un volume dell’editore Solferino/LEV che raccoglie testi del suo magistero sul tema della guerra – Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace (di prossima recensione sul Regno) – e in tale Prefazione ci sono queste parole: «L’Ucraina è stata aggredita e invasa».
Due volte aveva fatto accenni chiarissimi ai soldati russi mandati a combattere in Ucraina. All’Angelus della Domenica delle palme, quando aveva affermato che Cristo oggi è «di nuovo crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro, nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli» (10 aprile). Ancora prima, all’udienza generale del 16 marzo, quando aveva fatto propria una preghiera dell’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia nella quale è questa invocazione: «Signore Gesù, mandato ventenne al fronte, abbi pietà di noi».
Infine metto ciò che venne all’inizio, cioè la frontale demistificazione dell’eufemismo «operazione militare speciale» proposto dal sagace Putin: «Cari fratelli e sorelle, in Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria» (Angelus del 6 marzo).
Putin e Cirillo
non hanno gradito
ma io dico che è bene così
Ringrazio il papa che non tace e invito a una migliore lettura dei fatti e delle parole quanti l’accusano ora con un pretesto e ora con un altro, senza ascoltare quello che dice e che a me pare importante: importante per tutti.
Chiudo tornando a Cicerone dal quale sono partito. Nell’orazione nella quale formula quella sentenza, argomenta che può risultare odioso fare nomi – in atti pubblici – perché mai puoi sapere («incertum est») se i nominati gradiranno d’essere tirati in ballo («sese nominari»).
Nel caso di Francesco su Putin e su Cirillo ora lo sappiamo ad abbondanza che non hanno gradito. Ma io dico che è bene così. Ed è bene anche che Francesco abbia detto a quelli della NATO che sarebbe ora che la smettessero di ringhiare alla porta della Russia.
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