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Attualità
Attualità, 8/2021, 15/04/2021, pag. 246

La valle del caos e il bambino

Mariapia Veladiano

Ci sono libri che a rileggerli proprio cambiano contenuto. La valle del caos di Friedrich Dürrenmatt (Einaudi, Torino 1990) è legata a un ricordo militante, eroico e giovane. C’è un’età in cui sembra che capire una cosa, giocare con i simboli, addentrarsi in allegorie complesse sia sufficiente a cambiare il mondo. Non è mai così, proprio mai. Di sicuro anche perché non si sa che cosa renda il mondo quello che è. Quanto ci sia di buone intenzioni, di previsione, di effetto indesiderato, di combinazione di eventi, di battiti d’ali di farfalle o colibrì, di catastrofi naturali, di colpe, pure e semplici colpe dell’umanità rapace.

Ma di sicuro capire una cosa non coincide con l’agire in modo conseguente, anche se a volte l’eccitazione della scoperta è tanta e ci pare geniale e ci pare di essere più buoni solo ad aver intuito una qualche verità.

Ecco. Leggere quando si è nell’età dell’energia giovane e impegnata un libro come questo è come riconoscersi nella implacabile critica al mondo malato. Malata la finanza che tutto avvelena e che somiglia alla bassa criminalità molto più di quanto la qualità degli abiti possa far pensare. Malata la religione, supremo strumento di manipolazione delle coscienze e macchina da soldi coniata nella menzogna. Malati i rapporti famigliari, che si raccontano ipocritamente la favola del perbenismo quotidiano. Malati i rapporti sociali, dominati dal denaro. Malata l’idea moderna di sviluppo che rende i poveri sempre più poveri. C’è tutto questo, dentro La valle del caos.

Eppure il romanzo è breve, la trama facile da raccontare anche se non è proprio esile, come si usa dire oggi. Moses Melker è un teologo ossessionato dal sesso, ha ucciso per questo e lo sappiamo subito, e in quanto assassino è sotto ricatto da parte di chiunque lo sappia e lo sanno in tanti e potenti, per cui è una marionetta, dall’inizio alla fine, costretto nel ruolo di predicatore per i ricchi, pur vivendo lui stesso nella ricchezza più sfacciata, e la povertà è uno dei feticci più martellanti e morbosi in queste pagine.

A un certo punto si trova a dover gestire tra le montagne svizzere – la Svizzera è l’ambientazione di tutta la storia – un ex centro terapeutico fallito e trasformato a sua insaputa, letteralmente, in «Casa della povertà», ovvero un luogo di riposo per milionari. Era stata una sua idea e i suoi seguaci, così gli dicono, la realizzano per lui.

In realtà per loro, per i soldi ovviamente. Si tratta della Swiss Society of Morality, che nessuno conosce nel dettaglio. È questa società che restaura, manda le pubblicità su carta lucida con su scritto «Poveri ma felici», raccoglie le prenotazioni. Forse dietro a tutto c’è un Grande fratello? Meglio un Grande vecchio. Ce ne sono due nel romanzo. Uno è il Grande vecchio con la barba, Dio, di cui Moses Melker parla malamente e a sproposito. L’altro è un Grande vecchio senza barba, potente e tremendo, forse. Il grande burattinaio del mondo?

E Moses Melker si trova suo malgrado a essere direttore della «Casa della povertà», caduto «in una rete tessuta non per malvagità, ma perché la natura del Grande vecchio (posto che fosse il Grande vecchio), lo portava a tessere una rete simile, la tesseva e basta, così come il ragno per sua natura tesse una rete senza pensare a una mosca in particolare, ma solo alle mosche, e la natura di Moses Melker lo portava a caderci dentro come le mosche cadono nella rete» (32).

Nella «Casa della povertà» i ricchi sono essi stessi il personale e così intorno le valli non traggono alcun vantaggio dal loro arrivo, chi serviva, dava il cibo, lavorava nelle cucine, accoglieva gli ospiti, non serve più. Tutti arrivano, si arrangiano a cucinare, a portare le valigie, e poi ripartono ritemprati, pronti ad accumulare ricchezze ai quattro capi del mondo.

Sostituiti in inverno da altra brava gente che dai quattro capi del mondo arriva al centro per cambiarsi la faccia, interventi estetici che salvano gangster troppo ricercati e costretti a diventare altre persone, in uno scambio folle per cui alla fine non si sa chi sia chi e Marijuana-Joe di professione killer ha la stessa faccia di Big-Jimmy che un tempo si era rotolato voluttuosamente con Elsi la figlia del sindaco e forse l’aveva stuprata, ma poiché lei credeva che fosse Big-Jimmy e in fondo non gli voleva male potrebbe anche sposarlo. Anche se un po’ di persone sanno che non è lui, quello della prima storia.

Chi è chi? L’intercambiabilità degli esseri umani è assoluta se tutti siamo ugualmente servi. Del denaro soprattutto. Fino alla catastrofe, di fuoco. Una Geenna.

Si leggeva La valle del caos come la rappresentazione già distopica del mondo allora attuale e si pensava di avere il tempo e le energie per prevenire la catastrofe.

Perché rileggere La valle del caos? Perché era già tutto scritto trent’anni fa, proprio tutto e magistralmente e certo nessuno di noi all’epoca avrebbe mai pensato di poter sostituire ai personaggi del romanzo nomi di persone. Sapevamo che era letteratura, ne uscivamo rinforzati nel desiderio di cambiare in meglio le cose, non di assaltare il Campidoglio o moltiplicare le fantasie complottiste per dar fuoco al mondo.

Adesso rileggerlo ci fa paura. Sembra una previsione inquietante di qualcosa che davvero non avremmo previsto, all’epoca. E cioè la mutazione di una parte dell’umanità, disposta a diventare parte di un gioco, solo gioco senza prospettiva.

Bisogna rileggere fino alla fine, all’ultima riga. Perché lì c’è il bambino. E se c’è il bambino, allora si può sperare.

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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