Papa Luciani beato
Che si sentiva inadeguato
Non amo le canonizzazioni dei papi ma faccio un’eccezione per la beatificazione di Luciani, annunciata il 13 ottobre con il decreto che riconosce un miracolo attribuito alla sua intercessione. Come se lui, per me, neanche fosse un papa.
Perché nel fare santi i papi siamo portati a vedere la Chiesa che canonizza se stessa su iniziativa, di volta in volta, della corrente piana, giovannea, montiniana, wojtyliana. Ma non c’è una corrente lucianea. E infatti il riconoscimento della sua santità ha chiesto più tempo rispetto sia al predecessore Montini, sia al successore Wojtyla. Nessun rischio quindi di canonizzare, facendolo santo, una linea di governo, dal momento che il suo governo finì prima d’iniziare.
Subito amato
e subito perduto
Nessun rischio, neanche, di portare acqua al mare come sempre avviene con le canonizzazioni dei papi recenti: di proporre cioè per la conoscenza e per l’intercessione figure anche troppo note e già venerate. Questo papa meteora è restato invece sconosciutissimo, pur avendo lasciato un accorato rimpianto nel cuore di tanti per averlo subito amato e subito perduto.
Amato per le origini montanare, ai margini di un piccolo borgo, con un padre d’ogni mestiere, emigrato già a 11 anni in Austria e poi in Germania, Francia, Svizzera. Ricevendo un gruppo di bellunesi: «Durante l’anno dell’invasione [il 1918, dopo Caporetto, quando aveva 5 o 6 anni; nda] ho patito veramente la fame, e anche dopo; almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame».
Una volta parla di sé, papa, come di «un povero Cristo». Non dimenticherà d’aver portato al pascolo le mucche, da ragazzo, e che un giorno una mucca gli mangiò il quaderno di scuola.
Amato anche per i modi semplici e per non aver dimenticato la raccomandazione del papà Giovanni socialista che così gli scrisse dalla Svizzera, quando a 11 anni gli chiese il permesso di entrare in seminario: «Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte dei poveri, perché Cristo era dalla loro parte».
Prese i nomi dei papi che gli erano stati padri nel servizio alla Chiesa: Giovanni XXIII che l’aveva fatto vescovo e Paolo VI che l’aveva mandato a Venezia e fatto cardinale. Un nome che legava insieme la memoria dei due papi del Concilio, al quale il neoeletto intendeva restare fedele: «Vogliamo continuare nell’attuazione della grande eredità del concilio Vaticano II», disse nel primo discorso dopo l’elezione.
Il richiamo ai papi del Concilio fu ripreso dal successore Wojtyla, che confermerà quell’intenzione scegliendo di chiamarsi Giovanni Paolo II. Quello che vale per il nome vale per l’opera di rinnovamento del papato che tutti e quattro li caratterizza: un lavoro iniziato da Roncalli, continuato da Montini, suggestivamente proiettato in avanti da Luciani e fatto correre da Wojtyla.
È tutto
troppo grande per me
Il povero Luciani non dormì la notte dopo l’elezione, tormentato dagli «scrupoli per aver accettato». Disse ai cardinali, scherzando senza scherzo: «Possa Dio perdonarvi per quello che avete fatto». Stava a disagio sulla sedia gestatoria e ancora di più trovava fuori luogo dare la benedizione ai confratelli cardinali, nel discorso dopo l’elezione: «Mi sa un po’ strano darvi la benedizione apostolica: siete tutti successori degli apostoli».
Si sentiva inadeguato: non aveva esperienza diplomatica, o curiale, o d’insegnamento. Era intimorito dalle responsabilità di governo e dai dibattiti sul futuro della Chiesa. Aveva partecipato a tutte le sessioni del Concilio senza mai intervenire. Quando lo fanno vescovo di Vittorio Veneto si sente perduto: «È tutto troppo grande per me». Mandato a Venezia dirà: «Non so fare il patriarca». Un’umiltà che forse è il primo titolo della sua santità. Ma anche uno spavento per le decisioni da prendere che forse ne ha affrettato la morte.
Molte delle novità venute poi dai successori forse non le avremmo avute così presto, se non ci fosse stata la sua discesa dal trono che manifestò con alcune decisioni mirate a proporre un nuovo modo d’essere papa: più spoglio, più personale, più evangelico.
Parlava in prima persona, dicendo «io» invece del «noi» maiestatico. Non ha voluto la tiara e nessun altro poi l’ha presa. Ha trasformato la cerimonia dell’incoronazione papale in una «celebrazione di inizio del ministero di pastore universale»: e anche questo è restato.
Da cardinale
non sorrideva facilmente
Da cardinale aveva suggerito a Paolo VI di non assumere una posizione rigida sulla pillola contraccettiva e da papa invitò più volte a non perdere mai la speranza: «Una virtù obbligatoria per noi credenti», che ci fa «viaggiare in un clima di fiducia e di abbandono». In un’occasione avvertì che contraddice alla speranza chi svilisce l’uomo: «Sono anche affiorate ogni tanto, nel corso dei secoli, tendenze di cristiani troppo pessimisti nei confronti dell’uomo».
Da vescovo di Vittorio Veneto e da patriarca di Venezia era abituato a incontrare le persone e ora – da papa – egli teme di perdere quel sostegno: «Ho sempre avuto piccole diocesi e il mio lavoro era tra i ragazzi, gli operai, i malati. Non potrò più fare questo lavoro che mi piaceva tanto». Così parla, il 30 agosto 1978, ai cardinali che l’hanno eletto.
È stato definito «il papa del sorriso», ma tutti dicevano che da cardinale non sorrideva facilmente, come invece poi fece in ogni giorno del suo mese da papa. Con quel sorriso io credo volesse manifestare al mondo la sua anima di buon pastore che si sentiva inviato a tutti e voleva mostrarsi fraterno nei confronti d’ognuno.
Luciani l’ho conosciuto da cardinale e non l’ho amato. Ero allora nella FUCI, la Federazione degli universitari cattolici, della quale il patriarca Luciani aveva sciolto il gruppo di Venezia per il «no» nel referendum sul divorzio del 1974: un «no» che condividevo.
L’ho amato invece da papa per il sorriso che dicevo e per il conforto che cercava di offrire a tutti con la predicazione di un Dio che ama l’umanità tribolata. «La gente ha tanto bisogno di incoraggiamento», disse una volta.
La rinuncia alla tiara
in una vignetta di Forattini
Quando parlò a noi giornalisti nell’Aula delle benedizioni, il 1° settembre 1978, potei mostrargli una vignetta di Giorgio Forattini apparsa quel giorno sul quotidiano La Repubblica, di cui allora ero il vaticanista:
in essa egli era ritratto, tiara in testa, che rideva di sé davanti allo specchio. Si fermò a guardare e rispose al mio gesto con un aperto sorriso: aveva appena fatto annunciare che non avrebbe preso la tiara e la vignetta interpretava simpaticamente quella decisione.
Nei suoi pochi giorni non sono mancate parole da memorizzare. Come quando disse, all’Angelus del 10 settembre, che «noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. È papà; più ancora è madre. Vuol farci solo del bene, a tutti. E se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore». Parole simili a quelle che ogni giorno ci propone Francesco. Di relativamente nuovo c’era allora, in quelle parole, la centralità da riconoscere al tema dell’amore e della misericordia, che il cardinale Luciani poco prima dell’elezione aveva così proposto: «Il Dio del cristianesimo è Dio che ci ama: chi non ha capito questo, non capisce il cristianesimo». C’è qui un preludio all’enciclica Dives in misericordia di Wojtyla (1980), alla Deus caritas est di Benedetto (2005), al volume Il nome di Dio è misericordia di Francesco (2016).
Un’ironia di Francesco
sulle canonizzazioni dei papi
Concludo tornando all’inizio, cioè alla canonizzazione dei papi: immagino che questa tendenza, che pure è recente, durerà a lungo. Io invece auspico che cessi presto e lego questo auspicio a un’ironia di Francesco, forse la più scattante tra le tante che ci ha regalato in questi anni.
Era il 15 febbraio 2018 e Bergoglio incontrava il clero di Roma, a inizio Quaresima, nella Basilica di San Giovanni. Al termine dell’incontro il cardinale vicario annuncia il dono ai presenti di un libretto «nel quale sono state raccolte delle meditazioni dei nostri vescovi, da Paolo VI a papa Francesco». A questo punto, inaspettatamente, Francesco così interviene sul libretto: «Io l’ho visto e mi è piaciuto tanto. Ci sono due vescovi di Roma già santi. Paolo VI che sarà santo quest’anno. Uno con la causa di beatificazione in corso, Giovanni Paolo I. E Benedetto e io, in lista di attesa».
L’ironia è nella «lista d’attesa»: come volesse dire che essendo invalso l’uso di fare santi tutti i papi, finirà che presto o tardi verremo canonizzati anche noi.
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