Un amico tradizionalista
«La Chiesa non può essere povera»
Muore un amico tradizionalista del quale conservo nel cuore motti e sfoghi che ora mi propongo di mettere in ordine, convinto che per qualche verso mi appartengano.
Ecco uno di quei motti, il più dolorante: «Quando mi confesso io mi sento perdonato ma non mi sento amato: perché mi succede questo?». Sono parole che ho fatto mie – dicevo – e non perché io mi trovi a vivere lo stesso sentimento, ma perché a esse non ho saputo rispondere.
Si chiama Dino Argenti, questo amico che è morto poco fa a 87 anni. Il più tradizionalista tra i miei conoscenti, tanto da avere scelto a confessori dei sacerdoti della Fraternità di San Pio X.
Da cinque anni
non usciva di casa
Vicino del piano di sopra, amico di famiglia. Interlocutore delle più varie occasioni in quattro decenni e mezzo di coabitazione nello stesso palazzo del Rione Monti, a Roma. Da cinque anni era malato e non usciva di casa. Un appartamento grande, nel quale abitava da solo, assistito – da quando non usciva – da badanti uomini di varie nazionalità. Per lo più immigrati dall’Egitto e dall’India.
Venivano medici a curarlo e un fisioterapista. Un pianista a suonargli le musiche che più amava, Bach sopra tutti. Andavo io a conversare.
Si parlava di tutto, era un uomo colto. Già dirigente di banca, aveva avuto il tempo per letture vagabonde. Amava raccontare e spesso c’era conflitto nella conversazione. L’argomento acuminato era Bergoglio: a Dino non andavano i papi recenti.
Biasimava Roncalli per l’incauto Concilio. Inaccettabile Wojtyla che chiede perdono. Verso Montini la reazione era di pelle, gemella a quella che lo distanziava da Francesco. «Ho iniziato con Paolo VI a trovarmi a disagio. Quando andavo alle sue messe o alle udienze, ne uscivo con più dubbi di come vi ero entrato. Il papa deve darti certezze, non dubbi».
La riforma liturgica, la soppressione della Corte pontificia, persino lo spostamento nei depositi del lampadario a gocce della Sala Clementina lo facevano soffrire. «Era bello: perché doveva toglierlo?».
Dino era un collezionista compulsivo. Aveva la casa piena di tappeti d’Oriente, di Cinquecentine, di angoliere dell’Ottocento, di telefoni a muro, di pendole, di spartiti musicali.
Quando pubblicavo i miei libretti glieli portavo. Dandogli l’ultimo, Centodieci parabole di papa Francesco (Paoline 2019), gli dicevo: riporta i racconti di vita vissuta che il papa svolge nella sua predicazione e se lo leggi, magari impari ad amarlo. «Amare Francesco? Mai!».
«È stato un errore del conclave fare papa un gesuita. I gesuiti io li conosco meglio di te: sono capaci di tutto per attuare i loro piani. Sono politici. Arrivano a giustificare qualsiasi licenza se gli fa gioco».
Naturalmente duellavo. «Tu sei una persona intelligente e io non riesco a capire come fai a restare bergogliano. Dimmi un’idea di questo papa che ti convince davvero». La Chiesa povera azzardai una volta, e fu come aprire le cateratte del diluvio: «La Chiesa non può essere povera. La Chiesa di Roma è grande e deve restare grande. Per essere grandi è necessario il denaro».
I suoi convincimenti sul vissuto delle persone – e sulla sua stessa vita – erano severi. Scandali e malefatte d’ogni specie lo accendevano di sdegno. Lo invitavo a usare misericordia interpretativa sulle debolezze degli umani, ma era sordo da quel lato: «Chi sbaglia deve pagare». Il superamento evangelico della pena di morte proposto da Francesco era per lui semplicemente un errore.
Mi angustiano i peccati
e il Giudizio che si avvicina
A volte recalcitrava alla preghiera. «Luigi sto malissimo. Vieni a trovarmi che mi consoli. Però non mi proporre di pregare perché in questo periodo non ci riesco e questa cosa mi angoscia». Credo che tu non debba angosciarti per la preghiera, provavo a dirgli: la sofferenza è già preghiera. «E chi non soffre, allora?». Dino, non c’è nessuno al mondo che non soffra. «Come non c’è! Non vorrai dirmi che non esistono i gaudenti che se la spassano in barba a tutti e in barba a Dio?». Magari in qualche caso non la sappiamo vedere ma la sofferenza, come la morte, non è negata a nessuno. «Io invece ti dico che ci sono tanti che non la conoscono».
Facilmente parlava del giudizio di Dio che sentiva avvicinarsi: «Mi angustiano i peccati che verranno messi nel conto in quel giorno».
Ripetendo Dino questo lamento, una volta l’invitai a meditare con me sul capitolo 4 della Lettera di Paolo ai filippesi: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste (…) e la pace di Dio (…) custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Fil 4,6s).
Argomentavo che l’apostolo scrive «non angustiatevi per nulla» mentre è prigioniero a Roma, in attesa di giudizio e trasmette quella consegna a una comunità che deve guardarsi dai cani e dai nemici della croce di Cristo. Vuol dire – concludevo – che quel suo invito a rigettare l’angustia dovrebbe valere per ogni circostanza tua e mia. Anche per me, poniamo, al pensiero dei figli. Dino non si era sposato e non aveva figli.
«Io ti ammiro ma non sono d’accordo. Non so come fai a mantenere la serenità. Io non ci riesco e anzi credo che non sia giusto stare sereni se si ha coscienza del male. Se avessi io cinque figli in giro per questo mondo pagano impazzirei».
Avvertiva d’avere avuto
poco amore nella vita
Una volta gli ho fatto osservare che Paolo in quella lettera, al capitolo primo, scrive: «Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo» (Fil 1,4s). Applicavo a noi due le parole dell’apostolo. Gioia e rendimento di grazie – gli dicevo – sono il mio atteggiamento quando mi ricordo di te e prego per te, con mia moglie. Siamo addolorati per la tua malattia ma siamo anche nella gioia per la tua perseveranza davanti al Cristo in croce – aveva sempre a portata degli occhi un grande crocifisso – e nell’attesa dell’eucaristia. La tua perseveranza è anch’essa una cooperazione per il Vangelo.
«Non mi convinci. Non tieni conto dei peccati e del Giudizio finale che ho trascurato in vita». Replicavo che avendoli confessati, i peccati, non doveva ricontarli ogni giorno ed è a questo punto che arrivava la domanda sul sentirsi perdonato ma non amato: perché?
Don Lorenzo Biselx della Fraternità lefebvriana, che l’ha frequentato quasi mensilmente lungo gli ultimi due anni, conferma – in risposta a una mia domanda – che Dino «aveva un grande timore di Dio nel senso biblico della parola» e che «sapeva che Dio lo amava, ma questo amore non era sensibile: lo percepiva soltanto nella fede».
Ho interpellato – sul perdonato ma non amato – il pianista che gli suonava Bach e altre musiche, Alessandro Stefanini, che mi ha invitato, in vista della scrittura di questa memoria, a tenere in conto, andando oltre la sfera religiosa, che «complessivamente il nostro Dino avvertiva di essere stato poco amato nella vita». Anche a Stefanini, come già a me, ebbe a confessare di non essersi mai sposato avendo «paura delle donne» e che attribuiva questo timore al rapporto con la madre.
Ringrazio Dio
d’avermi dato una grande fede
Ho posto domande anche al fisioterapista Andrea Mastrolia, una delle presenze più assidue accanto al Dino degli ultimi anni, e le risposte sono state simili a quelle del pianista: «Il fatto che non si sentisse amato credo vada ricondotto alla sua psicologia, nel senso che era lui che non si amava particolarmente, o sentiva di non essere stato amato abbastanza nella vita, o tutte e due le cose insieme. Tuttavia sempre raccontava di trovare conforto nella fede, nella comunione, nella confessione».
Dino cercava – come dicevo – l’accompagnamento dei sacerdoti della Fraternità di San Pio X ma non era esclusivista e quando mi diceva «ho bisogno di fare la comunione» e io gli portavo il nostro parroco, don Francesco, accoglieva anche lui con gratitudine. Da uomo solitario non aveva mai frequentato la parrocchia e nulla sapeva delle sue attività.
Sono stato presente più volte quando don Lorenzo o don Francesco venivano a portargli l’eucaristia. Ricevuta l’ostia diceva a voce alta «corpo, sangue, anima e divinità».
«Ringrazio Dio d’avere una grande fede», diceva. Ero ammirato da queste parole oggi rare. Me le sono ripetute sia prima che dopo la sua morte, riportandone l’impressione che intendesse per fede innanzitutto l’adesione alle «verità di fede» piuttosto che la messa in pratica della fede, ovvero l’obbedienza della fede, nella quale invece si sentiva in grande difetto.
Attento alle formule del Catechismo, il mio amico era meno interessato alle parole della Scrittura. O meglio: interessato sì, ma meno docile. Il Catechismo lo proclamava, la Scrittura invece l’ascoltava ma anche la discuteva e facilmente concludeva «non mi convince».
Ha voluto fiori
gialli verdi bianchi blu
Me lo disse anche quando replicai, alla ritornante domanda sul non sentirsi amato, con le parole di Gesù che sono nell’ultima cena di Giovanni (Gv 15,9): «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore».
«Ma se ti dico che non lo sento quell’amore! Se non lo sento, come faccio a rimanere in esso? Anzi, come faccio a sapere che Dio mi ama?». Il mio amico aveva un vivo bisogno di accompagnare l’intelligenza della fede con la riprova del sentimento.
Curioso di tutto il mio Dino, cercatore in libri d’epoca e in Internet. Sensibile ai simboli. Al badante indiano Binu Vattaparambil Jacob, che gli era carissimo, indicò la chiesa dove avrebbe dovuto fargli dire una messa e i colori dei fiori che voleva sull’altare: la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, perché lì si era fatta la messa di addio per una sua sorella; e fiori gialli, verdi, bianchi, blu: i colori che sempre cercava.
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