Pietà e pandemia
Un diffuso sentimento di grazia
Raccogliendo storie di pandemia – nel blog a oggi ne ho stivate 90 – ho provato a mettere la lente sulle parole attestanti la «pietà», secondo l’accezione forte del termine quale fu proposta da don Giuseppe De Luca in Introduzione alla storia della pietà (Storia e letteratura, 1962). La lente mi ha dato ingrandimenti di conferma delle mie aspettative ma anche di sorpresa, ed è a questi secondi che ora darò un’occhiata. Mi aspettavo la frequente menzione della preghiera nella solitudine, spesso abbinata alla percezione della paura. Mi aspettavo anche la gratitudine per l’accompagnamento di intercessione amicale e comunitario. Persino l’ardua via dell’affidamento era nella mia aspettativa e più avanti ne dirò qualcosa.
Non mi aspettavo invece un così diffuso sentimento della «grazia», sia nell’accezione popolare della grazia ricevuta, sia in quella biblica della salvezza che viene per grazia. Ho trovato persino attestazioni della malattia come momento di grazia.
Esperienza di dramma
e di grazia
Ancora meno mi aspettavo l’avvertenza della presenza di Dio nella prova, ovvero di una risposta – si direbbe – dell’invocato all’invocazione che gli veniva rivolta.
Parto dalla grazia che è stata la prima parola che è venuta a me quando ho immaginato di condurre questa ricerca. E parto dal significato più ricevuto e più tradizionale, attestato per esempio dal medico napoletano Giovanni Barone che si dichiara guarito per miracolo: «Ho ricevuto una grazia e ho il dovere di testimoniarla».
Non è diversa l’accezione in cui usa quella parola un altro medico, questo lombardo, Camillo Schiantarelli: «Guarire è stato come ricevere una grazia». «Ci sentiamo graziati», dice a nome della famiglia Elisa Bellucci, riminese, per aver potuto accompagnare in morte il nonno centenario.
Ma ecco una ricorrenza più impegnativa: Romano Colozzi di Cesena racconta la solitudine della terapia intensiva come «un momento di grande grazia», avendolo potuto vivere «a tu per tu con una Persona». Roberto Donadoni, prete veneziano: «La guarigione è esperienza di grazia». La malattia è ripensata come «una grazia, una benedizione» dal meranese Leo Matzneller, che pure aveva fatto quattro mesi d’ospedale. Esperienza «drammatica e nel contempo di grazia» la dice Renato Passoni parroco a Pavia.
Chi poi guarda – chi riesce a guardare – alla malattia anche come a una grazia, generalmente attesta d’aver in essa parlato con Dio, volendo forse dire qualcosa di più della preghiera. Vittorio Canepa, pediatra a Chiavari, racconta a un giornalista d’averci cominciato a parlare «come ora parlo con te». Similmente il francescano sardo Salvatore Morittu racconta che nella lucidità dell’ossigeno ha «cominciato a dialogare con Dio». Altri invece riconoscono di non essere riusciti a intessere quella conversazione nel tempo della prova. Lella Noce di Genova: «Io non parlavo col Signore in quei giorni».
Forse un poco chiarisce la questione Giovanni Albano, primario di terapia intensiva al Gavazzeni di Bergamo e autore del volume I giorni più bui (Piemme, 2020): «Alla sera non avevo voglia di parlare con nessuno ma parlavo con Dio a più riprese per farmi spiegare il senso di tutto questo». Parlare con Dio e non parlare con Dio possono essere due modi di cercarlo. O di attenderlo.
Due Quaresime e due Pasque
sotto le tende del deserto
L’importante è la meta del cammino che è l’affidamento, ci assicura in un momento di apparente guarigione don Orlando Bartolucci di Pesaro, che di COVID morirà: «Questa è forse la più grande quaresima che noi abbiamo celebrato. Che questo tempo sia una grande grazia? Non dipende solo dal Signore, ma anche dallo spirito con cui ciascuno di noi si abbandona, come Gesù, nelle braccia del Padre».
Della malattia come occasione d’affidamento parla anche Alberto Debbi, prete di Reggio Emilia tornato a fare il medico in pandemia. Nell’universale debolezza davanti a tanto male, don Alberto ci invita a vedere un aiuto della Provvidenza a soccorso del nostro atto di fede: «Ci scopriremo tutti più deboli, più fragili e più bisognosi e non dovremmo lasciarci bloccare da questa sensazione, ma dovremmo imparare ad affidarci ancora di più a Colui che può e che è all’opera in tanti modi, nei cuori e nei rapporti tra le persone. Penso che in questa situazione sia possibile vivere un grande affidamento».
La quaresima della pandemia come la più grande nostra quaresima, diceva sopra don Bartolucci: e anche su questo ho trovato parole che mi hanno sorpreso, tanto erano vive e – per me – nuove.
Elisa Da Re – giovane medico volontario in un reparto COVID bergamasco – afferma che la prova della pandemia l’ha aiutata a vivere il Triduo pasquale «in pienezza». «Non poteva capitarci una Quaresima più completa», azzarda il vescovo di Cremona Antonio Napolioni. «Questa strana Pasqua è più Pasqua di quelle del passato», argomenta il prete e biblista trentino Piero Rattin all’uscita dall’ospedale. Cristiano Marcucci, parroco a Pescara, loda la Domenica delle palme in quarantena – nella quale da solo ha percorso le vie della parrocchia sostando con la croce e l’ulivo a ogni portone – come «la più bella e intensa» della sua vita da prete.
Due Quaresime e due Pasque abbiamo fatto ormai in pandemia e forse questa chiamata al deserto è stata un dono, ci dicono i più svegli tra i testimoni che abbiamo potuto ascoltare.
Sono un uomo
che sa di essere amato
Una locuzione che un poco mi ha stupito e un poco no – in questa indagine sulle parole della pietà in pandemia – è quella usata per indicare Dio con discrezione, ricorrendo al pronome qualcuno con la maiuscola. «Qualcuno mi ha aiutata» dice Carola Manzoni di Merate. «Quel giorno Qualcuno ha guardato giù», ci assicura Oscar Vrtovec di Novara. L’uso di Qualcuno per non dire Dio – «Non pronuncerai invano il nome del Signore» sta scritto in Esodo 20,7 – l’ho trovato sempre in bocca a cristiani comuni e non a consacrati. Non è nuovo e non l’amavo, ma in pandemia mi pare d’averlo apprezzato, forse in reazione all’anafora degli oranti.
Da cristiani comuni viene anche una delle formulazioni più efficaci del fondamento della propria speranza sopravvissuta alla malattia: «Sono un uomo che sa di essere amato», dice il varesino Fabrizio Battaglion e «noi siamo amati», argomenta Vittorio Canepa, già nominato.
Dall’avvertenza dell’essere amati a quella della presenza del Signore. «Sentivo una presenza quasi fisica, quasi fosse lì da toccarsi. È una cosa indicibile che non avevo mai provato e che mi ha cambiato la vita. Piango e mi emoziono ancora adesso»: così il vescovo Derio Olivero. Sono felice di questa confessione di un vescovo che ha vissuto giorni terribili con la tracheotomia e tutto. Essa mi ha ricordato l’esultanza del salmista che si era visto scendere agli inferi: «Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena alla tua presenza…» (Sal 16,11).
Di sentimento della presenza del Signore hanno parlato diversi tra gli ospiti delle terapie intensive dei quali mi sono occupato. Il prete ambrosiano Luigi Sala: «La morte l’ho avvertita vicina, vicinissima e in quell’istante ho avuto la consapevolezza della presenza di Dio come di un padre che era lì a sostenermi e di una moltitudine di persone che mi aiutavano con la preghiera». Fra’ Serafino Acernozzi del Fatebenefratelli: «Mentre le persone attorno a me morivano, il tutto era avvolto dal senso della presenza di Dio: non posso attribuire a me stesso la capacità di questo sereno affidamento alla divina misericordia. Attribuisco, piuttosto, questo dono alle tante persone che hanno pregato per me».
Teologia della Croce
del «Gesù abbandonato»
La confortante presenza di Dio nella prova – sempre invocata nei secoli – è spesso presente con nuovo protagonismo nella storia recente della pietà. La novità è attestata da varie falde di teologia della Croce alle quali sempre si richiamava Giuseppe Dossetti, ma anche dagli scritti di Elisabetta di Digione, la carmelitana fatta beata da Giovanni Paolo II nel 1984: «Dappertutto non c’è che lui, lo si vive, lo si respira», scriveva Elisabetta già colpita dalla malattia di Addison che la portò alla morte a 26 anni nel 1906.
Una novità – questa percezione della presenza del Cristo sofferente ai sofferenti – che ha avuto divulgazione con il ripensamento del cristianesimo «dopo Auschwitz», con la pedagogia focolarina del Gesù abbandonato, con la Salvifici doloris di papa Wojtyla (1984) e – oggi – con il richiamo di papa Bergoglio a tacere davanti alla sofferenza e a «guardare Gesù crocifisso». Si direbbe che nella fornace del COVID diversi nostri fratelli abbiano sperimentato qualcosa della vertiginosa e inaudita presenza di Dio all’umanità tribolata proposta da tanti maestri.
Per questa divagazione sul linguaggio della pietà in pandemia ero partito da don Giuseppe De Luca e a lui torno come a chiedergli di concluderla con la sua parola autorevole. Ad apertura del testo che citavo, don Giuseppe dava il nome di pietà «a quello stato della vita dell’uomo quando egli ha presente in sé, per consuetudine di amore, Iddio». Chiariva poi che «essere pio è provare di continuo Iddio presente».
Comportarsi da saggi
in questi giorni cattivi
Sono parole – mi pare – che si addicono ai testi che ho richiamato. In essi è appunto avvertita e segnalata la presenza di Dio. Non mi azzardo ad affermare che in questo tempo di tentazione e di grazia la vicinanza di Dio sia stata sentita meglio che in altri, ma forse essa oggi è più frequentemente invocata.
«Questi giorni sono cattivi», per dirla con l’espressione forte che è in Efesini (Ef 5,15s). Ma in essi alcuni tra noi hanno avuto il dono di comportarsi da saggi, come appunto chiedeva l’apostolo alle sue comunità che si trovavano nella tormenta.
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