Quanto manca di questa notte oscura del mondo? Sentinelle ignare. Non lo sappiamo. Né conosciamo il mondo che sarà. I condizionamenti e le conseguenze di quello che è accaduto e accade. Tutto è stato rimesso radicalmente in discussione dalla pandemia e dalla sua incognita quotidiana: la morte e la vita, Dio e il dolore, la tecnica e la scienza, il significato della storia, lo sviluppo economico e l’etica sociale, il valore e la validità delle democrazie. Una sincope storica.
La questione della libertà religiosa al tempo della pandemia assume una dimensione particolare negli Stati Uniti: non solo a causa di un paesaggio religioso molto plurale e polarizzato anche all’interno di una stessa tradizione religiosa, ma alla luce della crisi politica e costituzionale del paese, da cui le Chiese e il cattolicesimo non sono esenti.
In questi ultimi mesi la Rete è divenuta egemone. È diventata, in se stessa, la forma di comunicazione più ricca anche per coloro che, un tempo, la guardavano sospettosi. Lasciando da parte la questione che ciò avviene grazie all’apporto di risorse tecniche rese accessibili da grandi gruppi monopolistici, c’è da valutare la presenza di una componente antropologica.
La sospensione delle «cerimonie civili e religiose, comprese quelle funebri», stabilita dal DPCM 9.3.2020 e prorogata successivamente, ha rappresentato una tra le misure più significative e discusse fra quelle adottate dal Governo italiano per contenere la diffusione dell’epidemia da COVID-19.
Davanti all’impossibilità di celebrare il Triduo pasquale nella consueta forma comunitaria e al confinamento domestico cui tutti siamo stati obbligati sin dagli inizi della Quaresima, la Chiesa italiana si è trovata a dover immaginare, sostenere e riscoprire una forma familiare con cui vivere questi giorni santi. La famiglia, sin dal Vaticano II proclamata «Chiesa domestica»1 e «primo luogo della trasmissione della fede e dei valori»2 è diventata luogo decisivo, talvolta esclusivo, per fare Pasqua. Come? Con che esiti? Con quali provocazioni per il futuro?
Una recentissima intervista del prefetto della Segreteria per l’economia, padre Juan Antonio Guerrero Alves, ha riportato sotto i riflettori il tema delle finanze vaticane, fornendo elementi certi di valutazione, dopo mesi di voci di corridoio. Il «ministro dell’economia» d’Oltretevere ha confermato che il Vaticano non corre il rischio del default, ma necessita di una spending review anche strutturale, per fronteggiare la crisi del coronavirus che ha abbattuto le entrate (tra il 25% e il 45%, secondo le prime stime), a fronte di costi non facilmente comprimibili, come ad esempio gli stipendi dei quasi 5.000 dipendenti.
Coronavirus in Italia, Fase due. Il ritorno a una presunta normalità, che tale non è, ricade ancora più pesantemente su 8 milioni di studenti e sulle loro famiglie. La task force nominata dal governo è al lavoro, quando si troverà una soluzione? La didattica a distanza, pur con tutta la buona volontà degli insegnanti, rivela tutti i suoi limiti, soprattutto in termini di disuguaglianze. «Bisogna pensare qualcosa di assolutamente nuovo. È un problema sociale, non della scuola e basta» – afferma Mariapia Veladiano –.
Azionata come un paracadute d’emergenza, la didattica a distanza (DaD) nel sistema italiano dell’istruzione può essere considerata anche come una radiografia e un crivello. La radiografia ci mostra il bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto) della nostra scuola e della nostra università. Sgombrato il campo da trionfalismi e bocciature, è un fatto che senza piattaforme digitali e dispositivi elettronici in questa emergenza non sarebbe stato possibile nessun tipo di contatto tra docenti e studenti, e va dato atto al nostro sistema dell’istruzione di essersi messo al passo con i tempi in questi ultimi anni, sia pure in modo non omogeneo.
L’epidemia di COVID-19 ci ha fatti piombare tutti in una situazione drammatica. Una tragedia nella tragedia si è consumata – e si sta consumando – nelle residenze socioassistenziali per anziani (RSA), cioè, per intenderci, nelle «case di riposo». Molti elementi hanno concorso a determinare la morte di un numero elevatissimo di ospiti, quasi tutti contagiati dal virus, benché le cifre dei decessi direttamente causati dal morbo siano oggetto di controversie molto dolorose e laceranti. Allo scoppio dell’epidemia e nelle prime settimane d’emergenza la questione del virus nelle case di riposo era considerata marginale. Quando la situazione è leggermente migliorata ecco che, piano piano, emergeva l’entità del dramma in corso.
In un’intervista rilasciata a Vatican News (5 maggio, https://bit.ly/3bkWUzu) il direttore della Caritas di Palermo spiegava come si era organizzato per far fronte all’emergenza COVID-19. «La prima azione è stata la ricerca dei volontari, perché ci mancavano quelli che non potevano più uscire. Abbiamo fatto un comunicato stampa e sono arrivate circa 200 adesioni di nuovi volontari». Così, si sono moltiplicate le iniziative tese ad aiutare le persone più vulnerabili. Numerosi sono stati poi i professionisti che, volontariamente, si sono messi a disposizione delle strutture sanitarie (ad esempio, Infermieri per COVID).
Fin dai primi giorni dell’emergenza sanitaria è stato adottato, da parte di chi opera nella comunicazione ma anche dai rappresentanti delle istituzioni, un linguaggio bellico: si parla di «trincea» negli ospedali, del «fronte» del virus, di «economia di guerra»; la Protezione civile ogni giorno dirama un «bollettino» con il numero dei morti e dei contagiati: la metafora è quella di un paese, anzi ormai del mondo intero, in «conflitto» contro il virus. Ne abbiamo parlato con Sergio Astori, psichiatra e psicoterapeuta, docente presso la Facoltà di psicologia dell’Università cattolica di Milano.
Ai primi di marzo di quest’anno, la Conferenza episcopale tedesca ha eletto Georg Bätzing, vescovo di Limburg, come suo nuovo presidente, succedendo al card. Reinhard Marx. Alla fine di aprile la Conferenza episcopale ha pubblicato il primo documento sotto la sua nuova guida, la Riflessione sulla fine della Seconda guerra mondiale 75 anni fa.
La potenza sovrastante della natura significa per l’umano l’incontro con l’inermità, con la propria impotenza, con il dramma della malattia, della propria morte, dell’angoscia della propria finitezza. Di fronte all’angoscia della finitezza viene evocata la religione come riparo, come rimedio, come analgesico, come costruzione ausiliaria. Questa è la tesi (…) con un’avvertenza: quando Freud usa il termine «illusione» lo usa (…) in termini analitici (…): definiamo «illusione» lo statuto infantile del desiderio. L’illusione sarebbe la forma che assume il desiderio nell’infanzia. In questo senso dunque la religione indicherebbe un movimento regressivo dell’umano agli stadi primari della vita, dunque del bambino che si nutre dell’illusione (…)
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Maria Elisabetta Gandolfi, Flavia Giacoboni, Valeria Roncarati, Daniela Sala, Domenico Segna, Paolo Tomassone
Nasce la collana «Semi» per gettare ai lettori qualche idea germinale sul dopo pandemia (sulla scuola cf. in questo numero a p. 268) mentre tutti siamo chiusi nelle nostre case. Partiamo di qui, da questi contenitori: come sono? A quale visione sociale corrisponde la loro costruzione? Il «micromonodo in cui siamo obbligati a stare e di cui ci stiamo prendendo cura come mai era accaduto» oggi ci fa sentire al sicuro e temere la socialità della vita cittadina. Eppure della socialità ci nutriamo e fa parte del nostro essere molto più della vita quasi-monastica cui siamo sottoposti.
Oggi l’immaginario collettivo sull’aldilà presenta un sincretismo di visioni che però mantengono la loro provenienza cristiana e, prima ancora, greca antica. Le due prospettive religioso-culturali conservano però grandi differenze che, a un attento studio, emergono chiaramente. È su questo versante che il saggio di Doralice Fabiano è davvero utile. Il concetto di «paradiso» rimanda direttamente a quello di retribuzione ultraterrena e quindi di ristabilimento della giustizia. Per i greci non esiste un giudizio nell’oltretomba perché, soprattutto per la mentalità arcaica, non esiste una divinità che premia il bene e punisce il male.
Al termine di questa riflessione sui rapporti tra pratiche rituali e sentimenti devozionali diffusi nel nostro Mezzogiorno,1 da un lato, e presenze della criminalità organizzata in momenti centrali di quegli eventi religiosi, dall’altro, possiamo tornare su alcune domande (…) Quello degli inchini ci è apparso un aspetto di una più ampia e stratificata religiosità, diffusa in molte aree del Mezzogiorno che, a sua volta è espressione, e nello stesso tempo elemento perno, di una configurazione giurisdizionale di parti importanti dello spazio pubblico.
Pubblicato una prima volta nel 1980, vivente ancora Gershom Scholem (1897-1982), questo carteggio tra lo studioso di Qabbalah e mistica ebraica e l’ebreo berlinese Walter Benjamin (1892-1940) esce ora in una nuova edizione italiana, integrata di quei passi allora censurati dal curatore (lo stesso Scholem) perché riguardanti persone ancora in vita.
Nella storia della Chiesa la donna è stata relegata a ruoli subalterni, «soldati semplici» insomma. Tale condizione è legata a consolidate concezioni teologiche e culturali che sono diventate anche un alibi per non ascoltarle, ostacolando così la necessaria ridefinizione della sinodalità. Nonostante il desiderio espresso da molti fedeli, e dallo stesso papa Francesco, di una progressiva e dovuta apertura a questo tema, una parte maggioritaria del mondo cattolico mostra invece un’imbarazzante chiusura a ogni rinnovamento.
La religiosità degli italiani è stata monitorata a cadenze piuttosto regolari negli ultimi decenni grazie a una serie di indagini come La religiosità degli italiani, Mondadori, Milano 1995 e Religione all’italiana, Il Mulino, Bologna 2011: esse hanno consentito non solo di fare di volta in volta il punto in maniera aggiornata sulla situazione, ma anche di mettere in evidenza gli sviluppi che si sono succeduti nel corso del tempo. Inserendosi in questo itinerario, Franco Garelli analizza la condizione del cattolicesimo italiano e del sentimento religioso.
Gli iperoggetti sono direttamente responsabili della «fine del mondo», espressione che per l’autore non ha niente di apocalittico (negazionismo ecologico e ambientalismo apocalittico sono per lui egualmente obsoleti), perché la fine del mondo è già avvenuta in due date canoniche: aprile del 1784, quando James Watt brevetta la macchina a vapore, dando inizio al deposito di carbone sulla crosta terrestre) e 1945, quando a Trinity, nel New Mexico, fu testata la prima bomba atomica e in seguito due bombe nucleari furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki.
«Senza memoria perdiamo il nostro futuro». Lo ha affermato l’8 maggio 2020 il presidente della Repubblica federale tedesca, Frank-Walter Steinmeier, commemorando a Berlino il 75° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Pochi giorni prima, il 29 aprile, la conferenza episcopale aveva pubblicato un documento sul ruolo della Chiesa cattolica nella guerra mondiale, in cui i vescovi riconoscevano le colpe dei loro predecessori nel conflitto (cf. in questo numero a p. 281; la traduzione italiana sul prossimo Il Regno – Documenti).
La società polacca è considerata come una delle più religiose in Europa. Molti dati sembrano confermarlo. La stragrande maggioranza (92%) di polacchi si dichiara cattolico e ogni 4 nuovi preti ordinati in Europa 1 è polacco. D’altra parte, secondo una recente ricerca del Pew Forum, la Polonia è caratterizzata dal più grande divario nella religiosità tra giovani e anziani. Pertanto qual è l’immagine della religiosità polacca contemporanea e la posizione della Chiesa cattolica polacca nella società?
L’8 gennaio di quest’anno si è celebrato il 100o anniversario della creazione della «Chiesa cecoslovacca», a cui venne aggiunto l’aggettivo «hussita» nel 1971. Della nuova entità ecclesiale Karel Farský fu primo patriarca dal 1920 fino alla morte che lo colse nel 1927. Il contesto in cui maturò lo scisma era quello della Boemia a cavallo tra la seconda metà del XIX e gli inizi del XX secolo. Erano gli ultimi decenni dell’Impero austro-ungarico.
A «fronte della terribile situazione che l’umanità sta vivendo» a causa del coronavirus, abbiamo compiuto «una quantità di atti e di celebrazioni» liturgiche che non sempre «appaiono liberi da un miracolismo anacronistico né riescono sempre a sottrarsi al pericolo di offrire una caricatura della vera fede».
È lapidaria l’affermazione del teologo Andrés Torres Queiruga ma altrettanto appassionata è l’ampia riflessione che ha svolto in due puntate su Religión digital. «La crisi del coronavirus» è «un’autentica epifania» per comprendere che c’è una doppia «urgenza che bussa alle porte delle teologia»: formulare nuove preghiere che non siano «pietose insolenze» (K. Barth) contro Dio; e superare una teodicea che vagheggia una vita terrena senza la presenza del male, ovvero un dio impotente, lasciando che il male diventi la «roccia dell’ateismo». La croce di Cristo è la «fortuna impagabile» per l’uomo, «perché, grazie al fatto che egli fu capace di vivere nell’affidamento quella situazione estrema nella quale tutto sembrava che parlasse di abbandono da parte di Dio, noi possiamo essere sicuri che non esiste situazione umana che possa essere tradotta in abbandono da parte di Dio e che, pertanto, possa mettere in dubbio la possibilità di un affidamento totale».