Com’è lontano il Concilio
Conversazione con il teologo Gilfredo Marengo
Vaticano II ancora da attuare e già lontano: è una conversazione che vado conducendo da mesi con il teologo Gilfredo Marengo, che insegna Antropologia teologica all’Istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia. Un’inchiesta a due che qui provo a narrare.
Vaticano II ancora da attuare e già lontano: è una conversazione che vado conducendo da mesi con il teologo Gilfredo Marengo, che insegna Antropologia teologica all’Istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia. Un’inchiesta a due che qui provo a narrare.
Marengo e io ci siamo fatti l’idea che non siano in gioco – in questo vasto scenario – soltanto gli elementi della lontananza generazionale (dei testimoni italiani dell’Aula è rimasto il vescovo Luigi Bettazzi: 94 anni) e dell’accelerazione della storia: 56 anni dall’apertura del Vaticano II per un concilio non sarebbero tantissimi, ma si tratta del mezzo secolo più veloce e smemorato della storia umana.
Occorre anche guardare
ai limiti del Vaticano II
Siamo convinti che vi sia dell’altro e più profondo. In particolare, un paio di limiti del Concilio stesso che oggi lo mostrano invecchiato più di quanto non dica l’anagrafe: uno riguarda la novità di cui il Vaticano II voleva essere portatore, l’altro la pastoralità che lo doveva connotare.
Gilfredo Marengo è attrezzato per questa indagine, come attestano i suoi lavori e per ultimo il volume Chiesa senza storia, storia senza Chiesa. L’inattuale «modernità» del problema Chiesa-mondo (Studium, Roma 2018). Anche la sua fortunata ricerca documentale sulla questione più controversa del post-concilio, La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli archivi vaticani, che la LEV ha pubblicato nel mese di luglio, è stata un’occasione per il nostro confronto. Di attualità del Concilio, infine, Marengo si occupa come direttore della cattedra Gaudium et spes fondata nell’Istituto Giovanni Paolo II.
«Rispondere alle necessità della Chiesa del XX secolo con un concilio “nuovo” è stato meno facile di quanto, forse, per troppo tempo si è pensato», argomenta Marengo. Quella novità dovette farsi strada in un ambiente ecclesiale che continuò a immaginare un rinnovamento della Chiesa dall’alto, da attuare in piena sintonia con la tradizione tridentina.
«Dopo più di mezzo secolo – dice il mio interlocutore – tocchiamo con mano quanto la decisione di non mettere in discussione quel paradigma tridentino spieghi molte delle più acute difficoltà del postconcilio: stanno qui le ragioni per le quali non pochi hanno guardato al Vaticano II come fonte di problemi piuttosto che come un’occasione donata alla comunità ecclesiale di rinnovamento della sua vita e del suo slancio missionario».
«Soprattutto – afferma ancora Marengo – non si è prestata la giusta attenzione alla pastoralità, sebbene essa fosse stata indicata come sigillo della novità del Concilio dallo stesso Giovanni XXIII nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962. Questa dimensione, consacrata nella sua centralità da Gaudium et spes (sebbene ancora in tensione con la dottrina), non a caso è il fulcro intorno al quale ruota il magistero di Francesco». Ovvero: forse Francesco osa oggi pensare il nuovo e sperimentare quell’approccio pastorale intero a ogni questione che l’assise si era ripromessa di svolgere ma che non poté attuare adeguatamente.
Quell’assise si deve
all’intuizione di uno storico
È convincimento di Marengo che collocare l’evento conciliare in una prospettiva di lunga durata aiuti a intenderne sia la provvidenzialità sia i limiti. «L’intuizione che guidò Giovanni XXIII a indire il Vaticano II metteva in gioco il registro della storia in modo tutto speciale: c’è chi ha detto che il Concilio si deve all’intuizione di uno storico (cardinale Garrone). Per il papa era necessario prendere atto di un mutato scenario in cui la Chiesa era chiamata a compiere la sua missione e a questo scopo bisognava immaginare un concilio diverso da tutti quelli fino ad allora celebrati».
Ma l’audacia dell’inedito non s’improvvisa. Gran parte dei lavori conciliari fu occupata da temi dottrinali e istituzionali, alla luce di due istanze: il rinnovamento della teologia e il superamento di una figura istituzionale della Chiesa tutta centrata sul romano pontefice; si volle correggere un certo profilo tridentino, ma non si riuscì a metterne in discussione le premesse di metodo.
In questi decenni – è stata una delle mie provocazioni al teologo – abbiamo avuto l’ingegneria genetica, l’accelerazione informatica e digitale, l’unificazione dell’economia mondiale, il rimescolamento migratorio. Il Vaticano II fece i conti con la modernità occidentale, ma ora quella modernità è soppiantata dalla globalizzazione postmoderna…
«La complessità sfuggente di uno scenario in sempre più rapido mutamento – è la risposta dello studioso – fa emergere il vero elemento di fatica: ritenere che un agire fruttuoso della Chiesa tra gli uomini del suo tempo richieda sempre la capacità di elaborare un’analisi esauriente della realtà, garantita dottrinalmente dal magistero, da cui dedurre modi e contenuti dell’azione ecclesiale. Troppo spesso si è ridotto a questo modo di procedere l’appello a leggere i segni dei tempi e sta forse qui una delle ragioni per cui il Concilio e i decenni successivi sono stati attraversati da un logorante conflitto delle interpretazioni, incrementato dalla rapidità di cambiamenti sul palcoscenico della storia. Questo modo di procedere, tipico della Chiesa moderna, oggi si rivela sempre più impraticabile, perché l’epoca postmoderna ne svela una costitutiva fragilità di metodo: ciò che abilita la Chiesa ad agire nel mondo è innanzitutto l’irriducibile novità dell’annuncio che essa custodisce e può sempre offrire in qualunque circostanza si trovi a vivere. A me piace dire che dobbiamo imparare a guardare il mondo non come un’obiezione, ma come la condizione insuperabile della missione cristiana».
Viene avanti
una cattolicità del Sud
Altra questione su cui ho richiamato l’attenzione dell’interlocutore è stata la mutazione del cattolicesimo intervenuta in questo mezzo secolo: viene avanti una cattolicità del Sud del mondo che non comprende e non pratica le mediazioni culturali dettate dalla storia del vecchio continente e recepite dalla Gaudium et spes, e intende il servizio all’uomo come impegno diretto delle comunità ecclesiali nella lotta per la giustizia. Su questo superamento della pedagogia della mediazione pare si collochi anche il papa latinoamericano: forse è qui il punto della sua maggiore lontananza dal cattolicesimo europeo.
«La Chiesa – è l’argomentazione di Marengo – ha investito fortemente sulle mediazioni culturali quando si è trovata, nel passato recente, a misurarsi con modelli di vita e di società proposti come universalmente veri e applicabili: le grandi ideologie moderne. In questo percorso, però, il punto di mediazione venne individuato in una nozione di verità tipica della filosofia moderna, a dominante europea, al fine di mostrare ragionevole la proposta cristiana, in quanto accettabile e omologabile ai paradigmi culturali dominanti, di per sé estranei al sapere della fede. Tutto ciò ha reso faticoso mostrare che la destinazione universale dell’annuncio evangelico è a esso propria e nativa e non dipende affatto dalla ricerca e dalla valorizzazione di un minimo comune denominatore (che potrebbe essere dato dalla ragione, o dalla natura) con un mondo ormai radicalmente distante dalla tradizione cristiana. Un mondo nel quale risulta impronunciabile, o quasi, il nome di Dio sulla scena pubblica».
Libera proposta evangelica
senza mediazioni paralizzanti
Fuori dall’Europa quella impronunciabilità non si riscontra e dunque il papa latinoamericano può incentrare «con naturalezza» la sua predicazione sull’annuncio della misericordia del Padre e – forse – può riprendere l’apertura al mondo che fu del Vaticano II, intendendola come libera proposta evangelica, senza l’inaridimento e l’afasia che ne erano venuti nel contesto della cultura europea.
Su questo versante del rinnovato annuncio evangelico – argomenta ancora il teologo – va ricordato l’appello di Francesco a una conversione pastorale della Chiesa, mirata a «fare in modo che esse [le sue strutture] diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (Evangelii gaudium n. 27; EV 29/2133).
«Correggendo – precisa Marengo – un uso schematico della distinzione tra Chiesa ad intra e Chiesa ad extra, il papa ha dimostrato una viva coscienza del legame esistente tra la vita istituzionale della Chiesa e la sua capacità di vivere il Vangelo e di testimoniarlo. Nella medesima direzione Francesco invita a correggere ogni formale dottrinalismo, propiziando una teologia riconciliata con la sua originaria dimensione pastorale e, di conseguenza, capace di riconoscere e incontrare il nucleo della sfida che il mondo contemporaneo pone alla vita della Chiesa».
No alla paura
di andare oltre il Concilio
Chiedo al teologo quali sono i documenti del Vaticano II che più mostrano i segni dell’età: «Tutti li mostrano, ma questo non comporta un giudizio di valore sulla loro qualità e autorevolezza. Essi sono parte preziosa e feconda del patrimonio ecclesiale e – a oggi – sono un fondamentale punto di riferimento: se ci liberiamo da un’attitudine recettiva che spesso li ha letti immaginando che cosa essi avrebbero dovuto dire e non hanno detto, la loro ricchezza apparirà in gran parte inesplorata».
«Altrettanto improvvido – conclude Marengo – sarebbe guardare al magistero conciliare come a un corpus compiuto, impermeabile a una lettura che ne sviluppi potenzialità non sempre da esso dichiarate. Non bisogna avere paura di procedere oltre, sollecitati dalle domande che via via emergono dal vissuto della comunità ecclesiale, nel suo impegno a testimoniare la novità cristiana agli uomini del suo tempo».
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