Si conclude un anno difficile nella vita della rivista Il Regno. A metà luglio la proprietà del Centro editoriale dehoniano (CED), la Provincia italiana settentrionale dei Sacerdoti del sacro Cuore (dehoniani), aveva dato l’annuncio, motivato da ragioni finanziarie e di ristrutturazione aziendale, della chiusura della rivista alla fine del 2015. Alla vigilia del suo 60° anno di vita, la rivista storica del CED veniva chiusa. Qualificai allora la decisione come «sofferta e grave» e mi augurai che questa storia potesse «in altro modo e in altra forma proseguire».
Dopo la pars destruens, la pars construens. Il discorso che il papa ha tenuto ieri alla curia romana, in occasione dei tradizionali auguri natalizi, all’opposto di quello pronunciato il 22 dicembre dello scorso anno, non ha avuto i toni drammatici dell’invettiva contro i mali della Chiesa, ma il respiro ampio delle risposte (cf. Regno-att. 22,2014,763). Avevamo capito bene. Che quello dello scorso anno fosse un catalogo dei mali e che quei mali il papa li vedesse soprattutto nella curia romana lo ha confermato lui stesso, citando quel suo discorso proprio come «catalogo dei mali della curia», al quale quest’anno fa succedere l’elenco dei rimedi.
Papa Francesco ha indetto il Giubileo della misericordia. L’evento è stato proclamato quasi come continuazione del Sinodo della Chiesa universale sulla famiglia. Entrambi i momenti hanno bisogno di un’atmosfera, di un clima, anzi di una grazia che viene dall’alto, e che rifluisca sulle nostre comunità come un’onda di consolazione, di guarigione e di rinnovamento. Potremmo dire con una frase sintetica: il papa ci dice di amare la Chiesa e la famiglia, perché la Chiesa diventi di nuovo signum levatum in nationibus («segnale innalzato per le genti lontane», cf. Is 5,26) e la famiglia rianimi la vita della società. Il nostro tempo, attraversato da fantasmi di paura e di morte, ha bisogno di una ventata di speranza e di vita nuova. La vita dell’uomo pasquale è possibile solo se ascolta il Vangelo della misericordia.
Il Giubileo della misericordia, indetto da papa Francesco per l’anno 2015-2016, impegna tutta la Chiesa a fare un’esperienza rinnovata e profonda della misericordia divina e ad annunciarla con nuovo slancio e audacia. Si tratta di riscoprire il cuore stesso del Vangelo: «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi.
La Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo (del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani) in occasione del 50o anniversario della dichiarazione conciliare Nostra aetate, dedicata al n. 4 ai rapporti con l’ebraismo, propone un documento teologico che ripercorre il cammino sin qui compiuto dalla Chiesa cattolica nella comprensione del suo rapporto con l’ebraismo. Intitolato Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle reazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra aetate (n. 4), è stato presentato a Roma lo scorso 10 dicembre. Ne riportiamo il testo con un commento di Piero Stefani che sottolinea, tra l’altro, come l’aspetto più innovativo del documento sia il riferimento alla duplice origine della Chiesa sia dagli ebrei sia dalle genti. Nella presentazione ufficiale fatta presso la Sala stampa della Santa Sede, si è particolarmente insistito sul punto che «non vi è alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei» da parte della Chiesa cattolica.
Il documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili si autodefinisce come una serie di «riflessioni su questioni teologiche attinenti alle reazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra aetate (n. 4)». Il testo, nella breve prefazione, si preoccupa di presentarsi «non come un documento magisteriale o un insegnamento dottrinale della Chiesa cattolica» ma come «una riflessione (...) su questioni teologiche».
Si è soliti affermare che le Beatitudini rappresentano il rovesciamento della mappa dei valori consueti.1 È così. Chiamare beati i poveri, coloro che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (cf. Mt 5,3-10) equivale a proporre una realtà davvero altra rispetto al modo in cui si dipanano i nostri giorni; eppure, più di ogni altro discorso, quelle proclamazioni parlano alla nostra vita.
Mi sono appassionato alle «porte sante della carità» e le vado cercando per ogni dove da quando è stata annunciata quella di via Marsala a Roma. Vedo in esse la prima novità di questo giubileo innovatore e vado costruendo un elenco di quelle italiane chiedendo in giro e interrogando i visitatori del blog. Mentre scrivo se ne aprono dappertutto: in ospedali e in carceri, in centri della Caritas, in comunità d’accoglienza, in ogni luogo del soccorso ai bisognosi. Esulto nello scoprirle, ci vedo un riflesso cultuale del genio della carità che caratterizza la nostra Chiesa, specie in Italia. Un inveramento gestuale dell’affermazione teologica che «l’amore per i poveri è liturgia», cara a papa Benedetto (catechesi del 1° ottobre 2008, Angelus dell’11 luglio 2010). Un ulteriore segno della continuità nella predicazione della carità – la continuità che conta – tra Benedetto e Francesco: dalla teologia dell’amore dell’uno alla pastorale della misericordia dell’altro.