È la vigilia di Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura, che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure di un grado, neanche al tempo di Natale».
Può capitare di leggere le 587 pagine scritte in caratteri lillipuziani de Il giuoco delle perle di vetro1 a diciannove anni, dopo non aver amato né il didascalico Narciso e Boccadoro né l’ecumenico Siddharta, infinitamente più accattivanti nel loro offrirsi a una lettura tutto sommato facile, quali che poi siano le profondità che molti ci vedono fra una riga e l’altra. Ci si arriva magari portandoselo in valigia a un campo di studio organizzato dai gesuiti, fra le montagne dell’Alto Adige a Selva di Val Gardena. Corso di maturità teologica si chiamava, ragazze e ragazzi usciti dalla maturità e immersi in quel momento unico nella vita in cui ogni cosa sembra possibile, squadernata davanti a noi, vertigine di libertà da attraversare.
Donne che non conoscono il loro valore. Uomini che di valore non ne hanno molto. Il mondo che Elizabeth von Arnim racconta nei suoi romanzi è spesso un piccolo, quieto ritaglio della grande società vittoriana, i cui difetti sono letti attraverso un’ironia intelligente che permette di vedere anche il bene di un formalismo che comunque e per vie indirette un poco purtuttavia educa i buoni pensieri. Di buoni pensieri e di parole ancora più buone strabocca Vera, romanzo che Elizabeth von Arnim scrisse nel 1921 (la 1a traduzione italiana è di Mursia [MI] del 1993; la più recente è di Bollati Boringhieri [TO] del 2006), solo un anno prima di Un incantevole aprile, leggerissimo nell’ironico raccontare il viaggio in Italia di quattro dame inglesi annoiate dalla nebbia e, le due di loro sposate, anche dai rispettivi mariti. In Vera invece non c’è niente di leggero, tranne la scrittura elegantissima dell’autrice.
Isabella D’Este ha sedici anni quando arriva a Mantova, sposa di Francesco II Gonzaga. È il 1490. Quattro anni dopo Carlo VIII inizia la lunga serie delle orrende guerre che rivolteranno l’Italia costringendo i piccoli ducati e le signorie a vorticosi cambi di alleanza e a impensati servaggi. Fra questi c’è il Marchesato di Mantova, bello come una miniatura, e indifendibile a meno che non riesca a tessere una rete, ragnatela di relazioni e alleanze protettive. Una storia fitta fitta che vista dal di fuori delle date e delle battaglie ha un che di respingente. Ma è possibile trovarsi dentro e tutto cambia. Rinascimento privato di Maria Bellonci (Mondadori, 1994) racconta questo periodo attraverso le parole di Isabella già grande, si direbbe in francese.