Discernimento e Chiesa sinodale
Riflette sul n. 11 della Gaudium et spes, dove la costituzione pastorale del Vaticano II parla dell’azione di discernimento con cui il popolo di Dio riconosce negli avvenimenti la presenza di Dio e l’azione dello Spirito, la prolusione di mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del Consiglio di nove cardinali istituito dal papa per consigliarlo sul governo della Chiesa, al Convegno pastorale diocesano su «Discernimento cuore dell’accompagnare» (Castel Gandolfo, 19 giugno). Tema sostanziale nel magistero di papa Francesco, che anche a partire dalla propria formazione gesuitica lo ritiene un momento indispensabile perché la fede diventi «attiva, creativa ed efficace», il discernimento spirituale è un processo necessario perché il credente e la Chiesa nelle sue diverse manifestazioni evitino i rischi dello spiritualismo e del fondamentalismo, ed entrino nella dinamica della sinodalità, «uno dei frutti più promettenti dell’ecclesiologia conciliare e che oggi, grazie all’impulso di Francesco, conosce una felice stagione di rilancio». E «lo spazio reale per operare/verificare in una Chiesa diocesana e nelle sue parrocchie il passaggio nel concreto del principio sinodalità sono gli organismi di partecipazione».
Stampa da file in nostro possesso.
Ho pensato d’introdurre il nostro Convegno diocesano 2017 commentando un brano del concilio Vaticano II, che ritengo non solo adatto, ma anche utile per il tema su cui intendiamo riflettere. Parliamo, infatti, del «discernimento, cuore dell’accompagnare». Su questa azione, davvero centrale, per un anno intero, a cominciare dal Convegno 2016, abbiamo riflettuto nei diversi livelli: personale, ministeriale e territoriale. Da quest’azione noi non vogliamo affatto distanziarci, aggiungendovene un’altra; nell’accompagnamento, anzi, intendiamo addentrarci individuandone con l’immagine del «cuore» il centro pulsante; quello, cioè, che le dà la motivazione, spinge e sostiene l’azione. È, appunto, il discernimento.
Leggo, allora, subito il testo conciliare. Si tratta di Gaudium et spes, n. 11: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio». Prima di commentarlo, però, è necessario precisare di cosa stiamo parlando.
Discernere: attingere alla grazia
della filiazione divina
Comincerò con alcuni chiarimenti linguistici sulla parola «discernimento», utili per evitare che le aspettative si disperdano verso i molti significati possibili di questo termine.[1] Letteralmente esso significa «separare» e «distinguere»; noi, però, lo usiamo anche nel senso di correttamente soppesare e valutare tutti i termini di una questione in modo da pervenire, in libertà e pace, alla migliore scelta umanamente possibile.
Una volta assunto questo significato generale e ampio, si tratta di chiarire in quale collocarsi; se, ad esempio, in quella sociologica, o in quella psicologica; oppure, in senso più ricco, ma ancora parziale, in una prospettiva etica e morale in modo da giungere a distinguere chiaramente il bene dal male, il peccato dalla tentazione.
Ora, non c’è alcun dubbio che il valore di tutti questi aspetti dev’essere riconosciuto, a meno che non si scelga la strada illusoria di uno spiritualismo avulso dalle complessità della storia; oppure non si opti per la via devastatrice del fondamentalismo religioso, che nel tentativo suicida di fissare lo sguardo su Dio (cf. Es 33,20) dimentica di amare il volto dell’uomo; oppure non ci si inoltri nel vicolo chiuso del legalismo dimentico che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Pure riconoscendo, tuttavia, il valore di un discernimento di ordine sociologico, psicologico ed etico, è d’obbligo precisare che nel discernimento di cui noi parliamo decisivo e discriminante è l’esplicito riferimento alla volontà di Dio da compiersi qui e ora dal concreto soggetto discernente e operante. Si tratta, infatti, di riconoscere la voce e l’opera di Dio nella propria vita e nella propria storia al fine di rispondergli col rendere la propria vita il più possibile conforme alla sua volontà, conosciuta e amata.
Trattando di discernimento abbiamo, dunque, a che fare con un compito che appartiene allo strato più profondo della spiritualità biblica. La sua premessa necessaria è che ci si renda disponibili, in forma costante e progressiva, a farsi incontrare da Dio, senza nascondersi come l’Adamo peccatore, ed essere docili nel lasciarsi guidare da lui sì da attuare la sua volontà secondo la formula liturgica: quae tibi sunt placita et dictis exsequamur et factis, «possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere».[2]
Come tale, il discernimento è un’attivazione del dinamismo della fede allo scopo di scoprire Cristo nello spessore del presente.[3] In questa luce è possibile descriverlo come «l’intima cognizione dell’opera di Dio nel cuore degli uomini: dono dello Spirito Santo e frutto della carità».[4] Si tratta, in altre parole, di un immergersi di continuo e sempre più profondamente nella grazia battesimale della filiazione.
Il discernimento, infatti, è l’atteggiamento proprio della filialità: scelta caratterizzante colui che si riconosce «figlio» del Padre, rassicurato dalla parola di Gesù che gli dice: «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50; cf. Mc 3,35). Sotto questo punto di vista il discernimento è «l’atteggiamento spirituale costitutivo di ogni vita cristiana».[5]
Troviamo qui la ragione per la quale Francesco, formato peraltro nella scuola «specializzata» del discernimento ignaziano, da qualche tempo insiste sempre più frequentemente sulla necessità per la Chiesa di «crescere nella capacità del discernimento». Lo disse il 30 luglio 2016 quando, trovandosi a Cracovia in occasione della 31a Giornata mondiale della gioventù, incontrò un gruppo di gesuiti polacchi. Al termine del dialogo aggiunse questa sorta di raccomandazione: «Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere».[6]
Un altro importante intervento su questo tema Francesco l’ha fatto parlando al clero romano il 2 marzo 2017. Egli stava spiegando il rapporto tra fede e discernimento, notando che spesso si sottolinea la necessità di un progresso nella fede, ma non si fa altrettanto riguardo al discernimento; anzi, qualcuno potrebbe anche pensare che dove c’è fede non c’è bisogno di discernimento. In realtà, spiega bene il papa, lo stesso progresso nella fede avviene grazie al discernimento! Al contrario, immaginare che dove c’è fede non dovrebbe esserci bisogno di discernimento e che, dunque, si crede e basta è pericoloso. «È pericoloso soprattutto se si sostituiscono i rinnovati atti di fede in una Persona – in Cristo nostro Signore –, che hanno tutto il dinamismo che abbiamo appena visto, con atti di fede meramente intellettuali, il cui dinamismo si esaurisce nel fare riflessioni ed elaborare formulazioni astratte. La formulazione concettuale è un momento necessario del pensiero, come scegliere un mezzo di trasporto è necessario per giungere a una meta. Ma la fede non si esaurisce in una formulazione astratta, né la carità in un bene particolare, ma il proprio della fede e della carità è crescere e progredire aprendosi a una maggiore fiducia e a un bene comune più grande. Il proprio della fede è essere “operante”, attiva, e così per la carità. E la pietra di paragone è il discernimento. Infatti la fede può fossilizzarsi, nel conservare l’amore ricevuto, trasformandolo in un oggetto da chiudere in un museo; e la fede può anche volatilizzarsi, nella proiezione dell’amore desiderato, trasformandolo in un oggetto virtuale che esiste solo nell’isola delle utopie. Il discernimento dell’amore reale, concreto e possibile nel momento presente, in favore del prossimo più drammaticamente bisognoso, fa sì che la fede diventi attiva, creativa ed efficace» (i corsivi sono miei).[7]
In questo caso, come può vedersi, e in tante altre circostanze il papa parla non di un qualunque discernimento, ma di un discernimento spirituale. Il senso dell’espressione lo aveva già egli stesso spiegato il 14 giugno 2013 quando, rivolto alla comunità degli scrittori de La Civiltà cattolica, ne diede una descrizione davvero efficace e noi possiamo fin da ora assumerla come punto di riferimento: discernimento spirituale è quello «che cerca di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali».
Un cammino «in compagnia»
di Dio e degli uomini
Dovendo, però, fare un passo avanti, ora mi sta a cuore sottolineare un altro aspetto del discernimento, ed è che esso non consiste propriamente in giudizio, ma in un «processo», un «cammino». Il discernimento è una via sulla quale ci s’incammina! Al riguardo vorrei subito dire due cose. La prima è che si tratta di un cammino non facile; è anzi un cammino faticoso, se non altro perché deve mettere in conto la stanchezza, il combattimento spirituale, il fallimento e la sconfitta. Anche per questo, come dirò fra poco, chi si pone in stato di discernimento cerca pure chi potrà essergli valido compagno e guida affidabile, perché nella ricerca non s’inganni e non fallisca. Prima d’ogni cosa, poi, ci sarà la fiducia nell’opera di Dio, nella sua grazia.
Da qui, il secondo punto che desidero sottolineare: Dio non se ne sta lontano a osservare il nostro cammino, come un giudice di gara che ha il compito di controllare la piena osservanza delle norme di un regolamento ed eventualmente segnalare e registrare scadenze e tempi. Dio, al contrario, accompagna e sostiene come padre, fratello e amico. «Poteva semplicemente farsi riconoscere come l’Essere supremo, dare i suoi comandamenti e aspettare i risultati. Invece Dio ha fatto e fa infinitamente di più di questo. Ci accompagna nella strada della vita, ci protegge, ci ama», ha detto una volta il papa (Udienza, 26.8.2015).
Permettete, allora, che qui ripeta quanto scrissi nell’editoriale per Millestrade 9(2016) 84. Presi lo spunto di quanto accaduto ai due fratelli Brownlee nell’ultima tappa delle World Series del triathlon a Cozumel, in Messico: stavano per duplicare l’oro e l’argento del mese prima ai giochi di Rio, quando a poche centinaia di metri dal traguardo uno dei due era lì lì per crollare. Sopraggiunse però il fratello, che se ne fece letteralmente carico e lo portò fino al traguardo spingendolo davanti a sé per donargli la seconda posizione. Feci ricorso a questo episodio di fraternità per lasciare alla nostra Chiesa alcune suggestioni sul tema dell’accompagnare, che vuol dire pure ritmare i propri passi su quelli del più debole, del più fragile, del più piccolo.
In Evangelii gaudium Francesco ci ha chiesto di trasformarci da erranti, che narcisisticamente ruotano senza meta attorno a sé stessi, in pellegrini, che danno al loro cammino la rotta verso una destinazione santa con il ritmo salutare della prossimità e della misericordia. Un valido accompagnatore – ha scritto il papa in quell’esortazione apostolica – invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, a lasciarsi accompagnare e curare; l’esperienza dell’accompagnamento, d’altronde, ci insegna a essere pazienti e comprensivi con gli altri e ci mette in grado di trovare i modi per risvegliare in loro la fiducia, l’apertura e la disposizione a crescere (cf. n. 72).
In fin dei conti è proprio quello che Dio fa con ciascuno di noi: ci accompagna, ci soccorre e anche ci guida, lasciando molteplici segnali della sua vicinanza. Rimane, certo la domanda sul come scoprire questi segnali. A rispondere potrà forse aiutarci un racconto; parla di un rabbino, ma potremmo benissimo metterci un vescovo, un parroco, un catechista…: «Una volta, quando dopo lunghe piogge ci fu un’inondazione, un rabbino si arrampicò sul tetto della sua casa e pregò che Dio lo salvasse. Poco dopo arrivò da lui un uomo in barca, per salvarlo. Ma il rabbino disse: “Dio mi salverà” e lo mandò via. Poi venne un elicottero di salvataggio, per tirarlo su, ma egli mandò via anche questo. Alla fine affogò. Quando poi il rabbino giunse davanti al trono di Dio in cielo, e si lamentò con lui per non averlo salvato. Dio disse: “Ti ho mandato una barca, ti ho mandato un elicottero”».[8]
Ciò che, oltre i racconti, rimane sempre vero è che «il nostro Dio ci accompagna sempre, anche se per sventura noi ci dimenticassimo di lui. Sul crinale che divide l’incredulità dalla fede, decisiva è la scoperta di essere amati e accompagnati dal nostro Padre, di non essere mai lasciati soli da lui» (Francesco, Udienza, 26.4.2017). Da qui pure la preghiera di chi procede nella via del discernimento: «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri» (Sal 25,4-5); «Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino» (Sal 27,11); «Fammi conoscere la strada da percorrere … Insegnami a fare la tua volontà, perché sei tu il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in una terra piana» (Sal 143,8.10). All’orante, poi, il Signore risponde: «Ti istruirò e ti insegnerò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio» (Sal 32,8).
Oltre che della «compagnia» di Dio, che interiormente opera mediante lo Spirito, il discernimento necessita pure – come prima accennato – della compagnia fraterna degli uomini. Se consideriamo la tradizione sul discernimento che ci giunge dai padri del deserto, troviamo senz’altro l’affermazione ripetuta che non c’è nulla di più pericoloso del seguire la volontà propria e affidarsi al proprio individuale discernimento. Chiunque entra nel discernimento deve, perciò, individuare una guida esperta e sapiente. Si dirà, anzi, che la disponibilità a farsi accompagnare/guidare è interna alla riuscita del discernimento.
Il discernimento, in altre parole, diventa possibile soltanto quando ci si affida a una guida, a un accompagnatore esperto. Non si tratta, infatti, di un cammino solitario, ma di un camminare accompagnati da un padre, da un anziano nello Spirito, pronti a rivelare a lui i pensieri che si accostano alla porta del proprio cuore per discernere la loro natura.[9] Siamo qui dinanzi a un elemento non secondario del discernimento, dove si rivela in nuce la fondamentale dimensione ecclesiale. San Girolamo dava al monaco Rustico questa indicazione: «Desidero che tu abbia una santa compagnia e che non impari da te stesso».[10]
Non è un caso che i «detti» di Antonio il Grande si chiudano con questo: «Quando è possibile, il monaco deve affidarsi ai padri riguardo al numero dei passi da fare e delle gocce d’acqua da bere nella sua cella; se in queste cose non vuole cadere».[11] Nessuno infatti, se vuole progredire sulla via del bene, può essere maestro di se stesso. Questa volontà, anzi, mostra di essere autentica proprio se ci si pone alla ricerca. Sotto un profilo cristiano, poi, ciascuno deve accettare quelle mediazioni fondamentali volute da Cristo medesimo per la sua Chiesa. «Senza di esse perfino la parola di Dio diventa un mare infido e contraddittorio e le ispirazioni del cuore diventano motivo di inganno e di illusione».[12]
I padri del deserto, tuttavia, precisavano che può assumere la responsabilità di un altro solo chi è in condizione di operare in verità un discernimento secondo lo Spirito. In assenza di tale capacità, che è al tempo stesso carisma e frutto di esperienza, il rischio è davvero grande. Lo stesso desiderio di aiutare un fratello nel difficile momento di un discernimento può trasformarsi in occasione di caduta. Nessuno, perciò, deve atteggiarsi a maestro, o padre spirituale, ma deve affiancarsi con umiltà al fratello offrendogli, quando è possibile e necessario, una parola che nasce dal proprio cuore purificato e dalla propria esperienza.[13]
Ne ricaviamo una duplice lezione, di cui la prima è già indicata dal tema del nostro convegno, ossia che il discernimento sta nel cuore dell’accompagnare. Quello, difatti, che a noi sta a cuore non è una «compagnia», che si traduce in un semplice stare insieme da contrapporre allo stare solo. Anche in questo c’è, ovviamente, un grande valore, ma non è di questo che qui trattiamo. Ciò su cui intendiamo riflettere non è la volontà, o la capacità di stare insieme con altri e neppure l’impegno a ritrovarsi per conversare, divertirsi ecc. L’accompagnare è ben diverso dallo stare in compagnia. È il porsi e il rimanere «generativamente» accanto a una persona.[14]
La seconda lezione la otteniamo se rivoltiamo la nostra formula, fidandoci di J. Guitton secon-
do cui l’arte di pensare consiste nel supporre per un istante che le cose potrebbero essere il contrario di quello che sono. Nel nostro caso diremo che l’accompagnare sta nel cuore del discernimento. Questa frase ci mette in condizione di cogliere un altro aspetto della verità. Vi ho già fatto cenno. Anche nel discernimento…. nessun uomo è un’isola![15]
In ogni caso, «per accompagnare un’altra persona non basta studiare la teoria del discernimento; occorre fare sulla propria pelle l’esperienza d’interpretare i movimenti del cuore per riconoscervi l’azione dello Spirito, la cui voce sa parlare alla singolarità di ciascuno. L’accompagnamento personale richiede di affinare continuamente la propria sensibilità alla voce dello Spirito e conduce a scoprire nelle peculiarità personali una risorsa e una ricchezza. Si tratta di favorire la relazione tra la persona e il Signore, collaborando a rimuovere ciò che la ostacola. Sta qui la differenza tra l’accompagnamento al discernimento e il sostegno psicologico, che pure, se aperto alla trascendenza, si rivela spesso d’importanza fondamentale. Lo psicologo sostiene una persona nelle difficoltà e la aiuta a prendere consapevolezza delle sue fragilità e potenzialità; la guida spirituale rinvia la persona al Signore e prepara il terreno all’incontro con lui».[16]
Leggo queste ultime frasi dal «documento preparatorio» per la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi annunciata per il 2018. Sono annotazioni preziose perché il discernimento spirituale richiede in chi accompagna un atteggiamento empatico, ossia una certa capacità di immedesimarsi con l’altro «con-dividendo» (dis-cernere), quasi «sentendo» dentro di lui, al fine di comprendere meglio e tuttavia sempre rispettandone l’alterità. Per altri aspetti, il discernimento comporta pure uno «scendere nel campo», senza starsene sulle tribune a guardare cosa avviene. E questo vale anche per quel discernimento dei segni dei tempi, di cui dirò subito.[17]
Il discernimento dei segni dei tempi (GS 4)
Al n. II, 2 del «documento preparatorio» al prossimo Sinodo dei vescovi sono pure indicate alcune diverse accezioni del termine discernimento, con l’avvertenza che nella loro applicazione esse sono a tal punto intrecciate da non potersi mai sciogliere completamente. Spiega, ad esempio, che abbiamo un discernimento morale (che distingue ciò che è bene da ciò che è male) e un discernimento spirituale (che si propone di riconoscere la tentazione per respingerla e procedere invece sulla via della pienezza di vita). Prima di queste accezioni, però, quel documento segnala l’importanza di un discernimento dei segni dei tempi, che punta a riconoscere la presenza e l’azione dello Spirito nella storia.
La cosa è da ritenersi senz’altro positiva. Del- l’argomento, infatti, si parlò molto negli anni del Concilio; sul tema poi cadde una sorta di velo, sicché concludendo nel 2005 un convegno celebrato per il 40° della Gaudium et spes il card. D. Tettamanzi parlò del bisogno di rilanciare l’esercizio del discernimento dei segni dei tempi «con lungimirante intelligenza, con autentica fiducia e con vero coraggio». Disse pure che il discernimento dei segni dei tempi «è un esercizio da esprimere anzitutto mediante un’analisi culturale che non si limiti a rincorrere le situazioni, ma sappia prefigurare gli scenari futuri». Si tratta, difatti, di «un compito fondamentale e irrinunciabile per preparare in modo coerente un’azione cristiana veramente cosciente e responsabile. L’elaborazione culturale sembra oggi segnare il passo dinanzi alle incombenze più immediate e alla facilità di soluzioni di più corto respiro. Ma non possiamo dimenticare che al momento culturale della testimonianza cristiana appartengono anche l’interpretazione del tempo presente e la prefigurazione di nuovi percorsi e di nuove esperienze per il futuro. Questo slancio, che apparve esaltante ai cattolici del Concilio e dell’immediato postconcilio, oggi ha bisogno di una ripresa molto più vigorosa e quasi profetica».[18]
Prima di procedere, è forse utile almeno spiegare cosa s’intende con la categoria dei segni tempi, che la Gaudium et spes raccoglie immediatamente dall’enciclica Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII. Si tratta, anzi, di molto di più. La categoria dei segni tempi ci indica infatti l’atteggiamento proprio della costituzione conciliare, quello che la contraddistingue e la specifica e che è la sua «pastoralità».[19] Un atteggiamento – annotava Tettamanzi nell’intervento appena citato – che presuppone un’«apertura» della Chiesa al mondo; anzi una vera e propria coscienza di non essere contrapposta al mondo, né separata da esso, ma in relazione col mondo, «con una relazione che non può non farsi condivisione solidale di tutto ciò che, nel mondo, c’è di vero, di giusto, di buono e di bello, una posizione che rappresenta un vero e proprio soffio innovatore nel rapporto Chiesa-mondo».
È, questa, la fase dell’attenzione che la Chiesa – in fedeltà al suo Signore, di cui continua la missione nella storia – rivolge all’umanità intera e, quindi, al mondo; un’attenzione che si fa testimonianza della verità e servizio disinteressato all’uomo. È anche la fase nella quale la Chiesa si percepisce non più «in fuga dal mondo», o alternativa al mondo, ma «compagna» del mondo. L’atto suggerito dalle parole con cui prende avvio la costituzione, infatti, può senz’altro essere tradotto in termini di reale accompagnamento: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (n. 1; EV 1/1319).
Perché, tuttavia, ciò possa realizzarsi «è dovere permanente della Chiesa» – come si legge nel testo conciliare – «di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche» (GS 4; EV 1/1324). Si tratta, com’è facile intuire, di un dovere quanto mai urgente, che nasce anzitutto dalla consapevolezza che Dio continua a guidare il mondo e a rivolgere il suo appello agli uomini di tutti i tempi attraverso la voce dello Spirito, che risuona anche negli avvenimenti della storia.
Ancora: una lettura attenta del testo conciliare ci fa capire che se occorre «scrutare i segni dei tempi alla luce del Vangelo», non è per applicare ai «tempi», cioè alle situazioni e ai problemi nuovi che emergono nella società, i rimedi e le regole del passato, bensì per dare a essi risposte nuove: «adatte a ogni generazione», come dice il Concilio. Altrettanto importante, al contrario, è non fraintendere come «segno» una qualsiasi emergenza storica, anche per solo il fatto di essere inedita, o nuova. Segni dei tempi, infatti, possono propriamente essere chiamati solo gli «eventi storici che creano consenso universale, per cui il credente è confermato nel verificare l’immutato drammatico agire di Dio nella storia e il non credente è orientato a individuare scelte sempre più vere, coerenti e fondamentali a favore di una promozione globale dell’umanità».[20]
Il dovere di «scrutare i segni dei tempi» nasce, inoltre, dalla convinzione che l’originaria interrelazione tra la Chiesa e il mondo è da interpretare nel segno di una vera e propria reciprocità, in forza della quale non è solo la Chiesa a «dare» al mondo, contribuendo molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia, ma è anche il mondo a «dare» alla Chiesa, in modo da potere meglio comprendere se stessa e meglio vivere la propria missione (cf. nn. 40-44).
Un’ultima cosa occorre dire, anche a integrazione del magistero conciliare: pare, infatti, che a questo importante e doveroso impegno si possa aggiungere che i segni dei tempi «non vanno semplicemente “scrutati”, “letti”, “interpretati”, “giudicati”, ma vanno creativamente promossi, operati da chi li prende sul serio. I cristiani non sono lettori della storia, ma operatori di essa, sulla scia di colui che “ha cominciato a fare e poi a insegnare” (At 1,1), in consonanza naturale con il grido di sacrosanta ribellione che ha dichiarato che ormai era finito il tempo in cui ci si poteva limitare a leggere il mondo, e che era venuto il momento di cominciare a “cambiarlo”. Anzi questo grido è forse il risultato del fatto che troppi cristiani i segni dei tempi o non li hanno neppure cercati, paghi del presente per loro soddisfacente, o si sono limitati a leggerli passivamente, fatalisticamente certi che un altro avrebbe fatto la storia».[21]
Il discernimento in GS 11
Siamo ormai sufficientemente attrezzati per osservare più da vicino il passo di Gaudium et spes, che ho annunciato e letto all’inizio. Risentiamolo, dunque: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio».[22]
Il domenicano M.-D. Chenu, che al tema dei «segni dei tempi» dedicò più volte specifica attenzione, commentava così questo passo conciliare: «Spetta al cristiano riconoscere e accettare quei valori che, divenuti autonomi, sono il capitale comune dei credenti e dei non credenti…
Nella sua fede, il cristiano si pone in ascolto del mondo moderno, accantonando ormai l’atteggiamento dottrinario e paternalistico di chi possiede, per sé e per gli altri, una risposta a ogni problema. Diventa allora capace di riconoscere quelle norme morali la cui emergenza attuale nella storia non dipende dalla Chiesa, anche se, di fatto, è il Vangelo che ne ebbe l’iniziativa originale».[23]
Osserviamo, però, l’uso che della categoria del «discernimento» si fa nel testo conciliare. Rispetto all’uso cristiano tradizionale del termine notiamo subito uno spostamento: si passa, infatti, da un ambito puramente interiore e personale a un campo d’azione pubblico e dalle ampie prospettive, sì da riguardare, in ultima analisi, la concreta presenza e azione dei cristiani nella vita sociale e politica e le loro scelte.[24] Si tratta, infatti, come si legge in un sussidio preparatorio al II Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana (Loreto 1985) di «entrare nel vivo della storia e nel tessuto concreto dell’esistenza: conoscere la vita dell’uomo, le sue contraddizioni, i problemi nuovi che toccano da vicino, svelare il senso e fare esercizio di sapienza cristiana traducendo in progetti e in concretezza le analisi secondo la legge dell’incarnazione».
Questo molto interessante documento indica pure le esigenze di un tale discernimento, che sono:
a) l’umile disponibilità a lasciarsi interpellare dagli avvenimenti del nostro tempo, in quanto in essi si manifesta – pur nella drammaticità e nell’ambiguità del peccato – la presenza e l’azione dello Spirito, e perché attraverso essi Dio chiama la sua Chiesa al rinnovamento;
b) una costante capacità profetica di interpretare la storia e gli avvenimenti in atteggiamento di ascolto e di riflessione per avvertire il disegno di Dio che «viene a salvarci» (cf. Is 35,4);
c) un rinnovato impulso missionario che spinge la Chiesa a proclamare «il Vangelo della riconciliazione» e ravviva la speranza nella salvezza definitiva già presente, in virtù dello Spirito, tra le pieghe dell’esistenza umana;
d) la volontà di servizio all’uomo e alla comunità degli uomini, assumendone gioie e problemi, aspirazioni e attese, dolori e riscatti, per rendersi partecipe della vita di tutti e serva soprattutto degli ultimi, che sono i primi nella logica di Dio.[25]
Comprendiamo, allora, perché nel citato Sussidio il discernimento spirituale sia indicato come «l’ago magnetico di ogni operatività pastorale, in quanto lo Spirito si fa memoria e dinamismo del popolo di Dio». L’immagine pare molto eloquente, perché capace di farci intendere come l’opera di discernimento non sia un optional, o un’operazione che dall’esterno si aggiunge alle azioni pastorali, ma segna la direzione che dà a loro il senso e l’efficacia. Essa, per di più, traduce bene anche l’altra immagine usata nel nostro convegno: il discernimento «cuore» dell’accompagnare. Dal brano conciliare, poi, noi possiamo cogliere alcuni elementi fondamentali.
Segni della presenza di Dio
1. Anzitutto il fatto che Dio lascia sempre nella storia dei «segni» della sua presenza, della sua azione, dei suoi progetti. Dio non sorvola la storia lasciandovi dall’alto al massimo delle ombre, ma la guida dal di dentro e la sospinge con la forza del suo Spirito «che riempie l’universo». L’espressione ci giunge da Sap 1,7. Eccone il bel commento del nostro Catechismo dei ragazzi – Sarete miei testimoni (c. III. Con la forza dello Spirito Santo), che si mostra pure come commento a Gaudium et spes n. 11: «Come il vento che soffia e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va, lo Spirito Santo agisce con novità sorprendente in tutto il mondo. Egli è potenza di Dio, che sa trarre il bene anche dal male. Come il fuoco illumina e riscalda, lo Spirito conduce sulle vie della fede e della carità coloro che non conoscono Dio, ma lo cercano con cuore sincero. Dove ci sono uomini e donne impegnati a costruire la pace, a difendere i deboli e gli oppressi, ad amare i poveri e i sofferenti, in loro agisce lo Spirito Santo. Dove uomini e donne invocano Dio sotto qualsiasi nome o lo cercano onestamente senza conoscerlo, lo Spirito Santo opera con la sua grazia per condurli alla luce piena del Cristo risorto. Dove ci sono uomini e donne che amano la giustizia, cercano la verità con animo sincero e si sforzano di vivere nell’amore, là è presente lo Spirito Santo. Dove ci sono uomini e donne che amano ogni segno di vita e rispettano la natura come casa per tutti, lo Spirito Santo manifesta il progetto di Dio. Dove uomini e donne spendono silenziosamente la vita con dedizione e amore nella quotidianità e nell’accoglienza, lo Spirito Santo costruisce una umanità nuova. Lo Spirito Santo riempie l’universo e vive nella Chiesa, ma misteriosamente opera anche fuori delle nostre comunità cristiane. Non abbiamo motivo di essere pessimisti perché la storia degli uomini è nelle mani di Dio e i suoi progetti arrivano sempre a compimento. Nulla è affidato al caso. La tua persona e tutto ciò che capita intorno a te è illuminato da un grande e unico disegno di salvezza. La Chiesa cerca di riconoscere i veri segni della presenza e del disegno di Dio negli avvenimenti e nelle aspirazioni che condivide con tutti gli uomini. Essa è aperta e disponibile alla voce e alla luce dello Spirito Santo».[26]
Ecco, dunque, lo stupore e la meraviglia: mentre il mondo invecchia, Dio lo rinnova con l’energia potente dello Spirito che opera in noi. Senescit mundus, esclamava sant’Agostino facendo parlare il Signore: «Ti meravigli che il mondo va in rovina? È come un uomo: nasce, cresce, invecchia. Molti sono gli acciacchi nella vecchiaia: tosse, catarro, cisposità, ansietà, stanchezza. L’uomo dunque è invecchiato, è pieno d’acciacchi; è invecchiato il mondo, ch’è pieno di tribolazioni». Proseguiva, quindi, commentando: «Ti ha forse Dio concesso una piccola grazia, di mandarti cioè Cristo nella vecchiaia del mondo per rinnovare te quando tutto va in sfacelo? ... Ad Abramo ormai vecchio nacque un figlio perché Cristo doveva venire nella vecchiaia dello stesso mondo. Venne quando tutto stava invecchiando e ti fece nuovo… Non desiderare di restare attaccato a un mondo decrepito e non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo».[27]
L’opera rinnovatrice dello Spirito
2. I segni nei quali siamo chiamati a individuare l’opera rinnovatrice dello Spirito nel mondo sono gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni, cui il popolo di Dio prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo. Nella lettera apostolica motu proprio Porta fidei (11.10.2011) con la quale inaugurò l’Anno della fede, Benedetto XVI scrisse che nessuno di noi deve diventare pigro nella fede, perché «essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. Intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia, la fede impegna ognuno di noi a diventare segno vivo della presenza del Risorto nel mondo» (n. 15; EV 27/779). Anche Francesco, nel discorso del 14 giugno 2013 che ho citato prima, ci ricorda che mediante il discernimento spirituale noi cerchiamo «di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali». Non potremo fare alcun discernimento se non saremo convinti che nel nostro mondo che invecchia continua a essere impressa la traccia dell’Eterno. D’altra parte si sarà pure convinti che tutti i «segni» e le impronte lasciate da Dio nella storia dell’uomo (anche attraverso l’uomo e, in particolare, quell’«uomo» che è Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio che si è fatto uomo), assunti nella loro globalità, interpretati e valutati in un’ottica teologica opportunamente ripensata, evidenziano altrettanti compiti storici; meglio, si trasformano in imperativi pastorali, che le comunità cristiane sono chiamate a rendere operativi mediante le scelte che necessariamente conseguono a un serio discernimento.[28]
La soggettualità del popolo di Dio
3. La terza cosa che mi preme cogliere dal brano conciliare è che, in questo caso, il «soggetto» chiamato a «discernere» i «veri segni della presenza o del disegno di Dio» è esplicitamente il popolo di Dio.[29] Non, dunque, un soggetto individuale, ma un soggetto in compagnia. Un soggetto che accompagna ed è accompagnato. Nel linguaggio del Vaticano II, infatti, «popolo di Dio» dice tutti i fedeli battezzati, «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» secondo un’espressione agostiniana.[30] Si tratta, allora, di quella che indichiamo abitualmente come la comunità credente. Più nel concreto (poiché – direbbe Francesco – la realtà è più ricca dell’idea!) la nostra diocesi, la nostra comunità parrocchiale. La conseguenza è che, pur nel rispetto dei ruoli specifici derivante dalla mirabile varietà di ministeri e carismi secondo cui è organizzata la Chiesa (cf. Lumen gentium, n. 32), l’opera del discernimento non è intesa come compito di un singolo, ma nella prospettiva di una responsabilità comune. Altrettanto comune, viceversa, è il dovere di individuare e denunciare gli anti-segni che a causa del peccato di tutti impediscono il vero progresso e ritardano l’azione di liberazione globale.
La soggettualità del popolo di Dio, da ultimo, comporta che quanti hanno il compito della guida della comunità (vescovo e presbiteri, in particolare) proprio esercitando la loro responsabilità non possono contare soltanto su sé stessi; devono, anzi, ascoltare «volentieri (libenter) il parere dei laici, tenendo conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme discernere (recognoscere) i segni dei tempi» (Presbyterorum ordinis, n. 9; EV 1/1272).
Questo c’introduce in quel principio di «Chiesa sinodale», che è uno dei frutti più promettenti dell’ecclesiologia conciliare e che oggi, grazie all’impulso di Francesco, conosce una felice stagione di rilancio. Invero, come scriveva H. Zirker richiamando la dottrina esposta in Lumen gentium n. 12, «che la Chiesa sia determinata fondamentalmente dalla comune coscienza di fede (sensus fidelium) non può restare una semplice constatazione dogmatica, che si sottrae a ogni verifica, ma dev’essere sperimentato anche da coloro che vogliono essere legati alla Chiesa stessa».[31]
Per una prima e immediata conclusione
Lo spazio reale per operare/verificare in una Chiesa diocesana e nelle sue parrocchie il passaggio nel concreto del principio sinodalità sono gli organismi di partecipazione.[32] Questo, ovviamente, apre all’impegnativo discorso sul cosiddetto discernimento comunitario,[33] che dovrà necessariamente essere approfondito. Compierlo qui, però, ci farebbe esorbitare dai limiti di un’introduzione al nostro convegno diocesano. Ne abbiamo già cominciato a trattare nei consigli diocesani presbiterale e pastorale; cominceremo a farlo prossimamente anche nei consigli pastorali vicariali per giungere, anche con la loro mediazione, nei consigli parrocchiali.
Basterà, allora, in conclusione ricordare che è saggezza antica della Chiesa risolvere in comune le questioni più importanti mediante una decisione che l’opinione dell’insieme permette di equilibrare («sententia multorum consilio ponderata»: Lumen gentium, n. 22; cf. Cipriano, Epist. 53,3: PL 4, 348); l’esperienza umana ci dice pure che nell’esercizio del discernimento l’uomo è sempre aiutato, sia sul piano affettivo sia su quello intellettivo, dalla compagnia degli altri, dalla comunità: «iuvatur homo ex aliorum societate» (Summa Theologiae II-II, q. 188 a. 8 co).
Castel Gandolfo – Centro Mariapoli, 19 giugno 2017.
@ Marcello Semeraro,
vescovo di Albano
[1] Per un’introduzione cf. M. Semeraro, I consigli parrocchiali in una Chiesa sinodale, Mither Thev, Albano Laziale 2017.
[2] L’espressione «discernimento comunitario» farà il suo ingresso nei documenti ufficiali dell’episcopato italiano con la nota pastorale Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo, 26.5.1996, n. 21: ECEI 6/146.
[1] Per sollecitazioni su quanto segue, cf. G. Tangorra, «Il discernimento del Concilio», in Proposta educativa (2002) 3, 43-48.
[2] Cf. De Praed. Sanct. 14, 27: PL 44, 98. Un altro passaggio di Gaudium et spes che sottolinea il compito comune è al n. 44: «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli dirimere alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (n. 44). In questo brano non soltanto ritorna il verbo discernere, ma compare pure quello affine di dirimere (il verbo latino cui ricorre Gaudium et spes è «diiudicare» che non ha solo il valore di esprimere un giudizio, ma pure quello di «dirimere» e, perciò, nuovamente, discernere). Per la categoria conciliare di «popolo di Dio», cf. M. Semeraro, Lumen gentium. Cinquant’anni dopo, Marcianum Press, Venezia 2016, 153-184.
[3] H. Zirker, Ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1987, 202.
[1] Ed. LEV, Città del Vaticano 1992, 54.
[2] Sermo 81, 8: PL 38, 504-505.
[3] Il discernimento è sempre di per sé finalizzato a delle scelte, donde il principio enunciato anche da san Tommaso che electio discretionem quandam importat (cf. S.Th. I, q. 19 a. 4 ad 1; q. 23 a. 4 arg. 3; De veritate, q. 22 a. 15 arg. 4: «Ogni scelta necessita di un’attività di discernimento».
[1] M.-D. Chenu, «I segni dei tempi», in Aa.Vv., La Chiesa nel mondo contemporaneo. Commento alla costituzione pastorale Gaudium et spes, Queriniana, Brescia 1966, 102; dello stesso cf. pure La Chiesa nel mondo. I segni dei tempi, Vita e pensiero, Milano, 1965.
[2] Nella già citata conferenza il card. D. Tettamanzi osservava: «Se da un lato anche in questo ambito i fedeli, singoli o associati, non possono non riconoscere le esigenze che derivano dal Vangelo e dalla fede e, quindi, non possono agire senza lasciarsi sempre guidare dalla coscienza cristiana; dall’altro lato essi sanno che le scelte concrete da attuare con responsabilità nella storia non derivano né direttamente né esclusivamente dai contenuti della fede, ma dipendono anche dalla doverosa lettura e interpretazione della storia e dall’ascolto attento degli impulsi che lo Spirito di Dio semina nelle vicende del mondo» (Regno-doc. 1,2006,26)
[3] Segreteria del Comitato nazionale preparatorio del II Convegno ecclesiale «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». III Sussidio Insieme per un cammino di riconciliazione (Roma, 22.2.1985), n. 15, in ECEI 3/2182-2183. Tutte queste forti sollecitazioni entreranno purtroppo solo parzialmente nella parte dedicata al discernimento della nota pastorale CEI La Chiesa in Italia dopo Loreto (9.6.1985), cf. nn. 32 e 44, in ECEI 3/2676.2688. Saranno, però, riprese dalla nota pastorale CEI dopo il Convegno di Palermo e, soprattutto, ritrovano attualità nel magistero di Francesco, cf. M. Semeraro, «Vorrei una Chiesa povera e per i poveri», in Lateranum 81(2015) 1, 19-35.
[1] R. Fisichella, voce «Segni dei tempi», in Dizionario di teologia fondamentale, a cura di R. Latourelle, R. Fisichella, Cittadella, Assisi 1990, 1111.
[2] Gennari, voce «Segni dei tempi», 1409. L’autore allude all’XI tesi di K. Marx su Feuerbach, precisando di chiamare «naturale» la consonanza, nel senso ovvio di un semplice accostamento.
[3] Il testo latino ricorre al verbo discernere, che ha il senso generale di separare una cosa da un’altra e perciò «distinguere», ad esempio il bene dal male, il vero dal falso. Nel greco del NT vi corrispondono il verbo dokimazein col valore di soppesare, valutare, accettare come sperimentato, giudicare e il verbo diakrinein che ha prevalentemente il senso di distinguere. Nel caso di Gaudium et spes n. 11 è da tenere in conto evidentemente il richiamo al verbo dokimazein, che a sua volta rimanda implicitamente a Lc 12,56: valutare i segni dei tempi. Si tratta, dunque, di una percezione critica di realtà storiche orientata a una presa di posizione nei loro riguardi.
[1] L’intervento concludeva il Convegno «40 anni da Gaudium et spes. Un’eredità da onorare», Milano – Fondazione Lazzati, 29 ottobre 2005. Testo in bit.ly/2xfmOld e Regno-doc. 1,2006,24. Tornerò a citare questo intervento.
[2] Per il senso di questa qualificazione, cf. la n. 1 del medesimo documento: «La costituzione pastorale “Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo” consta di due parti, ma è un tutto unitario. La costituzione è detta “pastorale” perché, basata sui principi dottrinali, intende esporre l’atteggiamento della Chiesa verso il mondo e gli uomini d’oggi. Non manca dunque né l’intento pastorale nella prima parte, né l’intento dottrinale nella seconda. Nella prima parte la Chiesa sviluppa la sua dottrina sull’uomo, sul mondo nel quale l’uomo inserito e sul suo rapporto con queste realtà. Nella seconda considera più da vicino i diversi aspetti della vita odierna e della società umana, e precisamente in particolare le questioni e i problemi che ai nostri tempi sembrano più urgenti in questo campo. Per cui in questa seconda parte la materia, soggetta ai principi dottrinali, consta di elementi non solo immutabili, ma anche contingenti. Perciò la costituzione dev’essere interpretata secondo le norme generali dell’interpretazione teologica, e ciò tenendo conto, soprattutto nella sua seconda parte, delle mutevoli circostanze con le quali sono connessi, per loro natura, gli argomenti di cui si tratta» (Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes [GS] sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 1; EV 1/1319).
[1] M. Semeraro, Il ministero generativo. Per una pastorale delle relazioni, EDB, Bologna 2016.
[2] L’espressione è del poeta religioso inglese John Donne (1572-1631) e fu ripresa come titolo di un suo fortunato volume da T. Merton, Nessun uomo è un’isola, Garzanti, Milano 1995.
[3] Sinodo dei Vescovi, Documento preparatorio della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», 13.1.2017, II, 4; Regno-doc. 3,2017,67. Il termine «discernimento» è, come si vede, già nel titolo. In questo documento preparatorio si legge che «prendere decisioni e orientare le proprie azioni in situazioni di incertezza e di fronte a spinte interiori contrastanti è l’ambito dell’esercizio del discernimento» Al n. II, 2 del medesimo documento sono indicate tre azioni, che rendono possibile il discernimento: riconoscere, interpretare e scegliere. Per queste cf. L. Piorar, «Riconoscere, interpretare e scegliere. Le tappe del discernimento», in La Rivista del clero italiano (2017) 5, 379-382. Si tratta, ovviamente, di una schematizzazione utile, ma non dell’unica possibile a scopo didattico e mnemonico.
[4] Questo non vuol dire affatto approvare tutto, o far finta di non vedere il male e il peccato, o anche non valutare il rischio di possibili distorsioni. Quello che si indica con l’espressione «sporcarsi le mani» non implica connivenza con la sporcizia e il peccato, ma vuol operare secondo il comandamento dell’amore, che ha il suo modello in Dio, che ha tanto amato il mondo da dare per esso suo Figlio. Nel suo Figlio Dio è davvero entrato nel mondo perché il mondo si salvi per mezzo di lui, ma non si è contaminato col mondo, perché il suo Figlio è l’Innocente (cf. Gv 3,16-17). Chi non fa così, non opera cristianamente: cf. G. Gennari, voce «Segni dei tempi», in Nuovo dizionario di spiritualità, a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Paoline, Roma 1982, 1416.
[1] A questo si accennerà più avanti nel commento a Gaudium et spes, n. 11. Non è possibile addentrarsi qui nel merito della questione, ma deve esser chiaro che nella ricerca della volontà di Dio nessun cristiano può prescindere dalla Chiesa. Il discernimento spirituale, di cui parliamo, infatti, non è solo operato nella Chiesa, ma lo è pure mediante tutti quei doni di grazie e di ministero che il Signore elargisce alla Chiesa e per la Chiesa con l’effusione del suo Spirito.
[2] «Mihi quidem placet, ut habeas Sanctorum contubernium, nec ipse te doceas»: Epist. 125, 9: PL 22, 1077. Si riconoscerà che questa dimensione relazionale, o comunitaria, o «sociale» del discernimento non è stata – e non è neppure oggi – sempre bene evidenziata in talune correnti spirituali e realtà ecclesiali. Per alcune analisi, che potrebbero anche essere attualizzate, cf. J.M. Castillo, «L’imitazione di Cristo e Cammino: dal discernimento privatizzato alla soppressione del discernimento», in Concilium 14(1978) 9, 61-68.
[3] Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 1971, 92.
[4] L. Casto, La direzione spirituale come paternità, Effatà, Cantalupa (TO) 2003, 40. Cf. pure A. Cencini, Dio della mia vita. Discernere l’azione divina nella storia personale, Paoline, Milano 2007.
[5] Non è possibile qui neppure introdurre il tema dell’accompagnamento spirituale. Mi limito a citare G. Sovernigo, Come accompagnare nel cammino spirituale. Laboratorio di formazione, Messaggero – Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2012.
[1] B. Hellinger, Ordini dell’amore. Un manuale per la riuscita delle relazioni, Urra-Apogeo, Milano 2004, 253.
[1] Cf. L’Osservatore romano 26.8.2016, 5 e La Civiltà cattolica 3989 (2016), 348-349.
[2] In questo discorso il papa parla del «discernimento del momento» come luogo del progresso nella fede e osserva che «il progresso della fede nella memoria e nella speranza è più sviluppato. Invece, questo punto fermo del discernimento, forse non tanto. Può persino sembrare che dove c’è fede non dovrebbe esserci bisogno di discernimento: si crede e basta…». Utile su questo punto J. Tolentino Mendonça, La mistica dell’istante. Tempo e promessa, Vita e pensiero, Milano 2014.
[1] Orazione della colletta della VII domenica del tempo ordinario. La formula è ispirata da 1Gv 3,18: «Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità».
[2] Traggo questa efficace espressione da un intervento di Francesco nel suo incontro coi parroci di Roma, il 2 marzo 2017.
[3] Cf. Rituale romano, Rito della penitenza. Introduzione, n. 10a.
[4] P.H. Kolvenbach, cit. da P. Schiavone, Il discernimento. Teoria e prassi, Paoline, Milano 2009, 35. Nella tradizione dei padri del deserto il discernimento è «sorgente e radice, principio e coesione di tutte le virtù»: Cassiano il Romano, A Leonzio Igumeno… Discorso sommamente utile a proposito del discernimento, in La Filocalia, a cura di Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, vol. I, Gribaudi, Milano 1983, 163. Questa convinzione è costante nella dottrina spirituale. In area occidentale la troviamo, ad esempio, in san Bernardo, che scrive: «discretio non tam virtus, quam quaedam moderatrix et auriga virtutum, ordinatrixque affectuum, et morum doctrix. Tolle hanc, et virtus vitium erit, ipsaque affectio naturalis in perturbationem magis convertetur, exterminiumque naturae», Serm. in Cantica cant. 49, 6: PL 183,1018; successivamente anche Baldovino di Canterbury indica il discernimento come «la madre di tutte le virtù, necessario a tutti nel guidare la vita, sia propria che altrui»: Tract. VI: PL 204, 466. San Tommaso conosce senz’altro la tradizione riguardo al discernimento spirituale, che riconduce alla virtù cardinale della prudenza, cui di conseguenza applica la denominazione di auriga virtutum. Cf. Super Sent., lib. 3 d. 33 q. 2 a. 5 co: «Respondeo dicendum, quod prudentia inter alias virtutes cardinales principalior est, et ad ipsam reducuntur omnes aliae quasi ad causam. Unde Antonius dicit, quod discretio quae ad prudentiam pertinet, est genitrix et custos et moderatrix virtutum». Così è oggi nella dottrina cattolica: cf. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1806.
[1] Utile per un primo approccio M. Costa si, Direzione spirituale e discernimento, AdP, Roma 2009, 196-212.