In morte di papa Francesco. Ha aperto un tempo - Speciale Francesco

La scena era imponente. Senza sfarzo, sobria, eppure maestosa. Francesco, il papa semplice, riceveva nel momento finale dell’addio un tributo magniloquente.
Alla nudità della bara di legno posta sul sagrato di San Pietro faceva da contrappunto il resto della scena. La macchia rossa dei cardinali contrapposta alla macchia nera dei potenti. L’avorio screziato dei paramenti vescovili, la tunica scialbata del clero e dei diaconi, di fronte ai toni grigio-scuri delle autorità minori, il puntiforme della gente non più regolato geometricamente dalle sedute che si allungava dal colonnato berniniano alle strade circostanti, lungo un percorso che portava alla sede della sua sepoltura in Santa Maria Maggiore.
Un’immagine quasi «barocca». La semplicità di linee che aprendosi infinitamente si complicano e non si risolvono. Una contraddizione interna alla Chiesa di Roma. Storicamente irrisolvibile. Una contraddizione che Francesco ha incarnato lungo il suo pontificato, tra istituzione e profezia, e che in lui si caricava anche delle contraddizioni storiche dell’America Latina, quella periferia del mondo da cui veniva. Una folla imponente (400.000 persone), a raccontare che Francesco ha parlato al cuore di molti, oltre il vecchio recinto della Chiesa.
Il consenso popolare ha un’influenza politica per la Chiesa e non si può ignorare nella scelta del suo successore. E poi i potenti della terra: quasi tutti presenti (mancavano i governi cinese, russo, israeliano, rappresentati da delegazioni minori). La loro immagine appariva ridotta, ridimensionata. Qual è nella realtà oltre il ruolo del potere. Anche il faccia a faccia tra Trump e Zelensky, su due sedie messe di lato, in San Pietro, prima dei funerali del papa, faceva risaltare la loro dimensione reale; la maestosità della basilica dei papi riequilibrava le dimensioni: rendeva a Zelensky l’autorità della parola, mentre Trump, sgraziato e inadeguato, era costretto ad ascoltare, e non poteva esibire la sua tracotanza come nello Studio ovale alla Casa bianca.
I funerali di un papa – Francesco è morto il 21 aprile, Lunedì dell’Angelo, dopo 12 anni di pontificato, e le esequie si sono celebrate il 26 – sono parte integrante del suo pontificato, della sua eredità. E proprio in quel momento, il contraddittorio e spesso contraddetto papa Francesco sembrava avere vinto. Sembra aver avuto ragione.
Un’eredità complessa
Egli ha cercato di aprire un tempo nuovo alla Chiesa. Al centro del suo magistero c’è stata l’indicazione riformatrice della grande tradizione che la Chiesa – di fronte alla crisi profonda della modernità, di fronte al radicale cambio d’epoca, alla rivoluzione artificiale dei linguaggi – debba tornare alle fonti della propria fede. Scommessa di ogni riformatore, poiché la fonte è distinta dalla tradizione, ma essa è tuttavia accessibile solo attraverso la tradizione e le tradizioni. Aporia irrisolvibile, che espone sempre nuovamente la Chiesa alla necessità di un esercizio storico dell’interpretazione dei tempi e del loro legame col divino. La tradizione è dunque un’operazione storica che sdoppiandosi pone il traditum fuori dalla storia, il che apre al rischio.
Francesco ha usato (in forma talora contraddittoria rispetto al governo della Chiesa) la categoria di misericordia come chiave interpretativa del rapporto tra Dio e la storia. Per papa Francesco vivere il Vangelo ha significato evidenziare che quell’annuncio ha toccato il centro della nostra umanità.
Vi è una corrispondenza profonda tra la nostra umanità e il centro divino dell’umanità di Cristo. L’annuncio della fede deve essere fatto risuonare nuovamente, come fosse la prima volta, andando oltre le forme culturali prevalenti che sin qui l’hanno espresso.
Nei numerosi documenti e interventi torna spesso la cifra letteraria del ritorno della Chiesa all’essenziale della propria fede. Al centro del Vangelo. A quell’umiltà amante di Dio (come l’ha definita in occasione del discorso alla curia romana il 22 dicembre 2016) che nell’incarnazione, nella morte e risurrezione del Figlio ha condiviso la nostra umanità. Questo ha toccato il cuore di molti. È sembrato un linguaggio udibile nella sua radicalità. E lo è stato, anche se in molti lo hanno inteso come legittimazione di se stessi.
Per fare questo occorre uno sguardo fiducioso, secondo il paradigma teologico della speranza, affidato interamente alla grazia di Dio. Grazia e incarnazione sono state le due figure teologiche portanti del pontificato di Francesco. Così non si può ridurre il cristianesimo alla sua sola forma dottrinale, ma esso deve riguardare l’insieme della vita, di ogni vita, nelle sue espressioni e nelle sue relazioni nei diversi contesti culturali e ambientali.
Per questo egli ha privilegiato una strada che da un approccio cumulativo, unilateralmente preoccupato di dare ragione sempre, in ogni punto dell’enunciazione e della comunicazione, del contenuto dogmatico della fede cristiana, passasse a una concezione processuale e relazionale, incentrata sull’offerta del Vangelo di Dio che implica il riconoscimento della libertà. La parola di Dio procede nelle coscienze. E ogni epoca, ogni tempo – è l’argomento di Marrou – è in relazione immediata con Dio. Da qui scaturiscono conseguenze profonde sul piano della figura della Chiesa e del suo rapporto col mondo.
Il forte impulso del magistero di Francesco all’uscita della Chiesa «da se stessa, verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano» (veglia di Pentecoste del 2013) è stata un’apertura fondamentale, eppure rischiosa e necessariamente incompiuta, perché l’istituzione fortemente sedimentata rischia di reagire alla provocazione di Francesco o chiudendosi settariamente in se stessa, invocando un clericalismo puro, o aprendosi in forma mondana, secondo una versione di clericalismo secolarizzato, che vuol piacere al mondo.
Lo stile del Vangelo della tenerezza
La Chiesa deve essere umile e povera in spirito, secondo il mandato delle Beatitudini. L’umiltà è infatti la rinuncia a esistere al di fuori di Dio. Questo stile è coestensivo a tutto quello che si è, e a quanto si ha. Da tale sentimento nasce la necessità di tutto chiedere, come chiede un uomo che conosce la sua indigenza. Da tale sentimento nasce la necessità di tutto dare, come dà chi sa di avere ricevuto tutto. Sentire che tutto viene da Dio e dalla sua grazia è la sola via che consente alla Chiesa di crescere, di essere ancora credibile, attraente per gli uomini del nostro tempo.
Il papa ha cercato e voluto quell’umanità che è l’impronta sconvolgente di Dio nei meandri della nostra storia. Poiché è da quella umanità oscura e sofferente, che assume volta a volta i volti della povertà, dell’infelicità, dello sconforto, della malattia, della libertà negata, della persecuzione, che occorre ripartire. Dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium all’enciclica Fratelli tutti – i due testi più importanti del pontificato – questo tratto risulta centrale. È da quella umanità che noi definiamo il nostro rapporto con Dio. È da quella umanità che promana il concetto di dignità. È da quella umanità che il mondo attuale, globalizzato anche nell’indifferenza egoista, deve ripartire se vuole evitare pericolosi riduzionismi antropologici.
Se il nostro mondo tematizza e accetta la «cultura dello scarto» umano, se rinuncia al primato socialmente esigente della dignità della persona, finirà per distruggersi. È da questo fondamento cristologico che la fraternità può essere affermata. E proprio questo fondamento necessita di essere approfondito se, fuori da ogni sincretismo, la fraternità avviene nel segno della croce e della risurrezione.
La sinodalità, via per la riforma della Chiesa
L’impulso del magistero di Francesco a far uscire la Chiesa dalla tentazione di immaginare che la cura di sé come istituzione e come semplice conservazione dottrinale costituisca da sola una pratica virtuosa di resistenza alla corruzione di questo tempo, equivale a dire che quella tentazione è una forma di narcisismo che ripete in sé i vizi del tempo. Questo intendimento si è scontrato con le difficoltà del governo della Chiesa, della ridefinizione in alcuni punti del suo magistero.
Dopo l’incremento continuo della centralità della Chiesa di Roma nel postconcilio, soprattutto col pontificato di Giovanni Paolo II, Francesco ha cercato un’inversione di tendenza, nel timore di un’estinzione di ogni tensione creativa e di ogni identità delle Chiese locali. Non sempre gli è riuscito, perché egli ha vissuto nella contraddizione non risolta di una sussidiarietà imposta dall’alto. Difficoltà che hanno persino imposto talora quasi un rovesciamento del nuovo schema, portando a forme di accentramento decisionale ancora più forti (si pensi al numero altissimo di provvedimenti motu proprio).
L’ecclesiologia di papa Francesco, in quanto ecclesiologia di comunione, ha cercato di individuare un nesso preciso tra sinodalità e primato. Il metodo sinodale è stato la risposta che il pontificato ha convintamente proposto, ma l’esperienza preziosa messa in atto ha anche evidenziato tutte le difficoltà di questa operazione, forse troppo slegata da quell’altro tratto fondamentale, evidenziato dal concilio Vaticano II, che fa capo al modello della collegialità.
Sinodalità è il termine preferito in Oriente: esso si riferisce principalmente alla natura spirituale profonda della Chiesa, costituita da una molteplicità di esseri umani riuniti dall’unico e indiviso Spirito di Dio.
Collegialità ha una radice occidentale e proviene dall’eredità del diritto romano, dove collegio indica una società di eguali, motivo per cui la minoranza conciliare diede allora battaglia per evitare l’idea e la pratica di una collegialità effettiva. Ora, forse, si dovrebbe lavorare intorno ai concetti di collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità). Concili e sinodi, generali e locali, hanno ritmato la vita della Chiesa, con un oblio (salvo casi particolari) che ha riguardato soprattutto il XIX e il XX secolo, fino al concilio Vaticano II.
Nella tragedia imprevedibile della storia
Il tema del distacco della Chiesa dalle ideologie è stato un altro punto centrale del suo magistero. Non solo quelle direttamente politiche (il ritorno dei nazionalismi e la crisi della globalizzazione), ma anche quelle culturali, antropologiche e religiose. Persino nel Vangelo. Ha ripetuto più volte: «Gli ideologi falsificano il Vangelo: ogni interpretazione ideologica, da qualsiasi parte venga, è una falsificazione del Vangelo».
Un intento che – se rispondeva alle crisi storiche del passato e alla loro permanenza in molte situazioni, pur nella sua necessaria e non scontata riaffermazione da parte di un papa – è stato come terremotato dai ripiegamenti della storia stessa. Si pensi alle tragedie delle due guerre (Ucraina e Medio Oriente), che hanno segnato l’ultima fase del pontificato, manifestando le difficoltà irrisolte della riflessione della Chiesa sui temi della pace e della guerra, dell’ingerenza umanitaria.
Un mondo a pezzi, contraddistinto da una fase inedita di disordine internazionale, di fronte al quale le democrazie liberali sembrano soccombere e gli autoritarismi prendere il sopravvento, vede la morte di un papa che ha aperto molte strade alla Chiesa, senza poterne percorrere il cammino. Perché il tempo è superiore allo spazio. Papa Francesco lascia un’eredità forte e ineludibile. Un’eredità aperta e incompiuta.
Il prossimo papa non potrà prescinderne e tuttavia dovrà scegliere la continuità possibile.
Gianfranco Brunelli