Bibbia e spiritualità. Il dolore non ha l’ultima parola
Con quali parole nella Bibbia si esprime il grido del dolore? La serie di passi che qui viene proposta muove da due constatazioni: che «il lessico del dolore non è mai solipsistico anche quando lo si ritiene inesprimibile», e che davanti al dolore la parola biblica – così come quella filosofica, poetica e artistica – risponde alla ricerca di dargli un senso. Cui va aggiunta un’avvertenza: è una serie «parziale», non mira «ad alcuna completezza»; piuttosto «la prima forma di commento si rivela nella scelta dei brani e nell’accostarli l’uno all’altro». Nel libro dell’Esodo l’espressione del dolore è affidata a un grido, «inarticolata protesta vocale di chi soffre troppo»; nelle Lamentazioni a un articolato linguaggio poetico, non profetico: vero e proprio «alfabeto del dolore». Il libro di Giobbe – personaggio dichiaratamente letterario – «sbaraglia gli altri (…) come riferimento privilegiato per parlare del soffrire». La domanda è «perché il giusto soffre al pari dell’empio?». Non va letto come una «tragedia»: il suo intento è quello di «non lasciare alla sventura l’ultima parola». Nei canti del servo del Signore del libro di Isaia la prospettiva muta radicalmente: ci si domanda qui «se i giusti siano nelle condizioni di diventare strumento di salvezza per tutti». Nel Vangelo di Matteo i riferimenti ai canti del servo compaiono in relazione a episodi di guarigione: qui «la parola diventa davar “parola-fatto-evento”; [Gesù] si è “caricato delle malattie” perché guarisce, e guarisce perché “si è caricato delle malattie”».
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