A
Attualità
Attualità, 8/2025, 15/04/2025, pag. 253

La coscienza indignata

Resistere ed essere solidali

Piero Stefani

Nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 si afferma che tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità. 

Nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 si afferma che tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità. In nessuna delle due più celebri Dichiarazioni precedenti, quella d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) e quella dei «diritti dell’uomo e del cittadino» promulgata nella fase iniziale della Rivoluzione francese (1789), si fa riferimento a qualche facoltà umana. Va inoltre rilevato che la Dichiarazione del 1948 chiama in causa non solo la ragione ma anche la coscienza. Per comprendere il ruolo attribuito a quest’ultimo termine, conviene dare un’occhiata al processo che condusse alla formulazione finale del celebre testo.

Una precedente stesura affermava: «Tutti gli uomini sono fratelli. Come esseri dotati di ragione e membri di una sola famiglia, essi sono liberi e uguali in dignità e diritti». Le differenze più evidenti tra le due formulazioni sono l’introduzione del termine «coscienza» e il passaggio dalla constatazione «tutti gli uomini sono fratelli» al «dover essere» costituito dall’«agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità».

Ci si chiede: tra i due nuovi fattori c’è un legame? Per rispondere occorre guardare a che cosa s’intende, in questo contesto, per coscienza. Si allude a un tribunale interno in grado di discriminare tra bene e male?

Kant, ispirandosi a Paolo, scrisse: «La consapevolezza che nell’uomo esiste un tribunale interno (“davanti al quale i suoi pensieri si accusano o si giustificano a vicenda” [Rm 2,15]) è la coscienza. Ogni uomo ha una sua coscienza e si sente osservato e minacciato e in generale tenuto in rispetto (che è una stima unita timore) da un giudice interno, e questa potenza che veglia in lui non è qualcosa da lui arbitrariamente costruita ma è inerente al suo stesso essere. Essa lo segue come una sua ombra, quando egli tenta di fuggirle».1

Se fosse questa l’accezione primaria, così prossima al detto «mi rimorde la coscienza», il legame con «l’agire gli uni gli altri in spirito di fraternità» sarebbe debole, o almeno non così diretto da giustificare il passaggio dalla constatazione d’essere fratelli al dover essere dell’agire da autentici fratelli.

Se prendiamo in considerazione il dibattito avvenuto in seno alle Nazioni Unite, si dischiude un’altra pista.2 In quella sede Peng-chun Chang (Cina) propose d’inserire, accanto al tema della razionalità, anche quello del «sentimento che esistono altri uomini». In un dibattito risalente all’estate del 1947, Chang parlò di «two-men mindedness» (espressione che si potrebbe rendere con la perifrasi «disposizione mentale che esiste l’altro uomo»), d’«empatia» e di «consciousness of one’s fellow men».

In cinese, come precisa Pier Cesare Bori, ren («umanità») è scritto con il carattere che significa «uomo» con l’aggiunta del segno numerico «due». Si comprende quindi il motivo per cui Chang parlò di «two-men mindedness». Alla fine, dopo varie ipotesi, si optò per rendere questi concetti con il termine «coscienza».

Alle spalle della proposta di Chang si trovava il magistero del filosofo confuciano Mencio. Il suo pensiero fu contraddistinto da una visione sostanzialmente ottimistica della natura umana: «Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all’altrui sofferenza (…) la ragione (…) è la seguente: supponi che vi siano delle persone che all’improvviso vedono un bambino mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene tutti proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione.3 Questa reazione non dipende certo dall’esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere elogiati da vicini e amici, e neppure dalle grida del bambino. Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell’indignazione, della deferenza e dell’acquiescenza e del senso di ciò che è giusto. I sentimenti della partecipazione e della compassione sono germogli della benevolenza, i sentimenti della vergogna e dell’indignazione sono germogli della rettitudine, i sentimenti della deferenza e dell’acquiescenza sono germogli delle tradizionali norme di comportamento, il senso di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto è il germoglio della saggezza.4 Possedere questi quattro germogli, ma sostenere di non essere in grado di farli crescere, equivale a menomare se stessi».5

Diventare umani è un cammino

Nel contesto storico della Dichiarazione s’intende per coscienza non il «tribunale interiore» bensì la percezione empatica dell’altro; è un sentimento che non si oppone alla virtù razionale ma che, al contrario, rappresenta la componente affettiva presente in ogni essere umano che la ragione stessa ha il dovere di coltivare. Si capisce perciò l’importanza di passare da «tutti gli uomini sono fratelli» al dover essere di «agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità».

La fraternità non è un dato, è la crescita dei comuni germogli; per noi occidentali, si tratta soprattutto dei primi due, rispettivamente quelli della partecipazione e della compassione, e della vergogna e dell’indignazione. La prima coppia alimenta la solidarietà, la seconda la ricerca della giustizia. Chi è privo di questi sentimenti non è uomo. Qui vale quanto si è detto per la fraternità: anche diventare umani è un cammino e non già un dato di fatto. Affermare che una persona umana è umana non è una tautologia.

È constatazione inoppugnabile che tutti gli esseri umani nascono bisognosi d’aiuto. Nelle varie dichiarazioni sembra che non si parta mai da questa basilare presa d’atto. Se siamo ancora vivi significa che qualcuno si è preso cura di noi. Si nasce fragili e indifesi, non già liberi e uguali. Il germoglio collegato alla sofferenza e al bisogno altrui costituisce una forma di memoria concreta della cura che ci è stata riservata.

Anche qui ci è chiesto di passare dall’essere al dover essere. L’aver ricevuto cure è inscritto nelle fibre della nostra esistenza, perciò, per essere conformi a quel che siamo, occorre preoccuparsi di chi è nel bisogno.

In questa luce anche il mondo animale può diventare una spinta per realizzare l’umanità che è in noi. Fulco Pratesi era un appassionato cacciatore e si trasformò in zelante difensore della vita animale quando, nel corso di una battuta, si lasciò permeare dalla vista di un’orsa che accudiva i propri piccoli.

Qui non si tratta di etologia, non si sta compiendo una descrizione fenomenologica della vita altrui. Non è neppure la trascrizione etica della constatazione evoluzionistica secondo la quale, se non ci fossero altri esseri viventi, non ci saremmo neppure noi. Si è semplicemente di fronte alla decisione di mutare il proprio stile di vita. Lo sguardo diventa occasione per una scelta etica.

In simili circostanze prende corpo il primato universale del prendersi cura assunto sia come forma di fedeltà al proprio essere, sia come criterio di azione del proprio dover essere.

L’antitesi all’indifferenza

Anche il sentimento d’indignazione è chiamato a diventare un germoglio. Siamo di fronte a uno stato d’animo che si presenta come antitetico all’indifferenza e di conseguenza precondizione indispensabile della solidarietà. Occorre lasciarci scuotere dall’accaduto e trarne le debite conseguenze. I conflitti, i contrasti, le sopraffazioni quotidiane di piccola o enorme portata possono trasformarsi in un paradossale kairos che induce a non giudicare inevitabili gli orrori annidati nel presente e a custodire e rianimare le scintille di luce racchiuse nelle tenebre.

Italo Calvino scrisse in proposito parole memorabili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio».6

Parole quasi perfette, vi è una sola precisazione da introdurre: nel secondo caso il verbo più giusto non è «non soffrire», bensì «resistere». Una delle realtà che in mezzo all’orrore non è preda delle spire infernali è l’indignazione, lo è nella sua qualità di robusta antitesi all’indifferenza.

Un detto chassidico afferma che il vero esilio dei figli d’Israele in Egitto cominciò quando iniziarono ad abituarvisi. Ne consegue che, per la maggior parte della nostra esistenza quotidiana, viviamo tutti in esilio.

Solo quando si dà spazio a un sussulto di indignazione avvertiamo la pochezza e la miseria della nostra assuefazione e della nostra indifferenza. Allora l’indignazione si congiunge alla vergogna suscitata dal nostro impudico vivere quotidiano. È un abbraccio destinato a dare frutti.

 

1I. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1970, 298.

2
Cf. P.C. Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 89-100.

3Tutti termini contraddistinti dal radicale cuore.

4Sono le quattro virtù confuciane.

5Mencio II, 66, cit. in Bori, Per un consenso etico tra culture, 94s.

6I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, 170.

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

Leggi anche

Attualità, 2025-10

Donne e sepoltura

Presenti e assenti nella Chiesa

Piero Stefani
Il rapporto ritualizzato delle donne con la morte altrui è vicenda antica. Lo si trova in tempi e luoghi remoti. Il pianto e il lamento rituali erano pratiche comuni. In Egitto si ricordano le lamentazioni di Iside e di sua sorella Nefti sul corpo del morto Osiride. In Babilonia e nell’area semitica occidentale quelle per la morte del giovane dio Tammuz (culto così diffuso da giungere...
Attualità, 2025-10

G. Sale, D. Neuhaus, Israele e Palestina

Un conflitto senza fine?

Piero Stefani

Il volume raccoglie una serie di articoli pubblicati su La Civiltà cattolica (2010-2024) con una successione tematica. Essi sono disposti in tre blocchi.

Attualità, 2025-8

I rapporti con l'ebraismo: un'amicizia tesa - Speciale Francesco

Piero Stefani
I rapporti di papa Francesco con il mondo ebraico sono schematizzabili lungo tre filoni principali: la prassi dialogica e le visioni teologiche che la innervano; le riflessioni sulla Shoah; i rapporti con lo Stato d’Israele, fattisi via via più complessi a seguito delle violente reazioni israeliane ai terribili fatti del 7 ottobre 2023. Com’era nello stile di Bergoglio, i tre orizzonti...