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Attualità
Attualità, 22/2025, 15/12/2025, pag. 676

Il Te Deum

Appuntamento di fine anno

Piero Stefani


Tutti gli anni in varie occasioni, ma immancabilmente il 31 dicembre, viene recitato il Te Deum. Il testo, diventato simbolo del ringraziamento, è antico; tradizionalmente attribuito a san Cipriano, leggendariamente considerato composto a quattro mani da sant’Ambrogio e sant’Agostino all’atto del battesimo di quest’ultimo, storicamente ascritto a Niceta di Remesiana.

Per la sua natura celebrativa, era destino che, lungo i secoli, l’inno venisse musicato in molte occasioni. La sobrietà del gregoriano non si confaceva a circostanze fastose. La composizione fu occasionata più volte da qualche vittoria bellica. Nella seconda metà del Novecento, negli orecchi di intere generazioni risuonò l’incipit del Te Deum di Marc-Antoine Charpentier, scelto come sigla dell’Eurovisione.

Il brano fu probabilmente eseguito la prima volta nel 1692 per celebrare una vittoria militare riportata dalla Francia del Re Sole. Il legame tra una battaglia vittoriosa e l’inno di ringraziamento divenne tanto paradigmatico da trovare ospitalità anche all’interno della Tosca pucciniana, una collocazione che svela, forse inconsapevolmente, l’effimera teatralità di siffatti ringraziamenti.

Vi è un indubbio legame tra i potenti e il Te Deum. Nella parte terminale della sua carriera, lo musicò anche Franz Joseph Haydn. Il grande compositore, dopo l’esperienza londinese, tornò a essere, a pieno titolo, Kappellmeister della nobile famiglia degli Esterházy.

Nonostante questa sua posizione, non fu nelle condizioni di declinare l’invito a musicare l’inno giuntogli nientemeno che dalla moglie dell’imperatore Francesco II. Tuttavia, gli Esterházy furono in grado di beneficiarne a propria volta: la composizione fu eseguita a Eisenstadt nel 1800 per festeggiare la visita di Lord Nelson, il trionfatore della battaglia di Abukir.

La musica, però, la vince sui potenti di questo mondo. La meravigliosa, scorrevole compattezza del Te Deum haydniano sfocia nella sezione fugata imperniata sul «non confundar in aeternum», capace di comunicare, con straordinaria efficacia, la salda fiducia nel conseguimento della meta. Nella chiusa si comprende perché la precedente espressione in te Domini speravi sia coniugata al passato. La certezza di non essere confusi in eterno attesta che la speranza ha portato a termine il proprio compito. Senza essere trionfalistico, il breve capolavoro termina all’insegna della vittoria più autentica e imperitura.

Avanzando nel secolo XIX, il sentire soggettivo dei musicisti guadagna sempre più spazio. Attorno al 1885 il compositore austriaco Anton Bruckner dedicò il suo Te Deum ad A.M.D.G.1 «in segno di gratitudine per avermi portato a Vienna sano e salvo, attraverso tanta angoscia».

Bruckner definì, non a torto, la composizione il suo «orgoglio», forse la denominò in tal modo anche perché fu un mezzo per placare le sue turbe psichiche. Sia o non sia questa la ragione, resta certo che il compositore, fervente cattolico, scrisse il «non confundar» finale all’insegna di una fede trionfante: il tormento della sua anima, come sembra suggerire Mahler,2 si era ormai purificato nel fuoco della musica.

Non molti anni dopo, il «laico» e ottuagenario Giuseppe Verdi ci trasporta in tutt’altro clima. L’ermeneutica dell’inno da lui proposta ci svela aspetti in sintonia con i nostri incerti giorni. I due brani più importanti dei Quattro pezzi sacri, il Te Deum (1895) e lo Stabat mater (1897), sono entrambi contraddistinti da un finale che s’inabissa in una vera e propria oscurità sonora e spirituale. L’ultima nota del Te Deum, un «mi» profondo, sigilla la chiusa strumentale posta subito dopo il «in te Domine speravi» cantato prima dal soprano e poi dal coro.

Verdi, dopo aver fatto intonare il «non confundar in aeternum», compie infatti un passo indietro e ripropone le parole che coniugano al passato la speranza nel Signore. Qui il compimento è lungi dall’essere conseguito; anzi sembra che, collocato alla fine e detto al passato, lo sperare sia prossimo a estinguersi, ammesso che non l’abbia già fatto.

Che l’inno sia da lui inteso in modo molto diverso dal solito, ce lo conferma una lettera dello stesso Verdi: «Io conosco alcuni Te Deum antichi, ne ho sentiti altri pochi moderni e non sono stato convinto dell’interpretazione (a parte il valore musicale) data a quella Cantica [sic!]. Questa viene ordinariamente eseguita nelle feste grandi, solenni, chiassose, o per una vittoria, o per un’incoronazione ecc. Il principio vi si presta, che cielo e terra esultano: Sanctus, Sanctus, Deus Sabaoth; ma verso la metà cambia colore ed espressione. Tu ad liberandum; è il Cristo che nasce alla Vergine ed apre all’umanità Regnum coelorum. L’umanità crede al Judex venturus; lo invoca: Salvum fac, e finisce con una preghiera: Dignare in die isto, commovente, triste, fino al terrore. Tutto questo non ha nulla a fare colle vittorie e colle incoronazioni (...)».3

Rendere grazie a Dio, oggi

Che significa recitare il Te Deum alla fine di ogni giro della terra attorno al sole? Perché farlo anche quando sul nostro pianeta nel corso dell’anno sono capitati eventi catastrofici? La ragione di questa prassi non è di ringraziare Dio per quanto di negativo vi è stato; tanto meno è dirgli grazie per vittorie conseguite sui campi di battaglia.

Lo scopo più autentico è di celebrare il Signore perché siamo tuttora in grado di cantare le sue lodi. Lo stupore è che ci siamo ancora, nonostante il fatto che nulla, nelle nostre esistenze, sia nelle condizioni di assicurare un simile esito. Più che a veri o presunti trionfi storici, conviene guardare alla precarietà. La vita presa in se stessa garantisce solo in modo cogente d’essere destinata a finire. Molte sono le cause da cui dipende il termine, incertissimo ne è il tempo, sicuro e fatale è che esso, secondo natura, sopraggiunga. Il Te Deum di fine anno contiene un’eco dell’antico cantico di Ezechia, scampato dalla morte, nel quale è negato al mondo infero (sheol) di rendere grazie a Dio perché la lode è di spettanza dei vivi: «Il vivente, il vivente ti rende grazie, come io faccio quest’oggi» (Is 38,19).

Una formula liturgica ebraica, recitata sia quando giungono le feste, sia quando si mangiano le primizie della terra, benedice il Signore perché ci ha fatto vivere, ci ha consolidati e ci ha fatti giungere a questo tempo. Niente di quanto esiste trova in se stesso una inscalfibile consistenza. In un certo senso, la benedizione ebraica presuppone la consapevolezza che la vita sia un soffio destinato a venir meno.

È a partire da questo disincanto che si benedice colui che ci ha condotti fino a ora. Soltanto la sua cura poteva tanto. La benedizione è il canto dei vivi e il Te Deum dovrebbe esserlo altrettanto. Nessuno che considera un’ovvietà continuare a sussistere è nelle condizioni di coglierne il senso più profondo. La lode dovrebbe nascere dall’essere consci della fragilità delle nostre vite.

Questa consapevolezza consegna, di riflesso, all’empietà la moltitudine di Te Deum cantati per ringraziare per vittorie conseguite attraverso la morte, fatto connaturato a quanto avviene su ogni campo di battaglia.

La gratitudine autentica

Nell’esistenza quotidiana, per esprimerci in un linguaggio conforme al succedersi comune dei giorni, la persona ottimista è spesso insidiata dalla delusione. Chi molto attende da se stesso, dagli altri, dalla società e dalla storia, più e più volte resta smentito. Se i rovesci si susseguono gli uni agli altri, il suo orizzonte, da roseo, si capovolge in cupo. La depressione varca la soglia dell’animo, accompagnata, non di rado, da un’infida compagna: la propensione a colpevolizzare chi lo ha deluso.

Invece colui che, pur resistendo attivamente al disgusto del vivere, sa che il peggio è sempre accovacciato alla propria porta, non di rado si trova, con meraviglia, nelle condizioni di prendere atto che nella vita si dischiudono più possibilità positive di quelle da lui preventivate. La persona che non mette in conto d’essere ringraziata gioisce della gratitudine più di chi presuppone che la riconoscenza gli sia dovuta: in quest’ultimo caso, il ringraziamento è accolto come un tributo obbligatorio, mentre la sua mancanza suscita rancore.

Il Signore che ci ha creati e ben ci conosce non attende molto da noi: sa con quale pasta ci ha plasmati. Se ci ha fatto giungere la sua Parola e i suoi comandamenti e se ha inviato suo Figlio sulla terra è per far sì che le nostre vite non si dissipino; non l’ha fatto perché ha bisogno del nostro grazie. Per questo amiamo pensarlo che gioisca quando noi esseri poveri, sofferenti e spaesati, lo lodiamo e lo ringraziamo per il nostro semplice essere vivi.

Dio non colpevolizza i Giobbe di ieri e di oggi costretti a sopportare con spalle gracili pesi troppo gravi e s’intenerisce quando i suoi figli gli dicono grazie ripetendo al termine di ogni anno: «Te Deum laudamus: te Dominum confitemur».

 

1 Ad maiorem Dei gloriam.

2 Sulla copia personale della partitura Gustav Mahler cancellò «für Chor, Soli und Orchester, Orgel ad libitum» e al suo posto scrisse: «Für Engelzungen, Gottsucher, gequälte Herzen und im Feuer gereinigte Seelen!» «per lingue di angeli [cf. 1Cor 13,1], cercatori di Dio, cuori tormentati e anime purificate dal fuoco».

3 Lettera di Giuseppe Verdi a Giovanni Tebaldini, 1.3.1896.

Tipo Parole delle religioni
Tema Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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