Il girasole
A Simon Wiesenthal siamo grati per il Centro ebraico di documentazione sulle persecuzioni che gli ebrei subirono in Germania ed Europa prima e durante la Seconda guerra mondiale. Lui era ebreo di Bučač in Galizia, a sud di Leopoli.
Perseguitato prima dai russi e poi dai tedeschi. Internato in 13 campi di prigionia e concentramento, liberato nel 1945 da quello di Mauthausen. Grazie a lui un numero straordinario di nazisti è stato giudicato in faccia al mondo e condannato, ciascuno per le proprie personali responsabilità. È più famoso per Gli assassini sono tra noi, dove racconta con uno stile secco, documentaristico, la ricerca ostinata dei criminali nazisti. Ma qualche anno dopo pubblica un altro libro, un racconto molto personale, intimo, Il girasole (Garzanti, Milano 1970, traduzione di Maria Attardo Magrini).
È diverso e particolare anche nella struttura. Nella prima parte racconta la storia di un incontro. Siamo nel 1942 e lui, Wiesenthal, è prigioniero in un lager nazista vicino a Leopoli. Un gruppo di ebrei viene portato a lavorare all’ospedale militare tedesco della città. Si tratta di trasportare rifiuti infetti. Un’infermiera tedesca lo chiama, lui fra tutti, e lo porta al cospetto – chissà perché viene in mente questa parola in qualche modo solenne e regale – di un giovanissimo soldato tedesco, cieco a causa di una ferita di guerra, che sta morendo.
È chiarissimo che sta morendo. I due non si conoscono come persone, solo come categorie. Uno è tedesco, SS, oppressore, Übermench; l’altro è ebreo, prigioniero, Untermench. Il giovane tedesco che non può vedere l’ebreo, ma in realtà ne intuisce tutti i movimenti emotivi, gli racconta di essere colpevole di una strage che non si può quasi rappresentare, perché incarna lo sprofondo totale della nostra umanità.
La racconta per filo e per segno, malgrado Simon Wiesenthal provi in tutti i modi a sottrarsi. Alla fine il giovanissimo soldato, figlio di una famiglia bella, buona, sinceramente antinazista, che era entrato spontaneamente nelle SS, e si era innamorato come solo i ragazzi possono fare, chiede il suo perdono. Suo in quanto rappresentante di una categoria, parte di un popolo che i nazisti stanno cercando di annientare.
Simon Wiesenthal se ne va. Esce dalla stanza e torna al suo campo di detenzione e sterminio. Vorrebbe non avere più niente a che fare con questo ragazzo, però non ci riuscirà.
Si sa che Simon Wiesenthal non crede in Dio, ma al campo c’è Josek, un personaggio «profondamente religioso. La sua fede poteva tutt’al più essere ferita dalle circostanze in cui vivevamo, e dalle provocazioni aperte o velate degli altri, ma non ne fu mai veramente scossa». Wiesenthal lo chiamava «rabbi», però «non era un rabbino, soltanto un commerciante, ma la fede riempiva tutta la sua vita. Sapeva di essere superiore a noi, sapeva che la nostra povertà di fede ci faceva ancora più poveri. Per questo cercava continuamente di darci qualcosa della sua ricchezza, per renderci più forti» (7).
Difficile pensare a una definizione più bella di un uomo di fede: un uomo che trabocca di una ricchezza che vuole condividere senza imporla. Bellissimo.
È a lui che Wiesenthal si rivolge appena rientra al campo. Gli racconta la storia dell’incontro, ancora scosso e anche infastidito, perché lì si tratta di sopravvivere ora per ora e questo incontro invece sposta il centro in un punto così estremo, così assoluto che non si sa nemmeno come afferrarne il capo. E la risposta di Josek è sorprendente: «Sai, mentre raccontavi del tuo incontro con la SS, sulle prime ho avuto paura che tu gli avessi perdonato. Perché lo avresti fatto in nome di uomini che non ti avevano mai autorizzato a tanto. Quello che fanno a te personalmente puoi dimenticarlo, se vuoi perdonarlo: devi renderne conto soltanto a te stesso. Ma credimi, sarebbe stata una grave colpa rispondere del dolore altrui» (68).
Wiesenthal ha inviato questo racconto a studiosi, teologi, storici, scrittori e ha chiesto un parere. Che viene riportato nella seconda parte del libro. Quaranta brevi riflessioni sul tema del perdono. Ma a offrirle sono persone come Herbert Marcuse, Jacques Maritain, Gabriel Marcel, Martin Niemöller.
È prezioso e rarissimo trovare tanta, come dire, qualità di pensiero in poche pagine. «Davvero eravamo fatti tutti dello stesso fango? Se era così, perché alcuni diventavano assassini e altri vittime?» (7).
C’è la mamma del soldato SS che «era certo una buona donna, una buona madre e una buona moglie. Certo aveva avuto spesso compassione degli oppressi. Ma la preoccupazione di salvare la sua piccola felicità era stata più importante» (95). La piccola felicità della sua famiglia, in nome della quale non aveva chiesto troppo, non aveva protestato troppo, non si era ribellata. Quanti di noi, oggi.
E poi c’è lo scrittore Stefan Andres che limpidamente risponde che «certo, se crediamo in Dio, dobbiamo perdonare: ma dobbiamo anche opporci con gli scarsi mezzi della nostra giustizia terrena alle forze del caos» (107). C’è il vescovo von Bluyssen che ripete in modo ossessivo che quello che davvero conta è che mai e poi mai dovrà accadere che una persona sia posta di fronte a una scelta così, e che un’altra persona sia irretita in ideologie così malvagie e che un gruppo si dichiari «razza di superuomini» (113).
E c’è Primo Levi che dà voce a un piccolo sospetto, là in fondo, che anche chi legge forse ha avuto ma l’ha ricacciato per la paura di sembrare inumano tanto quanto. E cioè il sospetto che il giovane tedesco SS «senza la paura della morte imminente, si sarebbe comportato in tutt’altro modo (...) Il suo gesto di “far chiamare un ebreo” (appare) infantile ed insolente» (171).
C’è il mondo in questo libro. Il nostro mondo.