Il giubileo. Tra tempo e spazio
Letto in chiave storica, il giubileo biblico è un’istituzione che, con ogni probabilità, non ebbe mai luogo; in ogni caso è certo che da lunghissimo tempo mancano le condizioni perché lo si effettui. Ci troviamo di fronte a una dimensione più ideale che reale. Il riferimento base è rappresentato da un testo e non da un fatto.
Si tratta del 25o capitolo del Levitico; una pagina – non sembri un paradosso – dal carattere a un tempo utopico e giuridicamente molto dettagliato. Il periodo delle 7 settimane di anni che scandisce il giubileo è definibile, in particolare per chi si trova in condizioni disagiate, come una specie di pellegrinaggio nel tempo. Nel 50o anno si ripristina la situazione precedente: «Ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Lo schiavo ebreo nell’anno giubilare «se ne andrà da te insieme ai suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Lv 25,41). C’è un ritorno, non già uno sviluppo.
A rendere possibile la reintegrazione nella condizione precedente è soltanto il trascorrere del tempo. Il giubileo non prevede spostamenti collettivi in qualche luogo particolare; né vi è un riferimento al Tempio. Il 50o anno non ha nulla da spartire con i «canti delle salite» (Sal 120-134) e, tanto meno, con le tre feste di pellegrinaggio (Pasqua, Settimane, Capanne; cf. Dt 16,16s). Gerusalemme non è meta giubilare.
Il giubileo biblico ha un carattere stanziale. Un suo irrinunciabile fondamento sta nel fatto che la terra d’Israele è del Signore; di conseguenza, il popolo risiede su di essa come forestiero e ospite (cf. Lv 25,23). Non è necessario spostarsi in altri luoghi per sentirsi stranieri; né si è possessori del paese per il semplice fatto d’avere nelle proprie mani qualche appezzamento di terreno.
Una visione esplicitata dalla tradizione giudaica successiva proietta il giubileo in un avvenire «messianico». Secondo Mosè Maimonide esso non vige che in terra d’Israele, purché ogni singola tribù sia stanziata nel suo territorio (cf. Gs 13–19) e non vi siano contrasti tra loro.1 Ci si misura con una situazione storicamente mai avvenuta. Per Maimonide il tempo del ripristino messianico non è scandito dal succedersi misurabile di 7 settimane di anni; il suo avvento avrà luogo in un futuro imprecisato. Quando sopraggiungerà, la situazione sarà contraddistinta da un’ordinata stanzialità territoriale. In definitiva, la visione biblica e giudaica del giubileo è saldamente legata sia al tempo sia allo spazio (la terra d’Israele), ma non prevede alcun pellegrinaggio.
«Pellegrini di speranza» (motto giubilare) è il titolo anche della XXXVI Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, il 17 gennaio 2025. In esergo del sussidio redatto dalla CEI ci sono le parole: «È un giubileo, esso sarà per voi santo» (Lv 25,12).
Il breve messaggio dei vescovi scritto per l’occasione si chiude con questa frase: «Ci auguriamo che l’anno giubilare, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, sia la rinnovata occasione, per cristiani ed ebrei, di ritornare ai testi biblici letti insieme fraternamente secondo le proprie tradizioni». Il più ampio messaggio dei rabbini d’Italia chiosa alcune caratteristiche del giubileo biblico, ponendo l’accento soprattutto sulla giustizia sociale e ignorando, coerentemente, ogni riferimento al pellegrinaggio.
Il giubileo cattolico non è quello biblico
Perché allora in ambito cattolico, a partire dalla sua istituzione nel 1300, il giubileo implica l’effettuazione di pellegrinaggi? La risposta è semplice; nonostante l’omonimia, il giubileo cattolico non ha alcun legame con quello biblico. La riproposizione dell’ideale della remissione dei debiti, intesi, specie a livello internazionale, in senso economico-finanziario, è un tema apparso solo in epoca contemporanea, per trasformarsi poi rapidamente in una costante (è richiamata anche al n. 16 della bolla d’indizione del prossimo giubileo, Spes non confundit, sostenuta da un’allusione a Lv 25,23; cf. Regno-doc. 11,2024,326).
All’origine non si aveva alcun sospetto di ciò. La breve bolla di Bonifacio VIII Antiquorum habet che istituì il primo giubileo della storia cristiana è, non a caso, priva d’ogni riferimento biblico.2 Gli ascendenti del giubileo vanno ricercati altrove ed è proprio questa origine a evidenziarne il carattere pellegrinante. Il suo antefatto più stringente lo si trova infatti nel pellegrinaggio armato delle crociate.
San Bernardo di Chiaravalle, nella sua predicazione e nelle sue lettere, aveva presentato la seconda crociata (1144-1149) come un giubileo cristiano proprio a causa delle indulgenze da essa concesse. I debiti venivano ormai intesi in senso spirituale. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), la mistica della crociata avrebbe trovato il suo sostituto nel giubileo. L’indulgenza plenaria venne collegata a luoghi più accessibili rispetto a quelli che contraddistinguevano il pellegrinaggio armato a Gerusalemme.
La derivazione del giubileo dalle crociate fu a lungo evocata senza alcun disagio. Ancora a metà del XVIII secolo Benedetto XIV richiamava alla memoria il fatto che Urbano II, nel 1096, aveva concesso che «quel viaggio» (la prima crociata) fosse compiuto per chi vi partecipava «come penitenza totale».3
Si tratta di una genealogia che suscita un forte disagio in epoca contemporanea; essa perciò, nelle bolle di indizioni più recenti, viene semplicemente ignorata. In Spes non confundit (n. 5; Regno-doc. 11,2024,322s) si indicano, per esempio, come precedenti la «grande “perdonanza”» indetta da san Celestino V nel 1294; si ricorda inoltre che quasi 80 anni prima, nel 1216, Onorio III aveva accolto la supplica di san Francesco di concedere l’indulgenza a chi avesse visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto; lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela in relazione a un decreto di Callisto II (1122).
Pellegrinaggio o turismo?
È una tendenza tipica della Chiesa cattolica postconciliare auspicare ritorni a visioni più bibliche della fede; tuttavia l’operazione è, a volte, condotta in modo poco sorvegliato. L’anno santo cattolico conosce, fin dalle sue origini, una pratica di corposi spostamenti collettivi che nulla ha da spartire con il giubileo biblico.
La presenza della folla è già ricordata da Dante in un paragone, a prescindere dalle intenzioni dell’autore, oggettivamente imbarazzante a causa della sua ambientazione infernale: la mobilità dei dannati è accostata a quella dei pellegrini che sul ponte di Castel Sant’Angelo formavano un «essercito molto» (cf. Inferno XVIII, 25-33). La Commedia coglie, in germe, un aspetto dell’anno santo destinato a moltiplicarsi a dismisura nel corso del tempo: la presenza di folle che giungono a Roma.
Nel 1300 il giubileo e le sue pratiche devozionali segnarono, per più aspetti, il passaggio da una religione intesa come grande fattore di mobilitazione storica a una spiritualità sempre più individuale. La meta ultima del cristiano consisteva nella salvezza della propria anima.
A oltre 700 anni di distanza, in società largamente secolarizzate e nelle quali le convinzioni sulla sorte umana dopo la morte sono le più varie (anche fra i cristiani), il pendolo sembra spostarsi di nuovo verso forme di «viaggi religiosi», peraltro assai diversi da quelli antichi. Ormai le indulgenze si possono lucrare, anche nel corso degli anni giubilari, in altri luoghi stabiliti senza compiere grandi spostamenti. I viaggi giubilari sono perciò sempre più slegati da una dimensione propriamente spirituale.
Il turismo nacque, tra il XVII e il XIX secolo, come una forma secolarizzata dell’antico (e antiquato) pellegrinaggio penitenziale. Per ammirare i capolavori dell’arte, la bellezza della natura e le antichità classiche non c’è bisogno d’avvertire alcun senso di peccato. Al fine di raggiungere la pace interiore, gli antichi pellegrini si sentivano peccatori e si spostavano nello spazio. I turisti, invece, si pensano sempre innocenti, anzi si ritengono, non a torto, benefattori dei luoghi che li ospitano.
Oggi le linee di confine tra pellegrinaggio e turismo sono diventate sempre più indistinguibili; entrambi sono ormai fenomeni di massa e tra essi sono tutt’altro che infrequenti ibridazioni reciproche. Il senso del peccato (ammesso e non concesso che ci sia ancora) non è più una causa che sollecita a spostarsi nello spazio.
Un discorso almeno in parte diverso va fatto per la sofferenza. La malattia è tuttora un fattore che induce a pellegrinare. Determinati luoghi, basti pensare a Lourdes, sono mete di moltitudini di infermi; fermo restando che oggi, a differenza di un tempo, sofferenza e peccato vengono colti come fattori tra loro del tutto disgiunti.
Ciò vale tanto sul versante negativo della causa («soffri perché hai peccato»), quanto su quello positivo dell’espiazione («offro la mia sofferenza al Signore in espiazione dei miei peccati e di quelli altrui»).
1 M. Maimonide, Il libro dei precetti, Carucci-DAC, Roma 1980, 169.
2 Cf. E. Lora (a cura di), Bollario dell’anno santo. Documenti di indizioni dal giubileo del 1300, EDB, Bologna 1998.
3 Cf. Benedetto XIV, enc. Apostolica constitutio, 26.6.1749, in Bollario dell’anno santo, § 325.