A
Attualità
Attualità, 22/2024, pag. 692

I più non ritornano

Mariapia Veladiano

Di Eugenio Corti la maggior parte di noi ha letto Il cavallo rosso, 39 edizioni dopo la prima del 1983, tradotto in una decina di lingue. Un romanzo fiume che, attraverso le figure di un gruppo di giovanissimi amici e soldati, ripercorre la storia d’Italia dal 1940 al 1975. Di sicuro siamo in meno ad avere letto il suo lavoro d’esordio, pubblicato nel 1947, appena dopo la guerra. Ha un titolo lungo e descrittivo: I più non ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo (inverno 1942-43) (Mursia, Milano 1990). In un’immaginaria trilogia della ritirata di Russia, questo testo sta insieme a Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi e a Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Per la sua terribilità, se si può dire così, s’avvicina a quello di Bedeschi. A leggere alcune pagine vien meno il respiro.

Eugenio Corti è nato nel 1921. La sua è una famiglia di imprenditori cattolici, 10 figli. Viene chiamato alle armi nel 1941 e l’anno dopo, finita la formazione militare e con il grado di sottotenente d’artiglieria, chiede d’andare in Russia. Lo dice in tutte le interviste: per conoscere da vicino il comunismo, prima che i tedeschi lo distruggessero, giacché era proprio sicuro che i tedeschi avrebbero conquistato la Russia e annientato il comunismo e a lui interessava vedere come fosse questo esperimento di salvezza dell’uomo senza il Vangelo. Ne Il cavallo rosso sarà affidato al personaggio di Michele Tintori questo tratto autobiografico.

In Russia Eugenio Corti vive l’esperienza estrema della ritirata. Il suo 30° Artiglieria di corpo d’armata viene bloccato per 28 giorni in una sacca, circondato dai russi, dal 19 dicembre 1942 al 16 gennaio 1943. È l’inverno, inferno russo.

La narrazione è del tutto particolare. Non ha interesse a creare una struttura classica: preparazione, Spannung, cioè punto di massima tensione, e poi scioglimento. No. Per pagine e pagine capitano esattamente le stesse cose. I soldati sono nella neve, camminano sferzati dal vento e con equipaggiamento ridicolo, vengono costantemente tenuti alla larga e svillaneggiati dagli alleati tedeschi, che spargono a spaglio notizie false su imminenti rinforzi e soprattutto s’accaparrano con determinazione ogni risorsa in arrivo dal cielo o in cui s’imbattano sulla terra: isbe calde, qualche animale da macellare, munizioni, donne.

Pagine e pagine in cui non sembra capitare niente di nuovo e invece capitano esperienze umane profonde e definitive. Ci si aiuta, oppure proprio no, si perde ogni umanità, oppure si muore da eroi, o invece semplicemente ci si lascia morire, o si lascia morire senza troppi sentimenti. La guerra, insomma. E in questi tempi in cui sembra che la guerra, tutto sommato, sia qualcosa d’accettabile, rileggere un libro così va bene.

È scritto in prima persona e riporta, accanto ai fatti vissuti, anche tutte le riflessioni del momento, singolo momento, anche ripetute, anche non eroiche. L’uomo Eugenio Corti è poco più di un adolescente e però non ci si pensa proprio, sembra già grande, maturo, vecchio. Di sicuro più di tanti maggiori e generali che incrocia. C’è un accumulo veloce di esperienza. E c’è però l’energia giovane che fa andare avanti, il gelo in faccia.

Difficile spiegare perché venga da dire che questo libro è in effetti differente da molti altri che parlano della ritirata di Russia. Forse per i giorni uguali in cui capitano le stesse cose: speranza, disillusione, ancora speranza, un po’ di cibo che fa andare avanti, morte, morte, morte, corpi, ferite, congelamenti, amputazioni, speranza, disillusione e così da capo.

Non c’è la preoccupazione di tenere legato il lettore, ma non ci si può scollare. Un ipnotismo dell’anima. C’è la parola «formica». Di fronte alla totale disorganizzazione degli italiani: «Mi misi all’opera: piccola formica dura, tentai nientedimeno di radunare su un grande spiazzo, uno di fianco all’altro, sei reggimenti» (32); «I vari rigagnoli d’uomini e mezzi erano confluiti in uno solo, che si snodava nel silenzio a perdita d’occhio, come un’interminabile fila di formiche» (35); «Come eravamo piccoli e pochi, nella solitudine buia e sterminata... formiche nell’immensità» (117).

Oppure al capo opposto c’è il Natale. Malgrado il tentativo strenuo di tenersi attaccati al calendario come segno d’appartenenza al mondo, alla fine non si è sicuri di quando sia Natale: «C’era di nuovo la convinzione, molto diffusa, che quello fosse il giorno di Natale: così, rimandando a un momento meno penoso il computo delle date, lo credetti anch’io e decisi di festeggiarlo. Per il terzo giorno consecutivo ritenevo di essere nel Natale...» (121). Si ha bisogno di sentirsi a Natale e tre è meglio di uno.

E poi l’antieroismo: Corti sta per essere mandato in linea a capo di un plotone, al posto del compagno Zanotti che è casualmente uscito. È quasi pronto quando Zanotti, per caso, ritorna. Corti vorrebbe prendere il posto del compagno ma «mi fu impossibile costringermi a una scelta generosa» e addirittura lo rimprovera per il nervosismo che l’amico mostra nel prepararsi. Si vergogna di se stesso, si ripromette di ridiventare generoso ma «poi fu la solita apatia» (173).

In realtà Eugenio Corti vede la disumanità assoluta della guerra, e infatti non si arruola volontario, ma non si sottrae alla responsabilità del momento e anche uccide, sia in difesa sia in attacco. La disumanità di cui è testimone gli fa dire che tutto questo male è troppo grande per venire solo dagli uomini: «Non era possibile – noi lo sentivamo – che cose enormi come quelle che stavamo vivendo dipendessero dall’arbitrio di pochi piccoli uomini. Erano castighi dell’intera Umanità, quelli. Solo Dio può castigare l’Umanità» (216).

Un abisso, per un credente. Qualcuno gli chiederà conto di questa pagina e il libro riporta nelle note finali la sua articolata risposta. Da leggere.

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

Leggi anche

Attualità, 2024-18

Storie di bimbe, di donne, di streghe

Mariapia Veladiano
Elizabeth Gaskell è un’autrice inglese meravigliosa e leggendola ci si chiede perché alcune autrici sì, le conosciamo, celebriamo e amiamo, e alcune meno, assai meno, anche se sono in molti modi straordinarie. Forse la risposta è sempre la stessa. Il canone ha accolto con generosa benevolenza gli autori maschi, e solo poche donne sono riuscite a scalfire il soffitto...
Attualità, 2024-16

La sapienza di un povero

Mariapia Veladiano
È un romanzo breve. Da quando è stato pubblicato in Francia nel 1959 è stato tradotto in tutto il mondo e ha venduto più di 3 milioni di copie. Un passaparola pazzo come può essere pazza, fuori misura e affascinante, la fede dei santi. La sapienza di un povero (Edizioni biblioteca francescana, 2022) è l’opera più famosa di Éloi Leclerc,...
Attualità, 2024-14

Le streghe

Mariapia Veladiano
Sei storie, ci sono. Sei storie terribili, scrive l’autore Giuseppe Faggin nel titolo che ha dato all’ultima parte del libro (Le streghe, Neri Pozza, Milano 1995) dove le ricostruisce, a partire dalle fonti processuali, in forma di racconto. Prima, per oltre 100 pagine, ha messo in campo le competenze di una vita. Di storia della filosofia, innanzi tutto, e poi di storia dell’occultismo,...