Trasfigurazione. Lettura evangelica dell’ultima opera di Raffaello
La pittura riconduce il tempo alla staticità. Non si dà musica senza un succedersi di note che appaiono solo per scomparire dopo una vita breve (o brevissima). Armonia e melodia richiedono alle note il sacrificio continuo del proprio esserci. La composizione musicale nell’insieme è costruttiva perché nelle sue parti è intimamente distruttiva. Ogni frammento si fonde nell’insieme in virtù tanto del suo esserci quanto del suo scomparire. Il tempo, che passa e orma lascia, è dimensione costitutiva della musica.
Nella pittura dominano invece linee e colori stabili. Un quadro si offre direttamente agli spettatori senza bisogno di esecutori che gli ridiano vita. Il tempo incide su un’opera pittorica soltanto scolorendola o aggravandola d’indesiderate patine. I restauratori s’incaricano, allora, di farla ringiovanire ma, come avviene anche per le persone, è concesso d’intervenire unicamente sull’esteriorità. Il cuore statico del messaggio non muta.
Se in pittura si desidera raffigurare il prima e il dopo, non resta altra via che porre alcune scene una accanto all’altra. Espediente tanto decifrabile quanto intrinsecamente debole. Non a caso l’efficacia rappresentativa tocca il proprio culmine allorché si raffigurano più scene simultanee. Allora lo spazio, nelle sue dimensioni sia orizzontali sia verticali, raggiunge il proprio apice espressivo.
Nei racconti la narrazione di fatti avvenuti contemporaneamente deve, per forza, sottostare a qualche scarto temporale: prima va detto un avvenimento, poi un altro che pure, come dato di fatto, ha avuto luogo nello stesso tempo. Neppure al narrare evangelico è dato sottrarsi a questi parametri. Quanto avviene sopra e quanto ha luogo sotto non sono dicibili nello stesso tempo. Tipico è il caso delle due scene, rispettivamente, della trasfigurazione, situata in alto, e del giovane epilettico indemoniato posta in basso.
Nei tre Sinottici s’assiste a una progressiva attenuazione dell’istanza di presentare contemporaneamente lo stravolgimento e la trasfigurazione dell’umano; Luca, per esempio, esce d’impaccio situando la scena dell’indemoniato il «giorno seguente» (Lc 9,37). In Marco le cose stan-
no diversamente. Lì ci si preoccupa di rimarcare, attraverso la cronaca di quanto è stato, che quello che è successo in
alto e quanto è capitato in basso sono avvenuti in contemporanea.
Per potenziare l’idea di simultaneità, il genitore mette implicitamente in luce un’assenza: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti» (Mc 9,17-18). Il padre aveva deciso di chiedere aiuto direttamente a Gesù; il suo rivolgersi ai discepoli è semplice ripiego. Il Maestro non c’era perché era salito sul monte con Pietro, Giacomo e Giovanni dove «fu trasfigurato» (Mc 9,2). La constatazione del fatto che i discepoli non riescono a condurre a compimento la guarigione attesta che Gesù si trova altrove.
Quando Gesù è presente, tutto cambia. Alla sua vista, lo spirito muto produce convulsioni nel ragazzo, lo fa cadere, schiumare, rotolare per terra. La supplica del padre avviene quando i suoi orecchi avevano già ascoltato il duro rimprovero di Gesù che qualifica incredula la propria generazione (gheneia apistos).
Il mutismo del figlio obbliga il padre a parlare. Impotente a soccorrere in proprio, il genitore chiede aiuto ad altri: «“Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede”. Il padre del fanciullo disse ad alta voce: “Credo, aiuta la mia incredulità (apistia)”» (Mc 9,22-24). Il genitore capovolge, quindi, il senso negativo attribuito da Gesù alla mancanza di fede. La sua è un’incredulità credente.
Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione che, in un primo momento, assume l’aspetto di morte apparente: «Il fanciullo diventò come morto» (Mc 9,26). Chiara allusione pasquale: il risanamento (cf. Mc 9,14-29) avviene tra il primo (cf. Mc 8,31-33) e il secondo annuncio della passione (cf. Mc 9,30-32).
«Tutto è possibile a chi crede»
La non fede (apistia) è esperienza propria del credente. Affermare che tutto è possibile a chi crede fa sì che la non fede divenga componente interna all’atto di credere. L’aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l’incredulità sia peculiare all’esperienza del credente. Le ferite non sanate del mondo sono prova inconfutabile della nostra mancanza di fede. «Tutto è possibile a chi crede». La possibilità è un orizzonte. Quando compiamo una scelta, decidiamo tra varie possibilità e così facendo ne lasciamo cadere, per forza di cose, alcune.
La sfera del possibile ci trascende sempre; essa dice che la nostra fede è piccola. Il credere comporta affidarsi a colui per cui ogni possibilità è effettivamente possibile. Questa stessa definizione consegna la fede a un ambito eminentemente pratico. L’atto del credere si esplica nella possibilità di modificare la realtà.
Non si tratta però di azioni che si possono compiere in proprio. «Nulla è impossibile a chi crede» sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza di un «non credere» colto come momento intrinseco della vita di fede. Perché il credere sia davvero tale non vi può essere alcuna simmetria tra «nulla è impossibile a Dio» e «tutto è possibile a chi crede». Nella fede è sempre contenuta una dislocazione. Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida ad altri.
Le due scene, collocate rispettivamente in alto e in basso, sono entrambe dominate, sia pure in modo antitetico, da azioni non compiute in prima persona. Sul monte Gesù «fu trasfigurato» (metemorphothe) (non già «si auto-trasfigurò»); nella valle oscura il fanciullo è preda di uno «spirito muto». La condizione umana non è capace di conseguire una piena autodeterminazione di sé. Su di essa operano forze o che la trascinano verso gli abissi dell’alienazione o che la elevano fino a diventare «nuova creazione» (Gal 6,15).
Il viso stravolto del fanciullo simboleggia l’essere a tal punto estraniati da se stessi da non riuscire neppure a invocare aiuto; mentre il volto trasfigurato di Gesù attesta quanto avviene allorché la presenza di Dio tramuta il nostro essere. Due polarità contrapposte, entrambe sottratte al controllo dell’arbitrio umano.
L’innovazione di Raffaello
Rispetto alla rappresentazione della duplice, simultanea scena collocata nell’alto della trasfigurazione e nel basso dello stravolgimento, nessuno ha mai eguagliato Raffaello. La Trasfigurazione è la sua ultima opera. Gli fu commissionata dal cardinal Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) per la cattedrale di Narbonne. Accanto a essa ci doveva essere una Resurrezione di Lazzaro (cf. Gv 11) di Sebastiano del Piombo.1
L’accostamento rafforzava il clima pasquale presente nelle due scene. Numerosi sono i quadri, le icone, gli affreschi dedicati alla trasfigurazione; molto rara, per non dire unica, è invece la scelta di collocare la scena su due piani nei quali l’alienazione e l’impotenza del basso contrastano con la trasfigurata presenza di Gesù. Inoltre Raffaello rappresenta Gesù in maniera tale che solo la mancanza delle stimmate rende palese che non si tratta del Risorto. Tutti notano sia la diversità cromatica delle due parti, sia la differenza tra la vivacità dei movimenti in basso e la sospesa immobilità della parte alta (secondo alcuni, la sezione inferiore fu completata da Giulio Romano); tuttavia quanto preme evidenziare sono soprattutto i gesti collocati in basso.
Raffaello innova rispetto alla scena evangelica, tutta maschile, introducendo due figure femminili, entrambe volte a indicare il fanciullo indemoniato. La fondamentale è quella inginocchiata (identificata, di solito, con la «Fornarina»), centro indiscusso della parte inferiore. La donna addita con un gesto l’indemoniato mentre il suo sguardo supplicante è rivolto ai discepoli. La figura femminile sembra essere l’impersonificazione della richiesta del padre; è lei che, in ginocchio, impetra a vantaggio di chi è muto e perciò incapace di chiedere aiuto.
Lo sguardo e i gesti di alcuni discepoli sono rivolti anch’essi al ragazzo; due altri discepoli, però, additano l’alto dal basso: se c’è una risposta viene da là. Nella penombra a essere alzato senza direzione è invece il braccio smarrito del fanciullo. Gesto disorientato e impotente, in cui l’alto non è meta. Lo stravolgimento dell’anti-trasfigurazione potrà essere risanato solo dopo, quando chi è in alto riscenderà verso il basso.
La leggenda vuole che il quadro di Raffaello fosse portato il 6 aprile 1520 nella stanza nella quale il sommo pittore trentasettenne si congedò dalla vita terrena. Era di Venerdì santo e, secondo alcune fonti (la documentazione è insicura), Raffaello sarebbe nato a Urbino proprio nel giorno in cui si ricorda la morte di Gesù. Un simbolo della convinzione di fede che per rinascere alla vita trasfigurata occorre passare attraverso la morte.
1 Entrambi i grandi quadri si trovano ora in una collocazione diversa da quella originariamente prevista: la Trasfigurazione nei Musei vaticani, l’opera di Sebastiano del Piombo nella londinese National Gallery.