Medio Oriente - Gaza: la semina dell’odio
Una testimonianza. Si è a Gaza nell’attesa di raggiungere una precaria e perigliosa distribuzione di cibo. Una massa di persone è stesa a terra. Un soldato israeliano spara in aria per dare inizio alla disperata competizione.
Una testimonianza. Si è a Gaza nell’attesa di raggiungere una precaria e perigliosa distribuzione di cibo. Una massa di persone è stesa a terra. Un soldato israeliano spara in aria per dare inizio alla disperata competizione.
Tutti corrono, ma ecco che entrano in azione droni e fucili mitragliatori. La folla si getta di nuovo al suolo. Quando le armi hanno concluso il loro lavoro, a terra ci sono morti e feriti.
Il gran fiume dei sopravvissuti non se ne cura e cerca di nuovo di precipitarsi verso il posto dove forse riuscirà a raccattare qualche cibaria.
Ho raccolto il commento che uno dei presenti in seguito ne ha fatto: «Per salvare la dignità umana a Gaza bisogna morire». La dolorosa valutazione è di un collega, il palestinese Yousef Hamdouna dell’ONG EducAid, che l’ha riferita nel corso dell’incontro «Gaza, umanità e diritti negati», tenuto all’Istituto di storia contemporanea di Ferrara, il 30 giugno scorso.
Gaza non è né il primo, né l’unico luogo in cui il dilagare della fame riduce gli esseri umani all’implacabile egemonia del biologico. Non è la sola situazione in cui il bisogno di sopravvivere calpesta solidarietà e pietas; in cui mors tua vita mea è ben lungi dall’essere un puro detto latino.
Primo Levi e molti altri reduci hanno ripetuto che non sono tornati i migliori. Coloro che non si rassegnavano, a prezzo della propria vita, ad archiviare definitivamente la compassione sono restati per sempre là. Se la situazione estrema è esito di processi storico-politici, la fatalità non ha voce in capitolo.
La sopravvivenza pagata con la perdita della propria dignità umana è imputabile, in primo luogo, a chi ha costruito le condizioni perché ciò avvenisse. In quelle circostanze le considerazioni morali espresse da Alessandro Manzoni si trasformano in un rigoroso giudizio politico: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi».
Quando si tratta di affamatori, ci si spinge ancora oltre e l’animo è fagocitato dal corpo.
I molteplici soverchiatori
Nel caso di Gaza i soverchiatori sono molteplici.
In prima fila c’è la guerra genocidaria condotta da Israele. Il Governo Netanyahu compie sul fronte di Gaza azioni di pura devastazione prive di sbocchi politici che differiscano dall’annientamento e dalla deportazione. Agendo in questo modo Netanyahu ha pervertito, accanto alle anime e ai corpi dei gazawi sopravvissuti, anche l’ethos storico del proprio paese.
Inoltre, ha diffuso nell’opinione pubblica mondiale la convinzione che l’oppressione altrui, lungi dall’essere difensiva od occasionale, sia un dato strutturale dello Stato ebraico.
Soverchiatori si trovano però anche sull’altro fronte, quello di Hamas e del jihad islamico. Il nefasto 7 ottobre è un evento non riconducibile al termine pogrom. Non lo è non solo per le sue proporzioni ma anche per la cattura di ostaggi, operazione legata a un preciso disegno politico.
La scelta di tenersi abbarbicati a quel manipolo di persone vive e morte mette consapevolmente in conto che la popolazione di Gaza paghi un prezzo altissimo e lo faccia a causa di una politica anch’essa priva di sbocchi. La fatidica reiterazione di azioni sprovviste di prospettive per il domani non significa, però, che tutto quanto sta avvenendo non avrà strascichi futuri.
Ve ne saranno. Di certo all’insegna di una sovrabbondante semina di odio e, forse, nella presenza germinale di sensi di colpa aperti a diventare assunzione di responsabilità storiche, politiche ed etiche.
Piero Stefani