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Attualità
Attualità, 18/2024, 15/10/2024, pag. 589

Profetesse di guerra

Come intendere la violenza divina?

Piero Stefani

Nella Bibbia ebraica il termine nevi’ah «profetessa» torna solo 6 volte (cf. Es 15,20; Gdc 4,4; 2Re 22,14; Is 8,3; Ne 6,14; 2Cr 34,22). Ci sono riportate le parole soltanto di Miriam, sorella di Mosè e Aronne, di Debora e di Culda. Tutte e tre hanno a che fare con la guerra.

Quando i figli d’Israele partiti dall’Egitto si videro inseguiti dall’esercito del faraone, ebbero paura e gridarono al Signore. Nel libro dell’Esodo l’ostinazione del sovrano egizio serve a esaltare un Dio guerriero. L’affogamento del faraone, del suo esercito e dei suoi cavalli nel Mar Rosso rappresenta la massima vittoria conseguita da YHWH. L’evento è subito celebrato dalla lunga cantica messa sulla bocca di Mosè e del popolo (cf. Es 15,1-18).

L’ampia composizione viene ripresa e concentrata da Miriam, ed è proprio qui che lei è definita profetessa. Uscita con in mano il tamburello e seguita da altre donne danzanti, Miriam intonò quest’inno: «Cantate al Signore perché si ricoprì di grande gloria: cavallo e cavaliere ha scaraventato nel mare» (Es 15,21).

Per la moderna sensibilità dei credenti questi versi esprimono una visione sconcertante, in particolare perché collegata a un testo che fonda una speranza di liberazione condivisa da ebrei e cristiani. Martin Luther King, che traeva dalle pagine dell’Esodo la fiducia per il raggiungimento di un concreto riscatto da parte dei neri discriminati, fu costretto a interpretare gli egiziani uccisi sulla riva del mare come puri simboli di vittoria sul male.1

È uso ascoltare dalla bocca di molte delle attuali autorità religiose che non è dato uccidere in nome di Dio. Nel racconto biblico però è Dio stesso a uccidere. Anzi, non mancherà molto per apprendere che gli schiavi liberati saranno presentati come un popolo di conquistatori al quale il Signore comanda di compiere stermini (cherem) declinati in chiave sacrale. Un atteggiamento tipico di molti degli attuali esponenti religiosi è di procedere fingendo che nei rispettivi testi sacri non ci siano pagine violente.

Quando però il velo steso su tante pagine si logora, si resta irrimediabilmente smascherati. Il libro dell’Esodo, e ancor di più quello di Giosuè e di tante altre pagine bibliche, pongono il lettore di fronte al problema di come intendere la violenza divina. Da un lato può apparire soddisfacente che essa simboleggi che oppressi e oppressori non possano essere collocati sullo stesso piano; tuttavia, dall’altro lato, la spiegazione non regge di fronte a narrazioni di conquiste in cui è il Signore stesso a ordinare in prima persona l’annientamento dei nemici.

L’attendibilità storica di questi ultimi racconti è, in sostanza, nulla. Ciò non toglie che in essi rimane indiscutibile la dimensione letteraria di una violenza messa in pratica per ordine del Signore. Per uccidere non c’è bisogno di Dio; per rendere giusta o santa la soppressione di vite umane è invece pressoché inevitabile appellarsi a Dio o a chi ne prende il posto: lo Stato, la patria, la sicurezza, la rivoluzione, la conquista della libertà e la lotta per l’indipendenza, persino un asserito diritto attribuito alla propria parte di conquistare e dominare.

Il compito ermeneutico imposto da tante pagine bibliche violente è esattamente quello d’avanzare una critica rivolta tanto alle immagini deformate di Dio quanto alle componenti che, nel corso della storia, ne hanno preso il posto. Solo un’aperta e coraggiosa decostruzione della violenza divina consente di smascherare anche le componenti secolarizzate che sono subentrate al suo posto.

A quanto è dato constatare, è un compito che eccede le capacità della maggior parte degli attuali leader religiosi.

 

Celebrare la vittoria sul nemico

Con la seconda profetessa siamo all’epoca dei Giudici. I figli d’Israele ripresero a far male agli occhi del Signore; Dio quindi li consegnò nelle mani di Iabin re di Canaan. Si odono grida rivolte al Signore che decide infine di venire in aiuto del suo popolo. A quel tempo in Israele era giudice una donna, la profetessa Debora. Quest’ultima convoca Barak e lo manda a combattere contro Sìsara, capo dell’esercito di Iabin. Il capo dell’esercito israelitico dà battaglia e sbaraglia il nemico, in realtà il vero vincitore non fu lui: «Il Signore sconfisse, davanti a Barak, Sìsara con tutti i suoi carri» (Gdc 4,15).

L’intero esercito fu passato a fil di spada, scampò solo Sìsara che corse a piedi in direzione della tenda di Giaele. La donna uscì verso di lui e lo invitò a fermarsi e a non temere. Sìsara accetta l’ospitalità, chiede da bere ed è nascosto sotto una coperta. Giaele opera in questo modo non per salvarlo bensì per ucciderlo. Prende infatti un picchetto della tenda e lo conficca nella tempia del suo ospite. Lungi dall’essere punita per il tradimento della legge dell’ospitalità, è esaltata: secondo la Bibbia stava semplicemente dalla parte giusta (cf. Gdc 4,12-22).

Ai nostri giorni i passi legati all’impresa di Giaele sono recepibili unicamente come smascheramento della logica aberrante di prendere come criterio di giudizio la convinzione secondo la quale Dio è dalla nostra parte perché è contro di loro. Gott mit uns pesa sulla storia del mondo.

Sulla bocca di Debora la Bibbia pone un lungo cantico di vittoria che, dopo aver celebrato il trionfo, termina sia con note di derisione beffarda, riservata, da una voce femminile,
a una trepidante attesa materna, sia con l’invocazione che periscano tutti i nemici e che coloro che amano il Signore siano come il sole quando esce con tutta la sua forza (cf. Gdc 5,24-31).

Giaele e Debora sono più inquietanti di Miriam, non foss’altro perché si tratta di eventi più paragonabili a dinamiche effettivamente presenti nel nostro mondo dove non vediamo più carri e cavalli travolti direttamente dal Signore nelle onde del mare, mentre constatiamo ancora inni rivolti a celebrare la riuscita di azioni violente e omicide.

 

Un’amara profezia

Resta Culda. Di lei sappiamo poco. Vi è un’unica occasione in cui è protagonista (cf. 2Re 22,11-20; 2Cr 34,22-28). Nel diciottesimo anno di regno, Giosia decise di restaurare il tempio. Mutatis mutandis, la vicenda sembra ricordare quella che, tanti secoli dopo, avrebbe visto protagonista Francesco di Assisi, il quale pensò di dover consolidare le strutture murarie di San Damiano e fu invece coinvolto in una ben diversa forma di consolidamento della comunità ecclesiale.

Con Giosia si comincia a parlare di mura e si finisce con il porre l’attenzione su un libro ritrovato nel tempio. Si dichiara infatti che il sommo sacerdote comunicò allo scriba Safan di aver rinvenuto, in modo inaspettato, nella casa del Signore un «sefer Torah». Lo scriba lo lesse, poi andò dal re Giosia e gli comunicò l’avvenuta scoperta. La lettura del libro provoca in Giosia una reazione di tipo luttuoso.

Il re si rende infatti conto della insanabile discrepanza tra quanto è scritto in quel testo e il comportamento assunto, in precedenza, dal popolo; l’ira del Signore è perciò grande. È a questo punto che il re incarica il sommo sacerdote di andare a consultare il Signore per lui.

Per interpellare YHWH non si ritorna al tempio, né ci si rivolge alla mediazione sacerdotale, ci si reca invece da una donna che abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme. L’attendibilità del libro ritrovato nel luogo più santo d’Israele è dunque sottoposta al vaglio di una profetessa all’interno di una casa privata. In Israele, nella seconda metà del VII secolo a.C., la profezia femminile esisteva ed era ascoltata.

Culda dà agli inviati del re un responso duro. La pericope biblica che inizia con il restauro del tempio sfocia in una profezia che ne prospetta la distruzione: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: “Dite all’uomo che vi ha inviati da me: così dice il Signore: ‘Ecco io farò venire la sciagura su questo luogo e i suoi abitanti, conformemente a tutte le parole del libro che ha letto il re di Giuda, perché hanno abbandonato e hanno bruciato incenso ad altri dèi per provocarmi a sdegno con tutte le opere delle loro mani; la mia ira si accenderà contro questo luogo e non si spegnerà’”» (2Re 22,15-17).

Il responso prosegue affermando che, poiché Giosia si è umiliato e contrito, a lui sarà risparmiato di vedere la rovina del Tempio. Al re sarà riservata la sorte di morire prima della catastrofe e d’essere riunito nel sepolcro assieme ai suoi padri (cf. 2Re 22,19s). La benedizione che tocca all’unico re di Giuda che, al pari di Ezechia, fece il bene agli occhi del Signore, consiste semplicemente nel non vedere la rovina e nell’essere sepolto nella tomba di famiglia.

A differenza di Miriam e Debora, Culda non celebra una vittoria sul nemico; al contrario ella preannuncia una sconfitta e fa comunicare al re che la sua pace consisterà solo in una morte anticipata che gli risparmierà di vedere la catastrofe. Giosia, in una specie di esodo capovolto, troverà la morte sul campo di battaglia scontrandosi con il faraone.2 Con le sue parole la profetessa comincia a testimoniare la povertà che tocca in sorte agli amati da Dio.

Letta sotto questa angolatura, quella di Culda è profezia vera.

 

1f. M.L. King, La forza di amare, SEI, Torino 141969, 121-130.

2 Attorno alla morte di Giosia ci sono due versioni parzialmente discordanti; è certo che morì in guerra a Meghiddo nello scontro con il faraone Necao (Neco) II; tuttavia, per il libro dei Re fu immediatamente ucciso sul campo (cf. 2Re 23,29), per quello delle Cronache fu invece solo ferito per essere poi trasportato a Gerusalemme dove si ricongiunse ai padri (cf. 2Cr 35,20-24).

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ebrei
Area
Nazioni

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