Arnold Schönberg e il suo dramma sionistico
Il grande compositore ebreo Arnold Schönberg (1874-1951) si rifugiò negli Stati Uniti nel 1934. L’inventore della dodecafonia risiedette a Los Angeles. Pochi isolati lo separavano da altri illustri scrittori, intellettuali e musicisti tedeschi: Thomas Mann, Franz Werfel, Theodor W. Adorno, Bruno Walter.
Nel secondo dopoguerra scrisse e musicò la composizione considerata in grado, più d’ogni altra, d’evocare la Shoah: Un sopravvissuto di Varsavia. Il testo, in inglese (con qualche parola in tedesco), è affidato a una voce recitante maschile; si tratta di una rielaborazione di una testimonianza autentica. Il pezzo, di durata assai breve, termina con l’intervento del coro maschile che canta alcuni versetti (Dt 6,4-7) dello Shema‘ Yisroel (trascritto secondo la pronuncia askenazita). Alla prima rappresentazione il pubblico non riuscì ad applaudire e restò avvolto in un eloquente silenzio.
Verso la fine della sua vita Schönberg accolse con entusiasmo l’invito a presiedere l’Accademia di musica appena fondata a Gerusalemme. La sua più profonda aspirazione sarebbe stata di trasferirsi in Israele per educarvi artisti all’altezza della tradizione etica ebraica. La salute prima e, in modo definitivo, la morte gli impedirono di realizzare il progetto.
Quando la Israel Philharmonic Orchestra compì la sua prima tournée americana, uno dei suoi componenti riuscì a incontrare il compositore; il suo desiderio, risultato vano, era di parlare di tecnica musicale. Schönberg, però, volle solo conoscere il modo in cui Israele aveva combattuto la Guerra d’indipendenza, le strategie e le tattiche adottate e i modi in cui aveva conseguito la vittoria. L’interesse per gli scontri bellici per lui fu una costante: nella sua scacchiera aveva sostituito i pezzi tradizionali con figure di soldati moderni, carri armati e via discorrendo. Insomma, aveva trasformato il gioco degli scacchi in una specie di Risiko.
Schönberg si era convertito ventiquattrenne al luteranesimo. Sulla scelta aveva influito la lettura di Swedenborg, di Rudolf Steiner e di testi quaccheri. Il compositore tornò ufficialmente all’ebraismo a Parigi nel 1933 (uno dei due testimoni fu Marc Chagall). Tuttavia la sua riflessione sul popolo ebraico e sul compito degli ebrei in seno alla modernità precedette, non di poco, il suo ritorno ufficiale alla religione dei padri (che non lo portò però mai alla pratica ortodossa).
Dal primo dopoguerra, al centro del suo pensiero ci fu la figura di Mosè, rivelatore dell’«unico, eterno, onnipresente, invisibile e irraffigurabile Dio («Einziger, ewiger, allgegenwärtiger, unsichtbarer und unvorstellbarer Gott…»).1 Schönberg fu però anche un fermo sostenitore dell’autodifesa ebraica.2 Sorge una domanda: come, da un lato, essere testimoni dell’idea irraffigurabile del Dio unico e, dall’altro, agire nel mondo per salvaguardare se stessi? Questa polarità dialettica rappresenta il nucleo di due opere di Schönberg: la prima, nota e celebrata, è il Mosè e Aronne (1930-1932),3 la seconda, assai meno conosciuta, è costituita dal dramma in prosa La via biblica (Der biblische Weg).4
Un dramma legato al sionismo
La via biblica (scritta tra il 1926-27, ma ideata nel 1922-23) non ha in sé nulla di direttamente biblico. È un dramma teatrale legato al sionismo e alle sue varie correnti di cui Schönberg dimostra di essere un perfetto conoscitore. Il protagonista principale è Max Aruns, cognome dotato di una chiara allusione ad Aronne, mentre il nome sembra ispirarsi a Max Nordau, il principale collaboratore di Theodor Herzl, (l’iniziatore del sionismo politico). Aruns accetta la visione monoteistica del Dio irraffigurabile, eppure nello stesso tempo deve agire nella storia. Per fare ciò aderisce al sionismo territorialista (movimento favorevole a un insediamento ebraico in un paese extraeuropeo diverso dalla Palestina).5 Nella Via biblica la nuova Palestina è infatti in Africa (paese immaginario di Asmongäa). Aruns cerca una «terza via» tra l’ortodossia (rappresentata nel dramma dal personaggio di Asseino) e le visioni del sionismo d’ispirazione laico-socialista.
Il fallimento di questa via intermedia è inscritto nell’ordine delle cose. «Aruns: “Ma questa fede in Dio invisibile e irraffigurabile non offre alcun visibile adempimento. Ogni creatura umana prova il desiderio di sentire il suo Dio, di udirlo, di vederlo: sia che egli voglia punirla o premiarla, in un modo o in un altro ci deve essere una reazione”». Al che un altro personaggio (Pinxar) gli controbatte: «La nostra religione è troppo spirituale per poter essere facile, popolare. Questa è la ragione per cui essa non costituisce, come tante altre, un maneggevole strumento di governo».
Il fallimento di Aruns è legato all’impossibilità di essere a un tempo Mosè e Aronne. La «bocca di Mosè», Aronne, vale a dire la parola (e quindi potenzialmente l’immagine), vuole esprimere l’idea irraffigurabile e in tal modo la rende accessibile e nel contempo la tradisce. Aruns è destinato ad andare incontro allo scacco e a una morte violenta. «David Asseino: “Max Aruns, voi volete essere Mosè e Aronne in una sola persona! Mosè, a cui Dio concesse il pensiero, ma cui faceva difetto la forza della parola e Aronne, che non sapeva concepire il pensiero ma che era capace di esprimerlo e di influenzare le masse».
Nella sua replica Aruns difende l’idea secondo la quale Mosè e Aronne rappresentano solo due attività di una stessa persona in grado di sintetizzare pensiero e azione. Asseino afferma però che Dio non ha consentito di riunire questi due poteri in un’unica figura. La proposta fattagli da Aruns è impraticabile, è come se Aronne avesse chiesto a Mosè di aiutarlo a erigere il vitello d’oro. Dopo la morte del principale protagonista, appare sulla scena Joseph Guido; personaggio evidentemente ispirato a Giosuè, letto però in modo spiritualizzante e non già come conquistatore.
L’opera si chiude con un suo monologo: «Il popolo ebraico vive per un’idea: la fede in un Dio unico, immortale, eterno, irraffigurabile. (…) Come ogni antico popolo, anche noi sentiamo questa vocazione: spiritualizzarci, affrancarci da tutto ciò che è materia. Vogliamo raggiungere la perfezione dello spirito, vogliamo poter sognare il nostro sogno di Dio, al pari di tutti gli antichi popoli, che lasciano la materia dietro di sé».
Mosè e Aronne
La struttura del Moses und Aron è basata su tre atti, ne sono stati musicati però solo due; il terzo, brevissimo, è stato scritto e riscritto ma mai messo in musica. La prima rappresentazione scenica avvenne postuma nel 1954. Nell’opera vi è una necessaria, paradossale cifra d’incompiutezza.
Primo atto: roveto ardente, incontro tra Mosè e Aronne, miracoli di Aronne di fronte al popolo ebraico più o meno incredulo. Secondo atto: deserto, vitello d’oro e rottura delle tavole. Terzo atto: «resa dei conti» finale tra Mosè e Aronne. L’opera si estende, per così dire, dal deserto al deserto. Gli egiziani è come se non esistessero; quanto viene messo in evidenza è uno scontro interno al popolo ebraico.
In Mosè e Aronne le figure dei due fratelli sono distinte e poste in un reciproco contrasto anche musicalmente: Mosè è voce grave, legata alla tecnica dello Sprechgesang (canto parlato), Aronne è un helder Tenor non privo di passaggi allusivi al «bel canto». Tuttavia tra i due fratelli non c’è semplicemente antitesi. Non c’è perché Mosè fallisce. Dopo l’orgiastica scena del vitello d’oro e la spezzatura delle tavole, non c’è rottura del vitello d’oro ma un suo annientamento; è il miracolo atteso dallo stesso Aronne.
«O Parola o Parola che mi manchi» così sulle labbra di Mosè. La parola è la prima raffigurazione dell’idea. Si sono fatte molte riflessioni su questo verso. Tuttavia, troppo spesso si è trascurato di sottolineare che la Parola che manca non allude solo all’Idea, si riferisce pure, e forse soprattutto, all’incapacità di congiungere l’Idea con l’azione. La parola che manca è l’impossibilità di essere a un tempo Mosè e Aronne. Da qui erompe il fallimento e la disperazione dalla quale si cerca di uscire nel terzo atto, che non è stato musicato perché (come ha scritto acutamente Luigi Rognoni) «la morte di Aronne per “miracolo” è pur sempre un’“immagine”».6 «Anche se nel terzo atto viene affermata la superiorità di Mosè e la condanna di Aronne, non appare sicuro che il dualismo venga risolto o comunque infranto».7 Le parole su cui si chiude il terzo atto sono: «Ma nel deserto voi siete invincibili e raggiungerete la meta: in unione con Dio». La meta (luogo dell’irraffigurabile) è conseguita nel deserto, non nella Terra promessa. Il che lascia comprendere per contrasto come la realizzazione dell’azione sarà presa, per definizione, nella morsa dell’ambiguità. È quindi un tratto tutt’altro che marginale rimarcare che La via biblica si presenta come un dramma sionistico.
1 Sono le parole con cui inizia l’opera Moses und Aron.
2 Schönberg simpatizzò con la corrente del sionismo riformista di Ze’ev Žabotinskij (scritto talvolta anche come Jabotinsky), il più noto propugnatore dell’autodifesa ebraica.
3 Il libretto risale però ad anni precedenti.
4 Cf. A. Schönberg, Testi poetici e drammatici editi e inediti, testo, introduzione e note a cura di L. Rognoni, Feltrinelli, Milano 1967 da cui sono tratte le citazioni successive (altra edizione per i tipi di SE, Milano 2009).
5 Lo stesso Herzl aveva ipotizzato, come soluzione intermedia («rifugio per la notte»), la possibilità della creazione dello Stato degli ebrei in Uganda.
6 Schönberg, Testi poetici e drammatici, 15.
7 Ivi, 21.