Bisogni e giustizia
Aiutare gli altri è un valore esistenziale
Per continuare a sussistere occorre mangiare. La necessità di farlo è prova evidente della non autosufficienza dei viventi. Non è la sola. Per gli animali non acquatici, lo è anche la respirazione e quindi l’aria. In condizioni normali, non ci si deve impegnare a procacciarsi l’aria (essa perciò, come precisò David Hume, non è dotata di valore economico). Respiriamo sia da svegli sia da addormentati: la dipendenza è continua. Quando, nel senso pieno e letterale del termine, manca l’aria, la vita si estingue nel giro di pochi minuti. Il respiro attesta l’inesorabile bisogno che il vivente ha dell’altro da sé. L’originaria testimonianza del primato delle relazioni è affidata ai nostri polmoni.
Allorché in una stanza irrompe una luce sghemba ci si accorge che l’aria è piena di pulviscolo. Quanto ai nostri sguardi sembrava puro, ora appare una danza di corpuscoli sospesi. Entrano in noi con il respiro, il nostro fiato li emette di nuovo; altri li assumeranno e li restituiranno. Il processo di respirazione è ciclico e continuo. Siamo accomunati dall’aria, dall’alito, dal respiro, dal pulviscolo: ci scambiamo quanto abbiamo ricevuto.
Non tutto è idilliaco. L’aria è spesso inquinata. Chi ha respirato polvere d’amianto può morirne anche dopo decenni. Ci si trasmette pure germi e virus. Le mascherine, se non sulla nostra bocca, sono ancora nella nostra memoria. Tuttavia, di solito, l’aria è a nostra diretta disposizione senza troppe insidie. Per respirare neppure il neonato ha bisogno di aiuti esterni.
Il discorso è diverso per il cibo. Mangiare è atto volontario. Con frase corrente, detta per lo più al negativo, s’afferma di non aver voglia di mangiare. Gli alimenti non giungono spontanei a noi né di giorno, né di notte: ce li dobbiamo procurare. Se non siamo nelle condizioni di farlo, altri devono attuarlo per noi. I neonati non si procacciano da soli il latte. Tutti, senza eccezione, per sopravvivere necessitano d’essere aiutati da altri. Se, appena nati, si fosse abbandonati a se stessi, nessuno sopravviverebbe. L’aver ricevuto delle cure è iscritto nelle fibre della nostra esistenza.
Che gli esseri umani nascano liberi e uguali è un «dover essere» qualificante ma astratto, che tutti vengano al mondo bisognosi d’aiuto è invece reale e concreto. I bisogni primari ci accomunano. Si legge nel Siracide: «Le prime necessità della vita sono acqua, pane e vestito, e una casa che protegga l’intimità [alla lettera “per nascondere l’indecenza”; nda]» (Sir 29,21). Non è elencata l’aria, un bisogno che, forse, appariva facile da soddisfare. È comunque vero che, in media, in relazione all’aria si consumano meno ingiustizie (ce ne sono però anche in questo campo) di quante se ne compiano, ogni giorno e ovunque, in riferimento all’acqua, al pane, al vestito e all’abitazione, tutte realtà intrinsecamente dotate di valore economico. In questi ambiti, produzione e scambio giocano un ruolo ben superiore a quello svolto dall’aiuto reciproco.
Vi è però anche l’altra faccia della medaglia. In situazioni normali, non ci troviamo nelle condizioni di donare aria ad altre persone. Non ce n’è bisogno. Posso però dare da bere all’assetato, da mangiare all’affamato, vestire l’ignudo, ospitare il senza tetto (cf. Mt 25,31-46). Ci è, dunque, concesso d’emanciparsi, per quanto solo parzialmente, dalla logica economica per entrare in quella che qualcuno ama qualificare con il termine «dono». In realtà, aiutare chi è nel bisogno costituisce una semplice attualizzazione della legge primaria dell’esistenza: ogni vivente è tale solo perché ha conglobato in se stesso l’atto originario d’essere stato aiutato a esistere.
Aiutare il prossimo
Che cosa avviene quando l’aiuto non giunge? Come bisogna comportarsi nei confronti di chi ha negato, per quanto stava a lui, la legge che presiede alla vita? Conosciamo le parole con cui il Vangelo di Matteo descrive il giudizio finale: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Si tratta di una frase che può essere pronunciata unicamente da chi si identifica a tal punto con colui che è nel bisogno da non trovarsi neppure nelle condizioni di prestare aiuto.
Il Figlio dell’uomo è contraddistinto da una divina passività. Egli è dalla parte dei sofferenti e non già da quella di chi li soccorre. Aiutare il prossimo è compito nostro, non di Dio. Un racconto chassidico trasmessoci da Martin Buber prende le mosse dal presupposto che Dio non ha fatto alcuna delle cose esistenti priva di scopo. Un discepolo allora chiese, in maniera paradossale, al proprio maestro come mai fosse stato creato l’ateismo. Il rebbe rispose che ciò era avvenuto perché quando ci troviamo di fronte a una persona bisognosa di aiuto, essa non va congedata appellandosi a un presunto soccorso che giungerà dal cielo; al contrario, occorre agire come se Dio non fosse e tutto dipendesse da noi.1 La storia e la cronaca ci mostrano, però, con inesorabile frequenza, quanto latiti l’aiuto. Come bisogna umanamente reagire quando ciò non avviene?
Vi è un passo biblico che prende di petto il problema; lo fa però in un modo che ci turba. Per comprenderlo occorre risalire a un racconto incentrato sulla sete di discendenza che, dopo la distruzione di Sodoma, prese a tal punto le figlie di Lot da indurle a farsi ingravidare dal loro padre. Nacquero così due figli: Moab («da mio padre») e Ammon («figlio del mio popolo»; Gen 19,30-38).
Il libro del Deuteronomio (23,4-7) riporta parole molto dure rispetto ai discendenti di questi due popoli: la comunità del Signore sarà infatti per sempre preclusa al moabita e all’ammonita. Tuttavia la ragione addotta per questa esclusione riguarda non già la loro lontana origine incestuosa bensì due atti successivi: l’aver inutilmente prezzolato Balaam perché maledicesse Israele (cf. Nm 22,2-21) e soprattutto il non aver soccorso nei suoi bisogni primari lo stremato popolo ebraico uscito dall’Egitto: «Perché non ti vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino», perciò «non cercherai né la loro pace né la loro prosperità [alla lettera: “il loro bene”; nda] finché vivrai». La negazione dell’aiuto da parte di ammoniti e moabiti porta Israele a rendere permanente l’ostilità nei loro confronti. Con gli esponenti di quei due popoli non sarà mai consentita alcuna integrazione. Seguendo questa linea, si è però inevitabilmente ingabbiati dentro la stessa logica che si prefigge di condannare. Si resta prigionieri dell’inimicizia al punto da vietare di impegnarsi per il bene altrui.
I bisogni primari sono pre-etici
Circola un detto, attribuito a vari autori, secondo il quale procacciarsi il proprio pane è questione materiale, mentre preoccuparsi di quello del prossimo è questione spirituale. La frase non appare abbastanza radicale. I bisogni primari sono pre-etici, soddisfare quelli degli altri è, di conseguenza, un atto etico radicato in qualcosa che lo precede; è un comportamento più esistenziale che spirituale. L’aiuto va prestato in base a una condizione umana accomunante che, rispetto ai bisogni primari, ignora la discriminazione basata sulla coppia antitetica amico-nemico. Anzi, in questi casi non va neppure fatto valere il discrimine che separa buoni e cattivi. Non si tratta però di annullarlo. Al contrario, soltanto agendo in questo modo si è nelle condizioni di mantenere, sul piano che le spetta, la fondamentale distinzione tra bene e male.
Lo svela Gesù quando, nel Discorso della montagna, comanda di comportarsi come il Padre celeste che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (cf. Mt 5,45). Se Matteo avesse scritto, secondo una pura logica universalistica, un generico «su tutti» avrebbe depotenziato enormemente la frase. Le distinzioni vanno mantenute ma senza farle dipendere da quanto è indispensabile perché la vita sia (sole e pioggia).
Jürgen Moltmann, in un articolo ripubblicato on-line in occasione della sua recente scomparsa,2 ci trasmette un racconto da lui stesso ricevuto. Si tratta di una testimonianza relativa a una donna russa che distribuiva il pane ai prigionieri di guerra tedeschi che passavano nel suo villaggio. I soldati russi volevano proibirglielo. Lei rispose che aveva agito allo stesso modo quando erano i tedeschi a trasportare i prigionieri russi e che avrebbe dato da mangiare anche a chi ora la stava rimproverando, quando sarebbe stato fatto transitare dal suo paese a opera della polizia segreta.
La storia di quella donna radicata nella volontà di bene avrebbe potuto proseguire. La polizia segreta del regime totalitario staliniano è esempio supremo di ingiustizia, ma quella figlia del popolo russo avrebbe dato del pane anche ai poliziotti se fossero stati, a loro volta, deportati da altri. La risposta etica ai bisogni primari è il fondamento di ogni civiltà degna di questo nome; lo è anche e soprattutto quando domina la barbarie: «In quei giorni tremendi il sangue, la sofferenza e la morte non commuovevano nessuno, solo l’amore e la bontà scuotevano le persone» (Vassilij Grossman).3
1 Cf. M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, 409s.
2 J. Moltmann, «Il terrorismo, la pace e i draghi del XXI secolo», in Vita e Pensiero 106(2003) 6.
3 V. Grossman, Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano 2011, 31.