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Attualità
Attualità, 4/2023, 15/02/2023, pag. 133

Solitudine e legami

Bibbia, mito platonico, fede vissuta

Piero Stefani

C'è una espressione proverbiale tanto comune da essere persino un poco triviale: «Sono solo come un cane». A coloro che conoscono Leopardi, forse verrà in mente anche il passero solitario. Non è la stessa cosa. Al volatile, infatti, non si applicherebbe mai la definizione che lo qualifica amico dell’uomo. Il cane è l’animale che rende più manifesto il suo patire la solitudine, non già quello che è più solo. Lo fa anche perché capace di legami tanto intensi con gli esseri umani che noi, in un certo senso, ci identifichiamo con lui.

Lo facciamo soprattutto quando viviamo una solitudine imputabile a coloro che, senza giustificazione, ci hanno abbandonato, o più semplicemente piantato in asso. Essere soli come un cane è frutto di azioni di cui non si comprendono le ragioni. In certi casi, però, il paragone viene svuotato dall’interno. Esistono solitudini che incontrano una presenza invisibile agli occhi dei più. Per trovarle non è obbligatorio rivolgersi ai mistici, né guardare agli eremi.

Firenze, una domenica mattina invernale, sul presto. Strada semideserta, qualche raro passante nella fioca luce di una giornata che sta schiudendosi all’insegna del grigio. Sotto il portico della SS. Annunziata c’è Michele, un romeno sulla quarantina, chiede l’elemosina. Dice d’aver lavorato con orari lunghissimi, paga scarsa e incerta; poi è finita anche questa risorsa. Ha dormito per 8 anni sotto un portico. Ricorda quando, a Natale, gli veniva portato un panettone; le superficiali buone intenzioni ignoravano il carico di risonanze scatenate in chi era privo di casa. Di fronte a quel dono, le lacrime erano più consone del sorriso.

Ora Michele ha un tetto. L’interlocutore gli chiede se è solo. II suo intento è unicamente di sapere se condivide o meno la stanza con qualche altra persona, o se, magari, ha con sé la famiglia. La risposta è inattesa: «Non sono mai solo, perché il Signore è sempre con me». L’ascoltatore non dubita della sincerità della risposta, la raccoglie nel silenzio del cuore e ha conferma che la fede abita in territori più profondi di quelli raggiungibili dalla psicologia.

Con Michele si limita a precisare il senso della sua iniziale domanda. Apprende che la moglie, i due figli e la vecchia madre risiedono ancora in Romania. Gli dà qualche soldo, lo saluta. Dice tra sé che anche se, come probabile, in vita sua non lo rivedrà più, l’ha comunque incontrato.

Si permette di capovolgere un detto evangelico. Tutte le volte che avete dato o non dato da mangiare, da bere, da vestire (…) l’avete fatto a me, dice il Figlio dell’uomo (cf. Mt 25,31-46); o non piuttosto avete ricevuto me da loro? Forse si potrebbe aggiungere al Vangelo questo versetto: sono con te perché sono con lui. 

L’altro da sé

La Bibbia non è un testo spirituale. Non lo è perché il suo vettore più rilevante non va dalle creature a Dio; il suo percorso peculiare va dal Signore all’opera delle sue mani. Non a caso, le sue pagine iniziali non sostengono che la solitudine umana sia vinta dalla presenza di Dio.

L’andamento è diverso: è il giudizio del Signore Dio a dichiarare non buono che l’uomo sia solo. Siamo nel secondo racconto della creazione (cf. Gen 2,4-25). Il primo è contraddistinto dal ritornello ki tov «e Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,4.10.12.18.21.25). Nel secondo il Dio, plasmatore e animatore dell’essere umano maschile, afferma invece che non è bene (lo tov) che l’uomo sia solo (Gen 2,18).

Nel racconto è dunque il Signore stesso a giudicare non ancora pienamente riuscita la propria creazione; il compiacimento lascia posto alla constatazione di una mancanza. Il primo tentativo divino per far sì che l’essere umano viva all’insegna dell’incontro è di plasmare gli animali. Non bastò neppure questo. Per giungere al compimento occorreva privare l’uomo di una parte del suo corpo perché da esso fosse formata la donna. Solo allora la solitudine fu vinta: «Questa volta è ossa delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23).

C’era solo lui, tuttavia all’uomo non è messa in bocca alcuna lamentela. Egli non patisce la solitudine. Per accorgersi di quanto ci manca occorre un confronto con l’altro da sé. Se al mondo ci fossero solo poveri, nessuno di loro s’accorgerebbe di esserlo. È la presenza dei ricchi a rendere poveri i poveri. È l’esistenza dei sani a rendere malati i malati, e così via.

All’inizio l’uomo non sapeva che cosa gli mancasse. Unicamente quando ha avuto l’esperienza dell’altro da sé – o meglio dell’altra da sé – ha scoperto lo spessore della passata privazione. Il mito dell’uomo a cui Dio fa capire la sua primordiale solitudine indica, in chiave antropologica, una prospettiva orientata in senso opposto a quella secondo la quale l’amore (eros) sta nel tentativo di raggiungere quanto si era perduto.

È l’incontro, spesso inatteso, con l’altra persona a svelare la componente mancante di quel che contraddistingueva la nostra vita precedente. È l’occhio di Dio a rivelare l’incompletezza di quanto da lui fatto. Avviene così già nell’ordine della creazione; a maggior ragione, ciò ha luogo nel-
l’ambito della promessa che riempie i cuori dei fedeli di attese considerate dalla ragione umana tanto inattendibili quanto irrealizzabili.

La pienezza è nell’avvenire, non alle nostre spalle. 

Mito platonico e racconto biblico

La morte di una persona induce a ripercorrerne la vita. Possono essere incontri, affetti, azioni, opere, scritti. È avvenuto così anche per la scomparsa di Benedetto XVI. La sua dipartita è stata occasione per ritornare su alcuni dei suoi molti testi.

Tra essi vi è la prima enciclica: Deus caritas est (25 dicembre 2005). Il suo 11o paragrafo si occupa del nostro tema. Lo affronta però in una prospettiva capovolta rispetto a quella ora indicata. Ratzinger sostiene che la prima novità della fede biblica è l’immagine di Dio da essa fornita; la seconda, strettamente connessa alla precedente, è l’immagine dell’uomo.

A questo punto l’enciclica ripercorre la vicenda che conduce alla comparsa della donna. Poi Benedetto XVI aggiunge: «È possibile vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, anche nel mito riferito da Platone, secondo cui l’uomo originariamente era sferico, perché completo in sé stesso e autosufficiente. Ma, come punizione per la sua superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora sempre anela all’altra sua metà ed è in cammino verso di essa per ritrovare la sua interezza (cf. Il Convito, XIV-XV, 189c-192d). Nel racconto biblico non si parla di punizione; l’idea però che l’uomo sia in qualche modo incompleto, costituzionalmente in cammino per trovare nell’altro la parte integrante per la sua interezza, l’idea cioè che egli solo nella comunione con l’altro sesso possa diventare “completo”, è senz’altro presente».

Secondo Benedetto XVI la ricerca della completezza costituirebbe il tratto accomunante tra i due racconti. Si tratta di un abbaglio che rende simili visioni alternative. In Platone si prospetta l’assorbimento della diversità nell’unità; nella Genesi, di contro, s’afferma l’inedita creazione di un’alterità che nell’incontro rivela, a un tempo, l’attuale pienezza e la precedente solitudine. In un mito si va alla ricerca di quanto si era perduto, nell’altro si procede verso l’inedito.

Trovare ciò che si è perduto è assai diverso dall’incontrare chi non si è mai conosciuto. In questa luce conviene rilevare che la linfa del mito platonico è strutturalmente omosessuale, la sua direzione comporta, infatti, il ritorno all’omogeneo. Nel testo del Convito si parla, non a caso, di tre specie di umanità originaria: maschio-maschio, femmina-femmina; maschio-femmina; ognuna delle quali, una volta scissa, va alla ricerca della propria metà.

Quali che siano le modalità pratiche della vita sessuale, si può senz’altro affermare che nell’eros platonico il pri-
mato nell’amore è modellato sull’«omo» e non già sull’«etero». La solitudine è una perdita, non già un punto di partenza. L’idea di completamento come ritorno all’unità primordiale fa prevalere omogeneità e fusione su differenza e relazione.

«Per questo l’uomo lascerà [alla lettera “abbandonerà”] suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie [alla lettera “alla sua donna”], e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24). Il versetto trova una sua applicazione nella halakah (norma) ebraica in base alla quale l’obbligo di sposarsi grava sul maschio e non sulla femmina, la quale deve solo attendere che le venga rivolta la proposta di matrimonio.

In prospettiva antropologica, il discorso manifesta però un’articolazione differente. Per incontrare radicalmente l’altra persona, l’essere umano deve staccarsi dalla propria origine (simboleggiata dai genitori). Vale a dire, ha bisogno di avere esperienza della propria solitudine. Anzi, più esattamente, deve acquistare la consapevolezza che è stato l’incontro a svelargli lo spessore della sua precedente solitudine.

Rubando un verso a Borges si può affermare: «Contano i legami», quelli costruiti ancor più di quelli ereditati.

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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