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Attualità
Attualità, 18/2023, 15/10/2023, pag. 607

Maggi manzoniani

Chiose al discorso del presidente della Repubblica

Piero Stefani

Sta per volgere al termine l’anno in cui ricorre il 150o della morte di Alessandro Manzoni. Il 22 maggio, nella casa in cui abitò e morì il grande scrittore, il presidente della Repubblica ha tenuto un discorso d’elevato profilo civile e culturale. Un suo passaggio afferma che Manzoni guardò alle speranze, ai progressi, alle miserie e alle cadute di genti e popoli. Si tratta di un percorso affidato, in ultima analisi, alle «mani della Provvidenza», questo però non comporta alcun rassegnato fatalismo, in quanto gli esseri umani, nella loro forza e nella loro debolezza, restano costruttori del proprio presente e del proprio futuro.

Ventidue maggio del 1873: una morte nel cuore di Milano; cinque maggio del 1821: una morte nella sperduta isola di Sant’Elena, scomparsa celebrata dal Manzoni con versi famosi che finora non sono morti. Il loro messaggio è, per più aspetti, riassumibile in questi termini: la convinzione secondo la quale la storia è guidata dalla Provvidenza comporta, intrinsecamente, il rimando a realtà poste oltre la storia. Secondo l’ode, il senso più autentico della grandiosa opera storica di Napoleone si comprende solo a partire da quel «Ei fu» annidato nella nostra memoria.

Il presidente della Repubblica ha affermato che per Manzoni il soggetto dei diritti universali è la persona «in quanto figlia di Dio», non la stirpe o un gruppo etnico o l’appartenenza a una comunità nazionale. Analogamente si potrebbe sostenere che il poeta, nell’atto di confrontarsi con una vicenda storica che ha mutato radicalmente l’Europa, parta dalla morte di una persona.

Un noto aneddoto afferma che, dopo aver visto Napoleone sfilare vittorioso alla testa delle sue truppe, Hegel abbia esclamato d’aver visto passare lo «spirito del mondo a cavallo». Di fronte alla travolgente azione storica dell’imperatore dei francesi, la preoccupazione del filosofo tedesco fu di giustificare la razionalità di quanto è reale. I trionfi di Napoleone non vanno intesi come momenti della interminabile vicenda che contrappone tra loro uomini e popoli, al contrario sono da comprendere come una svolta nel corso della storia mondiale. Hegel avrebbe sempre continuato ad assegnare a Napoleone, accanto a pochissimi altri personaggi (in primis Alessandro Magno e Cesare), la funzione di «eroe cosmico-storico». Si tratta di personalità creatrici alle quali è concesso di cambiare il mondo in cui vivono e di preparare il futuro; esse scorgono quanto è necessario e lo realizzano anche se loro, come individui, periscono. 

La lettura proposta dal Manzoni si pone agli antipodi di quella hegeliana. È eloquente che i momenti posti all’origine delle due riflessioni siano anch’essi antitetici: l’uno si dispiegò di fronte a un trionfo storico, l’altro si originò a partire dalla morte di Napoleone avvenuta «sulla deserta coltrice». La scelta di privilegiare la parte finale della vita di Napoleone – tema a cui è dedicata tutta la seconda metà del Cinque maggio – fu per Manzoni l’unico modo per alludere a un’altra storia avvenuta nell’interiorità personale e non già sulla scena del mondo. Lo scopo del poeta sta nel rivelare il ruolo dell’invisibile in vicende che paiono tutte collocate sul palcoscenico della storia: «il poeta sta al gioco, parte (…) dall’ampia scena di un’Europa sconvolta, ma è solo per ridurne il dramma a una coltrice deserta: l’inizio è conosciuto da tutti ma non il fine, che spiega proprio quell’inizio; è un’ironia ma è anche un trionfo».1

Il ruolo della religione

Il cinque maggio è ascrivibile, a suo modo, agli Inni sacri. Le caratteristiche che avvicinano l’ode dedicata alla morte di Napoleone alle poesie riservate alle feste cristiane sono le stesse che lo distinguono dall’altra ode civile, Marzo 1821, composta pochi mesi prima (ma pubblicata solo nel 1848). L’intenzione di quest’ultima è di porre in evidenza che Dio opera nella storia visibile. La composizione poetica si rifà alla «storia sacra», essa presenta infatti l’esodo dall’Egitto e il colpo inferto dalla «maschia Giaele» al cananeo Sisara tanto come forma di liberazione politica di Israele quanto come caparra per la fine del lutto di cui sono gravate le «itale genti» (cf. Marzo 1821, vv. 63-73).

La funzione direttamente civile assunta dalla componente religiosa è richiesta dall’aver individuato nell’«altare» uno dei tratti costitutivi dell’identità nazionale: «Una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821, vv. 31s). Ci troviamo su un crinale per più aspetti pericoloso. 

Nel suo discorso Sergio Mattarella si è giustamente preoccupato d’evidenziare dei distinguo carichi di trasparenti risonanze legate all’attualità: «A proposito del Romanticismo del Risorgimento italiano si cita spesso la triade Dio, patria e famiglia, quasi in contrapposizione alla triade della Rivoluzione francese, libertà, eguaglianza, fraternità. È una cesura eccessivamente schematica».

Secondo il presidente della Repubblica, Manzoni non rinnegò i valori della Rivoluzione francese; al contrario li approvò, insistendo soprattutto su quello più trascurato, la fraternità; anzi, è proprio in nome loro che l’autore de I promessi sposi ne denunciò il tradimento compiuto a opera del giacobinismo e del Terrore.2

Nonostante la fortuna dei due versi sopracitati, Manzoni fu lontano dall’assegnare alla religione una funzione identitaria in senso nazionale. In proposito, un suo pensiero non dà adito a dubbi: «Le due parole religione nazionale, parole pronunciate da alcuni con grande riverenza, con ammirazione, con invidia, esprimono l’ultimo grado di stravaganza e di abiezione, cui possa giungere la ragione umana (…) Chi dice religione nazionale fa come in tante altre cose fa chi, volendo o non volendo un’idea, l’afferma nel termine consacrato a esprimerla, e la nega con un epiteto indicante una qualità incompatibile coll’idea stessa».3

Si comprende quindi la presa di distanza manzoniana dal neoguelfismo giobertiano: «Cattolico integrale, ma non integralista, Manzoni ha affrontato la questione dell’ingresso e della presenza delle masse cattoliche all’interno del processo risorgimentale e di formazione nazionale, respingendo ogni tentazione di mantenimento di forme di potere temporale della Chiesa, da lui considerato storicamente superato, origine di corruzione e di gravi mali» (Sergio Mattarella).

Una «provvida sventura»

Non pare errato dichiarare che per Manzoni la più penetrante critica rispetto all’uso civile della religione sia rappresentata dall’appello a una fede nell’eterno, accompagnata da un laico impegno civile. Letta in questa chiave Il cinque maggio costituisce una precisa smentita alla strumentalizzazione della religione in senso nazionale. L’ode si propone, infatti, di mettere in rilievo il destino eterno di una persona e non già la funzione collettivo-identitaria della religione. Napoleone rappresenta per Manzoni il massimo delle potenzialità umane dispiegatesi sul piano storico: «Ei si nomò: due secoli, / l’un contro l’altro armato, / sommessi a lui si volsero / come aspettando il fato; / ei fe’ silenzio, ed arbitro / s’assise in mezzo a lor» (vv. 49-54). Tuttavia, nell’ode, l’imperatore non è presentato né come un «eroe cosmico-storico», né come ribelle prometeico che vuole infrangere i decreti divini; ipotesi, quest’ultima, destituita di fondamento dal fatto che Dio stesso volle nell’«uom fatale» «più vasta orma stampar». La fine di Napoleone a Sant’Elena è posta all’insegna di una riconciliazione con Dio, collocata dopo una serie di eventi straordinari divenuti per la persona che ne fu il principale protagonista una forma di «provvida sventura». Mimando Dante, va affermato che già sulla «deserta coltrice» si sarebbe potuto udire il detto: «Imperatore fui e son Napoleone». Come in altro contesto avvenne per Ermengarda (cf. Adelchi, Coro dell’Atto IV, vv. 103-108), l’ossimorica espressione di «provvida sventura» è forma adeguata a individuare lo stile con cui Dio opera nel mondo. 

Quanto nella dimensione del visibile appare una sconfitta, diviene occasione perché vi sia una riconciliazione con l’eterno.

La seconda parte dell’ode è dominata dal contrasto tra l’angustia della «breve sponda» e la vastità dei ricordi, tra l’ozio presente e l’azione passata, tra il tentativo di eternizzare le imprese narrandole e l’incapacità di portare a termine un simile compito. L’antitesi tra l’angusto presente e il troppo grande passato rende impossibile la narrazione: «E sull’eterne pagine / cadde la stanca man» (vv. 71s).

La grandezza degli eventi storici induce a considerare eterne quelle pagine, tuttavia nei loro confronti si staglia l’interrogativo lasciato ai posteri: «Fu vera gloria?». La «stanca man» non ha però bisogno d’appellarsi a chi vivrà nel futuro; essa, infatti, riceve una risposta immediata a opera di un’altra mano, robusta e soccorrevole «… ma valida / venne una man dal cielo» (vv. 87s).

Anche l’incapacità napoleonica di stendere (a differenza di Cesare) le proprie memorie è una forma di «provvida sventura» in cui il cadere di una stanca mano umana consente che dal cielo scenda una misericordiosa mano divina.

 

1 R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, Vallecchi, Firenze 1969, 50.

2 Fondamentali in proposito le osservazioni contenute in «Dell’invenzione. Dialogo», in A. Manzoni, Scritti filosofici, a cura di R. Quadrelli, BUR, Milano 1976, 466-469.

3 «Pensieri religiosi e vari». III, in Scritti filosofici, 496s.

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Cultura e società Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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