Israele - Hamas: nel tempo dell’odio
Riconoscere il dolore dell’altro
L’attacco lanciato dai miliziani di Hamas all’alba dello Shabbat, il 7 ottobre, ai territori israeliani limitrofi alla Striscia di Gaza è un atto di guerra che ha preso di mira, esibendone l’orrore omicida, soprattutto i civili.
Il segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, nel commentare la mattanza di Hamas del 7 ottobre scorso (1.400 israeliani trucidati, 200 rapiti e tenuti in ostaggio), già a conclusione del nostro convegno a Camaldoli (cf. in questo numero a p. 547) l’8 ottobre, ha parlato di «attacco disumano» e, citando un’espressione del card. Martini del 2003, ha aggiunto a braccio: «Solo se ogni popolo guarda il dolore dell’altro, la pace s’avvicina». La seconda considerazione a caldo ha riguardato i timori per la reazione d’Israele e la messa in discussione degli Accordi di Abramo, del 2020, che tracciavano la strada verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele.
L’attacco lanciato dai miliziani di Hamas all’alba dello Shabbat, il 7 ottobre, ai territori israeliani limitrofi alla Striscia di Gaza è un atto di guerra che ha preso di mira, esibendone l’orrore omicida, soprattutto i civili. Niente a che vedere con le due Intifada degli anni precedenti. Bensì una massiccia e sorprendente offensiva militare. Sorprendente, almeno nella misura, anche per Tel Aviv.
Era capitato anche in passato, se si pensa all’avvio della Guerra del Kippur nell’ottobre del 1973. Ma il mito dell’invincibilità delle Tsahal (Forze di difesa israeliane) ha coperto distrazioni e scelte politiche inadeguate, compiute soprattutto dai numerosi e screditati governi di Benjamin Netanyahu. Più che rafforzare l’Autorità palestinese, Netanyahu ha preferito dividere politicamente la Cisgiordania da Gaza lasciando, a partire dal 2007, campo libero ad Hamas su Gaza, da gestire esclusivamente come un problema di sicurezza.
C’è stata una rimozione politica della questione palestinese e una sottovalutazione di Hamas come gruppo terroristico, saldamente collocato – assieme all’Iran e agli Hezbollah libanesi, che lo sostengono militarmente – nell’asse dei paesi che perseguono l’obiettivo dichiarato della distruzione d’Israele.
Israele ha il diritto di difendersi
Questo scenario non è neppure pensabile in sé dall’Occidente. E non dovrebbe esserlo neppure da parte di alcun paese o governo o cultura, e tantomeno religione. Israele ha diritto di difendersi.
Per tentare di raggiungere il suo scopo, Hamas ha inteso dimostrare la vulnerabilità d’Israele; ha cercato la legittimazione quale unico rappresentante dei palestinesi (di qui l’appello alla rivolta); e ha cercato di bloccare sul nascere l’accordo tra Israele e Arabia Saudita. Se il primo obiettivo era stato raggiunto solo simbolicamente, il secondo, dopo l’esplosione nell’ospedale gestito dagli anglicani Ahli Arab di Gaza (attribuita subito a Israele, ma, secondo l’intelligence di diversi paesi
e la documentazione fornita dal New York Times, frutto di un missile del Movimento per il Jihad islamico, che ha causato numerosi morti), rischia di mettersi in moto, anche se i governi dell’intero mondo arabo temono questo esito. Mentre il terzo, al momento, è solo sospeso.
L’attuale governo Netanyahu (il più a destra e tra i più deboli e contrastati nella storia israeliana), troppo concentrato sulla propria crisi politica, ha indebolito il paese: la riforma del sistema giudiziario, che aveva profondamente diviso il paese in due e provocato persino l’opposizione delle forze armate, ne è stato un passaggio significativo.
Il nuovo governo d’emergenza nazionale deve decidere in fretta che cosa fare. Israele, oltre alla rabbia, non sembra avere al momento né un progetto sulla conduzione di questa guerra, né sul dopo. Le due cose sono strettamente connesse. La conduzione di questa guerra è figlia del dopo.
Pur in una situazione drammatica qual è quella nella quale Israele si è venuta a trovare, non può non distinguere tra Hamas e i palestinesi, tra i terroristi e la popolazione di Gaza ostaggio di fatto degli stessi terroristi. Non a caso il presidente Biden nel suo discorso tenuto il 18 ottobre a Tel Aviv, oltre a riconfermare tutto il sostegno statunitense a Israele, ha sottolineato che «bisogna fare giustizia. Ma vi avverto: mentre sentite questa rabbia non fatevi consumare. Dopo l’11 settembre, negli Stati Uniti… abbiamo commesso anche degli errori».
In questo contesto locale e internazionale – afferma Biden – è necessario non cedere alla rabbia e allo spirito di vendetta. Non si può colpire ovunque. Meglio le azioni politiche di quelle militari, anche se queste non possono essere escluse.
Nel contesto internazionale
In tutto questo, ci sono paesi che hanno tutto l’interesse a indebolire ulteriormente l’Unione Europea e l’asse delle democrazie occidentali. Putin, che ha perso una guerra, vede nel disastro mediorientale la possibilità di rientrare nel gioco internazionale. La Cina raccoglie un fronte anti-occidentale del tutto ambiguo in nome della pace.
L’attacco da parte del governo israeliano alla Santa Sede e ai patriarchi mediorientali (cf. in questo numero a p. 553), ad esempio, è stato un errore. La condanna del massacro di Hamas è stata immediata, lo stesso patriarca di Gerusalemme, pur giustamente preoccupato per le sorti dei palestinesi, ha stigmatizzato l’attacco: «C’è una dimensione di odio profondo da parte di Hamas nei confronti di Israele e di ciò che è ebraico».
Dovrebbe inoltre fare riflettere il fatto che il primo appello di Hamas all’Intifada, dopo la mattanza su Israele, sia rimasto senza riscontro nel mondo palestinese e che dopo l’esplosione all’ospedale, a livello di comunicazione e non solo, sia iniziata la protesta nel mondo musulmano, la dissociazione politica, persino il dubbio occidentale.
L’odio cresce se la memoria è solo di una parte
È come se non potessimo accettare la figura d’Israele come vittima; è come se avessimo inconsciamente la necessità (che giace nel profondo della storia) che Israele sia in qualche modo colpevole. In
questo senso la Shoah è un evento storico-esistentivo insuperato. Se c’è uno spiraglio è davvero quello del riconoscimento del dolore dell’altro.
Merita allora d’essere ripresa fino in fondo la citazione dell’artico-
lo del card. Martini – apparso sul Corriere della sera del 27 agosto 2003 – fatta dal segretario di Stato vaticano.
Quel testo fu scritto anche allora dopo un attentato terroristico contro un autobus a Tel Aviv: «Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».
Gianfranco Brunelli