Dialoghi delle carmelitane
Capita che un romanzo si ripresenti vividissimo a seguito di un’esperienza personale tanto profonda da segnare una cesura. Muore un’amica ancora troppo giovane, innamorata della vita, e muore serena malgrado sia piena di progetti e insieme di consapevolezza di quel che le sta capitando. Le malattie sono anche così, a volte lasciano il tempo di sapere e pensare.
E a noi, accanto, viene in mente un testo letto tanto tempo fa, ma tanto, a un’età non proporzionata alla profondità delle parole lette. Non è un romanzo in senso stretto ma è una storia e ha il potere unico che solo le storie hanno, quello di rappresentarci. Dev’essere per questo che Gesù ha insegnato con le storie e non con i trattati (teologici).
Georges Bernanos ha scritto i Dialoghi delle carmelitane (qui Morcelliana 2014) sul confine estremo della sua vita (1947-1948, morì nel 1949). È un testo che scorre tutto, letteralmente dalla prima all’ultima pagina, sotto il segno della paura, paura della morte. Il fatto è storico. Nel 1794, durante il Terrore, sedici monache carmelitane del convento di Compiègne, a nord di Parigi, vengono trasferite nella capitale e ghigliottinate in place de la Nation con l’accusa di cospirazione, in realtà perché rifiutano di rinunciare ai propri voti, che i rivoluzionari ritengono superstizioso retaggio dell’Ancien régime.
Questo episodio passato alla memoria popolare con l’emozione legata alla drammatica rappresentazione della fede delle monache, che andarono al patibolo vestite dei loro candidi mantelli e cantando il Veni Creator Spiritus, ispirò prima un romanzo di Gertrud von le Fort (1937) e poi il testo di Bernanos, ed è stato mille volte ripreso, amato, rappresentato, anche in musica, meravigliosa musica di Francis Poulenc, e in film e ancora a teatro.
È un testo corale ma il personaggio che dà il tema, il filo della narrazione, è la giovanissima novizia Bianca De La Force, un cognome che sembra antifrastico e invece. È un personaggio letterario e per questo forse quasi più vero dei personaggi storici. Lei è la figlia più giovane del marchese De La Force, nata nel 1774, la notte in cui Luigi XVI va a nozze, nata sotto il segno della paura, perché la madre la partorisce dopo che la sua carrozza è stata fermata, i cavalli spaventati, i due giovani marchesi minacciati dal popolo in festa sì per il re, ma presto pronto a ucciderlo.
Bianca è una bambina e poi ragazza cresciuta sotto l’ombra della propria paura, timorosa di ogni cosa, dal piccolo rumore di casa al progetto di un matrimonio con fosse pure un bravissimo pretendente amico. La vita è troppo per lei: «Il mondo per me è solo un elemento nel quale non potrei vivere» (33) ed entra nel monastero delle carmelitane, giovane postulante, proprio quando scoppia la Rivoluzione. Il resto è dialogo e il dialogo è l’arte dell’incontro, fra gli uomini e, qui, fra le donne, e con Dio.
Suor Bianca dell’Agonia di Gesù, questo il nome che la giovanissima monaca ha scelto per sé, trova nel convento un mondo buono, le sorelle sono diversissime ma certamente sono sincere e tutte cercano il Signore. I dialoghi sono vette di teologia. Si può offrire una vita che non si ama? (53). Si deve cercare il martirio? (79). Si può andare in convento per paura, o per «paura della paura»? (98). Cos’è la vocazione? Opporsi all’ingiustizia oppure espiarla? (124).
E la follia di quel che accade, perché? Suor Matilde: «Hanno paura. Tutti hanno paura. Si comunicano la paura gli uni agli altri, come in tempo di epidemia la peste o il colera»... Bianca: «La paura è forse, davvero, una malattia»... Madre Maria: «Non si ha paura, ci si immagina di aver paura. La paura è una fantasmagoria del demonio» (136).
Alla fine tutto diventa vertigine. Madre Maria, la più determinata e intrepida delle monache, che ha indotto le suore al voto di martirio, è lontana dal patibolo, non per suo volere, ma perché sta inseguendo Bianca e riportarla a sé stessa. Ma mentre suor Bianca dell’Agonia di Gesù raggiungerà, ultima e liberissima nella sua volontà, sul patibolo le consorelle, madre Maria resterà lontana, si salverà dalla morte, forse per non tentare Dio, forse perché quel suo essere lontana è proprio volontà di Dio. Chissà.
E allora come sta la paura con la fede?
La verità è che non lo sappiamo. Non sappiamo proprio niente.
I Dialoghi riportano una riflessione folgorante, folgorante e se si può dire, definitiva, su questo punto.
Parla suor Marta, che non è, si direbbe in linguaggio cinematografico, uno dei personaggi principali: è una suora qualsiasi, in cerca di Dio. Questo lei dice: «Nel giardino degli Olivi, Cristo non era più padrone di nulla. L’angoscia umana non era mai salita più in alto, e mai più raggiungerà quel livello. Aveva ricoperto tutto in lui, salvo quell’estrema punta dell’anima in cui si è consumata la divina accettazione». La punta dell’anima (144). Si può dire meglio?
Non importa avere paura, non importa avere dubbi, questo fa parte del nostro essere creature, mortali, fragili come tutto qui sulla terra. Importa conservare il luogo, la punta dell’anima o il fondo del cuore o la luce piccola interiore, in cui poter accogliere, ricevere, consumare la divina accettazione.
E si è grati quando la storia personale ci permette d’essere accanto a un’amica che senza chiasso e con semplicità vive questa divina accettazione.