La casa delle parole
Andare a cercare e a rileggere La casa delle parole di Cécile Coulon (Keller, Rovereto [TN] 2015), piccolo inquietante sapiente romanzo distopico uscito in Francia esattamente 10 anni fa, è stato quasi automatico nel vortice della discussione nata intorno alla cinquina del Premio Strega 2023. Quattro dei cinque romanzi finalisti propongono storie di drammi famigliari, in tre casi autobiografici in senso stretto. La qualità delle narrazioni è materia della critica e dei lettori e soprattutto delle lettrici, visto che in Italia sono soprattutto le donne a leggere.
Qui invece si vorrebbe incrociare il tema del trauma come oggetto di letteratura e insieme il potere delle parole. Il dibattito è stato aperto da un articolo della critica letteraria Parul Sehgal sul New Yorker uscito il 27 dicembre del 2021 ed è arrivato presto in Italia. Ora ritornato attuale per quella che appare un’insistenza di autori ed editori sul trauma come trama esplicita o nascosta di un romanzo.
Naturalmente la domanda più ingenua e però piuttosto importante è se sono i lettori a chiedere traumi da leggere, o se invece sono gli scrittori a scrivere meravigliosamente storie di traumi oppure ancora se gli editori chiedono e pubblicano queste storie per alimentare un fiume che per ora ha una portata generosa di vendite.
Ecco, questo romanzo di Cécile Coulon è esattamente sul potere della narrativa. Di una certa narrativa, però.
La storia. In un paese innominato in cui il Potere, come ogni potere, ha l’ossessione di autoconservarsi, senza che niente di particolarmente rivoluzionario sia accaduto, senza che una crisi particolare abbia dato un preavviso della catastrofe, il Grande che governa trova la strada del controllo assoluto.
Una strada bizzarra, suggerita da una donna che è forse psicologa ma soprattutto è una esperta conoscitrice e manipolatrice di menti. Si devono usare le parole.
In principio era il Verbo, lo sappiamo, e il Verbo era Dio. Vorrà pur dire qualcosa. Le parole da usare sono parole perfettamente addomesticate, narrazioni, romanzi costruiti perché le persone si emozionino, si disperino, ridano anche, si devastino del piacere di lasciarsi andare. E poi tornino a fare la vita che il Potere vuole. Innocua e senza emozioni. Soprattutto senza rivoluzioni. Perfetta per il Potere.
In brevissimo tempo spariscono i classici, tutti i classici, sostituiti da narrazioni costruite a tavolino, che le persone adorano. Si organizzano letture pubbliche, in enormi stadi. I biglietti vengono venduti in poche ore, alle porte c’è la folla di chi vuole entrare comunque.
Biglietti per che cosa? Per Letture Pubbliche. Un Lettore addestratissimo su pause, crescendi, calandi, voce impostata, abilità affinatissime, legge libri scritti da Scrivani di qualità, addestrati a usare ogni strumento seduttivo per sollecitare gli animi, farli impazzire, catarsi collettiva, droga controllata, infinitamente più potente e meno pericolosa di tutte le altre droghe, sparite, nel tempo sparite.
I libri letti negli stadi sono Libri Risate a Crepapelle, Libri Odio, Libri Brividi e Libri Tenerezza. Imperversano i Libri Brividi, seguono i Libri Odio, gli altri sono quasi orfani. Gli editori sono le Case delle Parole, che danno lavoro a Scrivani competenti, niente creazioni bizzarre, sono meccanismi perfetti di assoggettamento emotivo confezionati in modo altrettanto perfetto nella lettura pubblica, la Manifestazione, e «la Manifestazione era una dimostrazione di sottomissione affettiva: ventimila paia di gambe, di occhi, di emisferi cerebrali pagavano perché gli iniettassero centodieci pagine – massimo – di amore, rabbia, orrore o miracoli» (20).
Certo che questo tipo di eventi di collettivo straripamento emotivo è pericoloso, ma il controllo viene assicurato da una precisa categoria di persone, i membri del Servizio Nazionale.
In realtà la narrazione segue la storia di uno di loro, il numero 1.075. Non hanno nome nel momento in cui fanno domanda per il Servizio Nazionale. La fanno spontaneamente, più o meno. Vengono da campagne devastate dalla povertà, una vita bestiale che si può leggere come metafora, anche se certe nostre realtà superano di sicuro quel che viene raccontato.
I bambini che si lasciano allettare da questo lavoro sanno che saranno ricchissimi, potentissimi, temutissimi, avranno cuochi, autisti e camerieri, in cambio della ferocia con cui devono saper controllare ogni sbavatura emotiva dei cittadini che possa diventare pericolosa per l’ordine costituito.
Solo che c’è una condizione. Loro devono essere analfabeti, non devono imparare a leggere, mai e poi mai. Se non sanno il potere delle parole dentro di loro possono controllare il potere delle parole in chi lo conosce sì, ma nella forma addomesticata che il Potere impone e attraverso cui governa.
Ma non viene loro la curiosità? No. «In generale il lusso offerto uccideva ogni velleità di conquista o di rivolta» (38). Nemmeno ai cittadini veniva voglia di leggere altro? No, le opere offerte sono «calibrate secondo il tipo di emozioni attese dal lettore» (69).
Una volta portata a perfezione la tecnica di scrittura che soddisfa le attese dei cittadini, sparisce anche il bisogno d’altro.
Ecco. Poi un giorno 1.075 incappa per caso in una giovane infermiera, maestra anche lei per caso. E scopre che il cervello può sottrarsi a tutte le ispezioni, è un «ultimo rifugio» in cui nascondere quello che vuole, anche l’alfabeto che ha incrociato e memorizzato proprio in virtù di quell’addestramento a ricordare senza leggere che lo aveva forgiato.
E qui comincia una storia d’amore. Con le parole.
C’è da pensare tanto, leggendo La casa delle parole, e questo fa un romanzo quando è un buon romanzo.