L’assedio dei ricordi
Alla morte di un fratello
Muore un fratello e mi rivedo che mi prende in braccio dal lettuccio e mi porta al fuoco: uno dei primi ricordi. Lo rivedo anche che mi parla piano piano mentre la mamma passando domanda: «Gli hai fatto fare il segno della croce?». Era quella la prima operazione del mattino.
Eravamo sette e tre già si sono avviati, quasi in ordine di età. Io sono il sesto. Siamo gente disciplinata. Addestrati a tenere ognuno il suo posto, intorno alla spianatoia con la distesa della polenta nella vecchia casa contadina.
In quella casa tutti siamo nati, con le vicine accorse a dare una mano alla levatrice, a scaldare l’acqua, a portare fuori fratellini e sorelline quando la mamma già gridava dietro la porta socchiusa.
Quella volta che una mucca
mi diede un calcio in testa
La corrente elettrica, in quella campagna tra Recanati e Osimo, è arrivata 10 anni dopo la nascita dell’ultima tra noi. Prima del suo arrivo, ma anche dopo per un buon tempo, nelle mattinate d’inverno tutto ruotava intorno al camino con il fuoco acceso. La mamma s’alzava per prima e l’accendeva. Accostava i legni, metteva a bollire l’acqua nel paiolo grande, che sarebbe servita a tutti.
Essendo tanti e poveri, i più grandi si occupavano dei più piccoli
c’erano ruoli fissi. Io ero affidato
a questo fratello Italo, che ora se ne
è andato e che aveva otto anni più
di me.
A due a due si andava al fuoco e al fuoco ci si vestiva. Si mettevano carboni negli zoccoli e li si scuoteva perché si scaldassero. Poi li si agitava rovesciati per fare uscire il fuoco e infilare il piede, avvolto in pezze. Donde «pezza da piedi». Qualche volta restava là dentro una scintilla e si strillava e si rideva. È un ricordo vivissimo, quasi gioioso, questo della favilla nello zoccolo. Avrò avuto tre anni?
Gli zoccoli di legno e cuoio, lavorati dal babbo, proprio come nell’Albero degli zoccoli. E pensare che stavano per arrivare le scarpe da tennis. Vista dai piedi, un’epoca prendeva il posto di un’altra.
Ma non sono affatto sicuro che quello del fuoco negli zoccoli sia il ricordo più antico. Forse lo è quello del calcio della mucca. Non c’erano riscaldamenti di sorta e la catasta della legna andava conservata il più a lungo possibile. Si facevano dunque lunghe serate nella stalla, dove ci si scaldava al fiato dell’asino e del bue, come Gesù nel presepio.
Una volta una delle mucche, chiamata Cimaré – perché tutte avevano un nome, come i cristiani – mi diede un calcio in testa, che ero un frugolo e gli razzolavo tra i piedi. Sembrava che dovessi morire. Mi tolsero il letame dalla tempia e mi misero a dormire prima del solito, nessuno se la prese con la mucca.
La luce elettrica arrivò nel 1953. Con la luce arrivò la radio. Finirono le serate nella stalla. Si continuò ad andarci, noi ragazzi, per stare senza i vecchi, a giocare a carte e a fare chiasso, specie durante le settimane di carnevale. Si chiamava «andare a veglia». Lo facevano solo i maschi. Ci si riuniva a turno nelle stalle del vicinato. Gli uomini giocavano a carte o a morra, noi piccoli facevamo la lotta sulla paglia. Le donne venivano a portare le frittelle, che si chiamavano scroccafusi.
Paesaggio invernale
trappole per uccelli
Le veglie di carnevale durarono fino all’arrivo della televisione, che fu 10 anni più tardi rispetto al calcio della mucca. La televisione segnò la fine – l’inizio della fine – di tutti gli usi contadini. Le antenne sui tetti: uno spartiacque antropico.
Però le veglie non erano la stessa cosa delle serate nella stalla. Erano roba da maschi e da carnevale. Le serate invece erano di tutta la famiglia. Le donne facevano la maglia e addormentavano i bambini. I vecchi raccontavano le storie di Bertoldo o del Guerin Meschino: o meglio raccontavano di quel tale che era bravissimo a raccontare quelle e altre storie. Non ho mai sentito racconti diretti, ma solo racconti di racconti. E la cosa avrà pure un significato, ma non l’ho mai trovato nei libri.
Riavvolgo il nastro e torno ai primi ricordi. Infilati gli zoccoli si usciva per giochi e per faccende, in aiuto ai grandi, tra gli animali da cortile e i cani e i gatti. Le oche che allungavano il collo e spaventavano i più piccoli, il caprone che ti prendeva a testate.
Quando c’era la neve mettevamo trappole per i passeri, proprio come nel quadro di Bruegel che si intitola Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli. Spargevamo una manciata di briciole o di cicerchia sotto una porta scardinata, appoggiata a un piolo. La corda si tirava dalla stalla.
Con la scuola i ricordi si fanno più netti e arriva quel giorno che piangevo e piangevo perché nella cartella di legno e cerata, costruita anche quella dal babbo, non avevo la gomma per cancellare: la maestra aveva detto che la dovevamo avere tutti e mi pareva una situazione tragica.
Ma le Litanie
non si lasciavano mai
Aspettavo sull’uscio che arrivasse da noi la cuginetta Maria, stessa età, che abitava poco lontano e poi ci si avviava verso la scuola di Quattrobotti. Quando c’era la nebbia avevamo paura a passare sotto i fili sfrigolanti dell’alta tensione: ci fermavamo a distanza, ci prendevamo per mano e correvamo. Poi ci voltavamo a guardare il pericolo che avevamo corso.
Ci sono anche ricordi notturni e non solo di veglie nella stalla, ma anche di imprese fuori stalla. Il più curioso riguarda la pipì dei maschi sul letamaio. Non c’erano gabinetti nelle case contadine: c’era il vaso da notte sotto il letto e c’era una latrina dietro la casa. Dopo il Rosario e prima di dormire si andava tutti a fare la pipì. Le due sorelle nella stalla, noi cinque maschi sul muretto ai bordi del letamaio.
Ho accennato al Rosario: c’era sempre, alla sera, dopo la cena. Guidato dal capofamiglia. Seguito dalle Litanie lauretane. Solo in estate, nelle settimane dei grandi lavori: fienagione, mietitura, trebbiatura, aratura, il Rosario veniva ridotto alle sole Litanie. Queste non si lasciavano mai.
La religione faceva parte del paesaggio, come le querce e i pantani. La vigilia di Natale, quando uscivamo per andare alla messa della notte, lasciavamo un lume acceso a un davanzale che dava sulla strada maestra. Quel lume stava a dire – spiegava la mamma – che offrivamo la nostra casa a Maria e Giuseppe, se avessero voluto fermarsi da noi, in quella notte in cui non trovavano posto nell’albergo.
Siccome la strada – da cui si intravedeva il lume, tremolante tra gli stecchi della siepe – era la stessa che portava a Loreto, noi bambini immaginavamo che Maria e Giuseppe non lo vedevano, il nostro piccolo lume, e continuavano a cercare fino a quando arrivavano alla Santa casa di Loreto e lì si fermavano. Ma se l’avessero visto, Gesù avrebbe potuto benissimo nascere nella nostra casa e noi ve l’avremmo trovato tornando dalla messa.
La casa era – è – a 10 chilometri da Loreto, dove si andava a piedi e poi in bicicletta e infine con la moto. Ricordo – o credo di ricordare – l’ultima volta che ci andammo con il biroccio tirato dalle mucche. Avrò avuto 4 anni: sarà stato il 1947 o 1948.
Era il mio tutor
nella nidiata
Si partiva che era ancora buio e questa era già un’avventura. Salivamo tutti insieme, come per andare al mulino o alla festa di sant’Antonio abate, nella quale si portavano a benedire gli animali. Gli uomini seduti sulle sponde, le donne e i bambini dentro, su una cassetta dell’uva rovesciata con sopra una coperta da cavallo.
Dopo il 1950 – segnato dall’impresa dei genitori che vanno a Roma per l’Anno santo – la scena cambia: le strade da noi sono ancora bianche, ma cominciano ad arrivare motociclette e automobili. E a Loreto mi è capitato di andarci anche col «càmio de Storà»: si mettevano insieme più famiglie per pagare il camionista, che alzava la cerata a coprire dalla polvere e metteva tutti a sedere su panche di legno lungo le sponde. Ma noi piccoli si sguazzava al centro del cassone.
Infine l’automobile dello zio Rico: una gloriosa Balilla, l’unica del parentado e della contrada, sulla quale – non so come – salivamo tutti.
Poco dopo, sarà stato il 1955, babbo comprò un Galletto, che era una moto Guzzi 125. In casa eravamo otto, il Galletto faceva due viaggi e i ragazzi andavano in bicicletta: i grandi sui pedali e i piccoli sulla canna. Anche in queste fiabesche biciclettate io ero affidato a Italo.
Era il mio tutor nella nidiata. Per primo lasciò i campi e si fece trattorista e comprò la moto: una MV 175. Io, il più piccolo dei maschi, sono l’unico che ha potuto studiare. Italo, con il ricavato delle arature, mi aiutava a pagare le tasse universitarie, con la moto mi portava alla stazione delle corriere di Macerata, o alla stazione ferroviaria di Jesi quando partivo per Roma.
Gli prendevo le mani
e parlavamo con gli occhi
Rideva molto ma parlava poco questo nostro fratello. Alla fine poi era sordo e quasi non parlava più. Di indole solitaria, non si era sposato. Quando l’andavo a trovare, nella casa di riposo dove ha passato le ultime stagioni, gli prendevo le mani tra le mie e parlavamo con gli occhi.
L’ultima vera conversazione con lui ebbe ad argomento sconclusionato la politica, di cui nulla intendeva. Ma nella confusione che faceva, di nomi e di furfanterie, una cosa chiara la disse, in quell’occasione, su una cena elettorale che un politico aveva dato in una chiesa. Disse che quella cena era «la peggio ladreria» che colui avesse potuto fare. Io avevo – da lontano – una certa stima per quel politico e gli chiesi perché ne fosse restato così disgustato: mi rispose che la cena la poteva fare dove voleva, ma mai in chiesa «per rispetto a Cristo».
Con quelle sue giuste parole termino il ricordo che volevo fare di questo mio fratello Italo, caro e silente.