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Attualità
Attualità, 6/2021, 15/03/2021, pag. 203

COVID e fede

L’affidamento nella parola dei guariti

Luigi Accattoli

Per intendere la pandemia, dopo aver ascoltato i morti – come invitavo a fare lo scorso mese (cf. Regno-att. 4,2021,135s) – il secondo passo è d’interrogare i guariti che la morte l’hanno vista in faccia. È quello che mi propongo questa volta.

Tra le 84 storie di COVID-19 che sono venuto raccogliendo nel blog www.luigiaccattoli.it, richiamerò quelle marcate dal segno dell’avvicinamento alla morte e per ognuna porrò la domanda sulla lezione che la persona coinvolta ne ha ricavato.

Incontreremo chi ha temuto di morire non sentendosi pronto e persino chi ha desiderato morire, per porre fine al tormento. Tra i credenti molti ci parleranno del soccorso che è loro venuto dalla fede e dell’affidamento che hanno avuto la grazia di sperimentare. Concluderemo con un prete biblista di Trento, don Piero Rattin, che ha preso il contagio e l’ha vinto e ha poi scritto – per incarico dell’arcivescovo – un «atto di affidamento» a Maria che l’arcivescovo ha pronunciato in cattedrale il 3 aprile 2020.

«Ho avuto un tracollo e ho visto la morte. E come uomo di fede ho vissuto un momento forte, intenso, di sguardo reale sulla morte davanti a Dio»: così parla Claudio Rubagotti, prete di Cremona passato per la terapia intensiva.

Ero certo
che sarei morto

Ancora più accostante è l’espressione che usa il vescovo di Pinerolo Derio Olivero: «Ho camminato due o tre giorni lucidamente con la morte». E ancora: «A un certo punto ero certo che sarei morto. E in quei momenti ero in pace, tranquillo. Sentivo che c’era una forza che mi teneva vivo. Quando mi sono svegliato ho visto che centinaia di persone si sono raccolte per pregare per me» (cf. anche l’intervista a mons. Olivero su Re-blog del 19.11.2020).

Lo stesso collegamento tra gli oranti e l’aiuto ricevuto mentre camminava con la morte, accennato dal vescovo Derio, lo svolge un cristiano comune di Trento, Giacomo Radoani: «Al momento del risveglio post-sedazione ho avuto nettissima la sensazione/visione di una folla di persone che, unita e compatta come una falange, pregava, invocava, reclamava in certo senso spingendo lontano sorella morte».

Franco Amati, parroco ambrosiano, si dice anch’egli «vivo per miracolo» e anch’egli riferisce del gran numero di persone in preghiera per lui che «adagio adagio risaliva tra i vivi».

L’impressione di aver compiuto un «viaggio estremo ai confini della vita» e di essersi «affacciato a una regione cui normalmente i vivi non hanno accesso» è condivisa da Andrea Zanotti, 64 anni, docente di Diritto canonico a Bologna.

Altri vedono ricapitolata nella probabilità della morte la propria vita, a tale momento già mirata: «Il pensiero che fosse giunto il momento del “passaggio” non mi spaventò. Ricordai che avevo sempre atteso il momento dell’incontro con quel Dio che aveva dato e dà senso a tutta la mia vita. Non ebbi paura, ma sentii la profondità della preghiera di abbandono, di fiducia» dice don Ennio Apeciti, rettore del Seminario lombardo in Roma.

Chi è arrivato più in là, nella veduta della morte, è forse – tra i miei testimoni – Piero Perazzoli, dirigente sportivo emiliano: «Quello della terapia intensiva è stato un periodo terribile, popolato da incubi. A un certo punto sono arrivato a sperare di varcare la soglia, stavo troppo male e non riuscivo a sopportarlo».

Bisogna passare
per questa solitudine

Francesco Cusaro, novarese di 58 anni, mette l’accento sulla solitudine che il malato di COVID sperimenta di fronte alla possibilità concreta di morirne: «È stata un’esperienza devastante. L’isolamento non è solo fisico, è psicologico. Ho provato una grandissima paura».

Il francescano Salvatore Morittu, animatore di una comunità di recupero a Sassari, trova nella solitudine una via al dialogo dell’affidamento: «In quella solitudine, con la lucidità che l’ossigeno ha prodotto nel cervello, ha preso spazio nei miei pensieri non solo la possibilità, ma la certezza di morire. Ho cominciato a dialogare con Dio».

Il trovarsi soli di fronte alla morte è considerata una condizione che favorisce la ricerca del volto del Signore da vari protagonisti delle storie: «Nella vita bisogna passare per questa solitudine per capirla; bisogna viverla», dice don Luca Casarosa, cappellano d’ospedale a Pisa, che ha accompagnato più di cento morenti di COVID.

L’attraversamento della solitudine può essere colto in positivo anche da un punto di vista laico, come fa Marco Perale, assessore alla Cultura al comune di Belluno: «Ci sei solo tu e l’assoluto che ti si spalanca davanti».

Roberto Donadoni, prete veneziano, narra la terapia intensiva come un’esperienza «di solitudine e di morte» ma anche di spinta all’affido: «Il 20 ottobre alle 3 del mattino, nel sistemarmi l’ossigeno, l’infermiera mi disse: “Reagisca e lotti con tutto se stesso, c’è tanta gente che prega per lei”. Subito ho preso tra le mani la corona del Rosario dal comodino e stringendola ho detto: “Mi abbandono a te”».

Luigi Sala, prete ambrosiano: «La morte l’ho avvertita vicinissima e in quell’istante ho avuto la consapevolezza della presenza di Dio come di un padre che era lì a sostenermi e di una moltitudine di persone che mi aiutavano con la preghiera (…) Ero pronto a qualsiasi richiesta: sia fatta la tua volontà».

Mi sforzavo di immaginare
l’amore di Gesù

L’affidamento da tutti è interpretato come una grazia. Serafino Acernozzi, del Fatebenefratelli: «Mentre le persone attorno a me morivano, il tutto era avvolto dal senso della presenza di Dio. Non posso attribuire a me stesso la capacità di questo sereno affidamento alla divina misericordia. Attribuisco, piuttosto, questo dono alle tante persone che hanno pregato per me».

Giorgio Franceschi e Romano Colozzi sono padri di famiglia e personaggi pubblici, ma danno atto di un passaggio dalla solitudine all’affidamento del tutto simile a quello dei consacrati che ho appena citato. «Ciò che più mi ha aiutato in quella fase è stato mettermi completamente nelle mani del Signore. E devo dire che da quel momento ho provato una serenità totale», dice il primo. Il secondo: «C’è stato un momento in cui ero davvero convinto che sarei morto, senza poter salutare mia moglie, i figli, la nipotina. Pregavo per essere liberato da questa prova però allo stesso tempo con il riconoscimento che la volontà di Dio è un bene per te, non ci toglie la fatica, ma dà senso a qualcosa che altrimenti non lo avrebbe».

Il passaggio dalla paura alla fiducia può costituire un percorso a ostacoli lungo quattro mesi passati negli ospedali, come nel caso di Leo Matzneller, volontario Caritas di Merano: «Consapevole di essere in pericolo di vita, ebbi una grande paura della morte. Mi rivolsi a Dio e implorai la sua misericordia. Mi sforzavo di immaginare l’amore di Gesù, ricordandomi delle sue parole confortanti nel Vangelo, del suo atteggiamento verso malati e peccatori. Piano piano, dopo giorni di lotta interiore, mi calmai, la fede nell’amore di Gesù prevalse».

Altre volte – come nel caso del neocatecumenale romano Giovanni De Cece – il cammino per l’affidamento può presentarsi più breve: «Sono entrato in ambulanza pensando che avrei potuto non tornare, ho salutato mia moglie, i miei figli. A questo punto ho cominciato a chiedere a Dio che cosa voleva fare con me, ero confuso, ma ero anche pronto nel senso che dicevo al Signore: dimmi tu».

Per scelte concrete
di conversione coraggiosa

Il vescovo Calogero Peri di Caltagirone svolge il dialogo con il crocifisso appeso davanti al suo letto: «La cosa più difficile da vivere insieme con il Cristo è stata la Pasqua. Seguirlo in questo nuovo e lucente cammino di vita è stato lungo e faticoso. La mia corsa alla tomba è stata più lenta di quella di Giovanni e Pietro. Ho sentito di toccare il fondo e mi sono chiesto se ci fosse per me una via di ritorno».

Concludo – come promesso – con don Piero Rattin, autore di un atto d’affidamento a Maria scritto per l’arcivescovo di Trento. Lo si può leggere nel sito dell’arcidiocesi. A coglierne la forza ricorderò che don Piero è passato per la terapia intensiva ed è un biblista, ha dunque nelle mani le carte essenziali per non dire troppo o troppo poco su questa ardua frontiera dell’affidare al Padre il proprio spirito, prendendo a modello le parole di Gesù sulla croce come suonano in Luca 23,46.

Ragionando sul proprio passaggio per la terra dei morenti, don Piero così riassume la sua personale preghiera di affidamento: «Padre, rimettermi alle tue mani – nonostante nulla sia chiaro – è infinitamente meglio che contare sulle mie. Ciò che tu hai in serbo è ben più prezioso di quanto io osi comunque domandarti con tenace e caparbia insistenza: per tutti e per me».

L’atto di affidamento comunitario, il biblista che ha conosciuto la tribolazione del fiato mancante, lo conclude così: «Maria, madre che stai presso la Croce, quando la tempesta si sarà calmata e il morbo che insidia le nostre vite avrà esaurito, o quantomeno ridotto la sua potenza, ottienici di valutare con sapienza di fede il drammatico evento che abbiamo sperimentato; rendici capaci di comprenderlo quale “segno dei tempi” e di coglierne le provocazioni – individuali, familiari, collettive – ad attuare scelte concrete di conversione coraggiosa e coerenti cambiamenti di mentalità e di condotta».

Reagire ai mali del COVID
con la memoria del bene

In questa conclusione vi è lo stesso richiamo alla conversione che il mese scorso avevo segnalato nelle ultime parole di quanti, combattendo contro il COVID e infine morendone, avevano potuto lasciare un ultimo messaggio.

La migliore reazione ai mali della pandemia è nella memoria del bene di cui è stata occasione; e tra questo bene, l’esperienza così frequente dell’affidamento e dell’appello alla conversione forse è il primo da tenere a mente.

 

www.luigiaccattoli.it

Tipo "Io non mi vergogno del Vangelo"
Tema Cultura e società
Area EUROPA
Nazioni

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