L’albero che salva
Cento anni fa nasceva Mario Rigoni Stern, lo scrittore della neve, dei boschi, dell’altopiano di Asiago, della guerra. Un grandissimo, ricordato soprattutto per Il sergente nella neve, indimenticabile struggente terribile racconto autobiografico della sua ritirata di Russia. Lo leggiamo a scuola, lo rileggiamo di tanto in tanto. Di guerra ha scritto molto e tanti lo interrogavano. Un testimone. Però di natura ha scritto sempre, anche quando il tema era la guerra. Come sentiva la vita intorno a sé, gli animali, le piante.
Quarant’anni dopo Il sergente nella neve pubblica Arboreto salvatico (Einaudi, Milano 1991), un piccolo incantevole libro dove Mario Rigoni Stern passa in ordinata rassegna gli alberi della sua casa, della sua vita. Il titolo ha una bella storia. Arboreto perché il termine indica una raccolta di alberi che vengono osservati e studiati. Si tratta degli alberi che anno dopo anno Rigoni Stern ha trapiantato intorno alla sua casa, in un terreno che ha dovuto bonificare dalla devastazione della Grande guerra.
C’è una storia anche qui. Prima della guerra c’era il bosco. Lì «tra gli alberi antichi si era nascosta una batteria austriaca di sei obici da dieci, ma poi, nell’estate del 1918, un fuoco di controbatteria di centinaia di cannoni aveva distrutto obici alberi e uomini» (nota all’edizione 1996 – da cui citiamo –, p. V).
Forse avevano sparato anche con il gas e gli alberi sembravano proprio non voler attecchire. Lui bonifica la terra da granate, palle di piombo, cartucce e ossa. E comincia a piantare. Lo fa con i figli bambini. Prende un pino silvestre trovato fra i sassi e lo trapianta con lo stesso orientamento di dove era nato. Poi due betulle. Poi un faggio, un abete, un pino mugo e infine anche un ciliegio e un melo. Doni di amici. Ricordi di passeggiate.
Ecco l’arboreto che Rigoni Stern osserva crescere. «Salvatico», forma antica di selvatico e più bella perché, dice Rigoni Stern, suggerisce l’idea di salvezza. Natura che si osserva e accudisce ma selvatica, libera, che salva.
E infatti ogni albero allarga la sua storia fra le pagine e ci porta lontanissimo geograficamente e nel tempo e poi nel mito e ancora nella fede, nella scoperta delle proprietà medicinali, e poi ancora nella letteratura, la poesia.
C’è il tiglio. «Il cerchio d’oro del tiglio/è come un serto nuziale», scrive Pasternàk in una sua lirica (35). I tarli non intaccano il tiglio. Come l’oro per questo è prezioso.
C’è il tasso. Albero bivalente come spesso i simboli: dice la morte e l’eternità (cf. 37). Forse perché sono longevi? E anche però velenoso. Tutte le parti sono velenose, tranne la polpa delle bacche. E ci porta dall’Altopiano di Asiago alla Scozia a Fonte Avellana. Si viaggia con gli alberi, così immobili, così ancorati alla terra.
C’è il frassino che veniva sempre piantato vicino alle case fino a diventare grandissimo. Forse perché le foglie curano i reumatismi, la corteccia abbassa la febbre grazie alla sua salicina. Il Fraxinus ornus, l’orniello, produce la manna, un essudato del tronco che è un rinfrescante molto usato nel passato e anche ora.
Quanta salute dagli alberi. E quanto ci portano lontano. I migliori ornielli da manna sono in Sicilia. I greci lo chiamavano «albero felice» e ne parla Esiodo come dell’albero da cui arriva la «terza stirpe» di uomini, «potente e terribile». Ma ancora, sotto un frassino gigante lassù nel Nord dell’Europa gli dèi si riuniscono a consiglio. È Yggdrasill, l’albero del destino (46).
C’è la betulla, albero chiaro, di luce e neve. È generosa, dalla corteccia si ricavano calzature, coperture per pavimenti, stuoie, addirittura farina per fare un pane di emergenza, durante la Seconda guerra mondiale. E poi, è un albero divino, scala verso il cielo per le popolazioni del Nord euroasiatico. E anche erotico: «per Sergej Esenin, il poeta arcangelo-contadino che passò attraverso il bene e il male dell’esistenza per lasciarci un dolce messaggio, la betulla è l’albero fanciullo, l’albero-amore: ...Solleva la tua brocca, o luna calma, / ad attingere latte di betulla ...O seno di fanciulla, / verde capigliatura, / perché guardi, o betulla, / la pozzanghera scura?... Il vento-giovinetto sino alle spalle/ ha sollevato la veste della betulla» (50).
Poi c’è il sorbo dalle bacche di corallo, di cui parla anche Borìs Pasternàk nel Dottor Zivago. Il suo era in Siberia, 1919, quelli di Rigoni Stern sono altri: fuori dall’ufficio del catasto nel 1946-47, nel suo personale arboreto mentre scrive. Belli, carichi di frutti così tanto che i rami si piegano, e poi, dopo il passaggio degli uccelli voracissimi, improvvisamente più leggeri, si alzano verso il cielo, sempre lui, quasi felici di aver potuto distribuire il dono.
E c’è la quercia, albero in mille modi sacro, tanto che «persino i soldati di Cesare, in Gallia, avevano timore ad affrontare il taglio» (59). Chissà come si sentirebbero i soldati di Cesare a squarciare i tronchi scuri compatti degli antichi ebani della foresta tropicale che devastiamo al ritmo di 3,8 milioni di ettari l’anno. Un pericolo per il clima, la salute della terra, delle persone.
Legno pregiato quello della quercia, compatto, durissimo, alle botti del vino. È soggetto di dipinti, quante querce nei quadri del romanticismo, venerata, amata, luogo di sospiri amorosi, appuntamenti. Albero di Giove. Le querce ci danno il vischio, pronubo e propiziatorio di giorni felici.
Ora che gli uomini si manifestano insensibili verso la vita vegetale, la vita degli alberi è diventata sempre più ardua, scrive Mario Rigoni Stern (44).
Anche la vita degli uomini. Anche la nostra.