La patria riconoscente
C’è un paese che si chiama Campon (in realtà è Rossano Veneto, dice chi sa le cose) e ci sono 19 ragazzi i cui cognomi sono uguali a gruppi di 4 o 5, come capitava nei paesi piccoli in cui ci si sposa fra quasi parenti. Ci sono i Carlotto, i Carta, i Marchetti, i Velo e c’è un Francuzzi. Sono nati tutti nel 1921, esattamente 100 anni fa, alle soglie del fascismo. Anche l’autore è nato nel 1921. È Giulio Cisco e in questo romanzo (La patria riconoscente, Camunia, Firenze 1988) racconta le loro storie attraverso gli occhi pensanti di un bambino che accompagna la nonna levatrice di casa in casa intonando lungo le strade del paese il suo canto straziante: Voleva per Pasqua sposarmi / ma il destino non volle così / non avendo compiuto i vent’anni/che sul Piave innocente morì (20).
Inizio folgorante, con la nascita, a gennaio, di Antonio Carlotto figlio di Angelo, che si rifiuta di farlo battezzare perché, finita la guerra, è ormai il tempo di dare la terra ai contadini e di chiuderla con ogni padrone, fosse pure Dio. Nell’estate di quell’anno una siccità misteriosa scende sulle terre e l’arciprete organizza una processione per la pioggia, le Madri cristiane col velo nero in testa, le ragazze col velo bianco e tutto il paese dietro. La cerimonia riesce benissimo e intanto il piccolo Antonio, ancora pagano e forse responsabile del castigo, viene battezzato di nascosto. Solo che quattro giorni dopo arrivano le nubi sbagliate, nere come la notte e la grandine spenna le viti da tutta l’uva verde che portavano.
C’è un’umana commedia che scorre affascinante e irresistibile, miscuglio di fatica, fede, superstizione stipate insieme dentro la stessa famiglia, come nel ramo dei Carta soprannominato Ponaro, «violenti e buoni come il pane (...) lavorando bestemmiavano tutto il giorno con feroce accanimento, ma non perdevano una messa. L’arciprete voleva loro bene perché Iddio era, in qualche modo, sempre presente fra loro» (21).
C’è l’inizio della globalizzazione che arriva con il nuovo fattore, dopo la morte del vecchio conte Bigolin, che veniva «in villa ogni settembre con una nuova signora sempre più giovane (...) un padrone che lasciava coltivare tutto quello che era necessario alla vita: pomodori per la pasta, rosmarino per l’arrosto, gelsi per i bachi, patate per la cena, viti per il vino, granturco per tutti i giorni» (22). Il nuovo fattore, che non era nemmeno padrone, «aveva sradicato tutto» e voleva grano, solo grano. Che poi si vendeva per comprare i pomodori del Sud perché erano più grossi. E così a Campon dai Carta Ponari era arrivata la miseria.
C’è l’arciprete convinto che «l’età decisiva per la dottrina era dai tre ai sei anni (...) Bisognava togliergli subito la capacità di stupirsi, altrimenti si sarebbero messi a discutere e, Dio non voglia, a protestare, perdendo in un sol colpo la rassegnazione terrena e il premio celeste» (46). E così intanto imponeva il taglio dei riccioli da angioletto ai piccoli, perché era più facile plasmare la testa senza l’ingombro dei capelli, cosa peraltro dimostrata dal fatto che i generali imponevano la stessa cosa a tutto l’esercito, e con lo stesso scopo.
Non si sa cosa lasciar fuori nel parlare di questo romanzo corale, struggente, tremendo nel ricordare il devasto delle guerre, due guerre così vicine che c’è stato chi le ha fatte tutte e due e chi non ha avuto nemmeno il tempo di tirare il fiato fra l’una e l’altra.
Un capolavoro l’immagine di Giuseppe Carta che durante la Prima guerra mondiale «aveva catturato da solo un tedesco e invece di consegnarlo al comandante se lo era portato a casa perché c’era da tagliare il grano, in barba a Cadorna che voleva fucilarlo per diserzione e a Diaz che lo aveva cercato fino al giorno dell’amnistia senza riuscire a prenderlo» (22). Il tedesco resta a casa dei Carta e quando nasce il loro bambino Guerrino nel febbraio del solito 1921, «tenne a battesimo il piccolo e cantò una canzone così triste che fece piangere tutti».
Disseminate qua e là ci sono lezioni di storia. L’anno in cui ci fu il Raduno nazionale sul Grappa gli abitanti alpini di Campon salgono pieni di spirito di corpo e di umanità mai persa. Il terreno restituisce elmetti, baionette, giberne della Prima guerra mondiale, anche uno scarpone con dentro ancora degli ossicini del piede. È di un tedesco, ma tutti decidono che va raccolto e seppellito in terra consacrata. Quando a Col Moschin gli alpini artiglieri, che hanno portato su un pezzo di artiglieria, sparano una cannonata che mette tutti in silenzio, perché arriva il generale Giardino a tenere il discorso, allora, in quel momento Angelo Corte di Campon dice che se avessero dato a lui il cannone avrebbe sparato dritto al generale Giardino perché «ne ha ammazzati più lui del diluvio universale» (67). A proposito di rivisitare la storia e i suoi monumenti, quello al generale Giardino giganteggia ancora oggi a Bassano, in fondo al viale delle Fosse.
La prima parte del racconto è un’epica. Le famiglie di Campon lavorano, litigano, mettono al mondo figli, si scazzottano, si ubriacano, si inventano di tutto per vivere vivere vivere. E intanto il fascismo si ingegna per mandarli a morire. E c’è chi diventa fascista spontaneamente. Per ignoranza, opportunismo, stupidità, per niente, per pura pazzia. Ma intanto, almeno all’inizio, continuano ad aiutarsi a vivere. La seconda parte è una tragedia. Come la nuova guerra si macina uno a uno i 19 coscritti è racconto così doloroso da togliere il respiro.
Il romanzo si chiude sui 19 nomi e la loro data di nascita, tutti del 1921, incisi su una targa commemorativa davanti al Monumento ai caduti. Non c’è rabbia. Solo voglia di pace.